Il potere di autotutela tributaria in malam partem: tra continuità dell’accertamento e tutela del legittimo affidamento
Il potere di autotutela tributaria in malam partem: tra continuità dell’accertamento e tutela del legittimo affidamento
Il potere di autotutela tributaria in malam partem, consistente nell’annullare, per motivi di legittimità, un provvedimento che prevedeva nei confronti del contribuente l’obbligo di pagare una determinata somma, e nell’adottare, in sostituzione, un altro provvedimento avente nei riguardi del contribuente stesso un carattere peggiorativo (ossia obbligo di pagare una somma più elevata), incontra il limite costituito dal legittimo affidamento (art. 1 comma 3 bis della Legge 212/2000) alla stabilità e certezza del precedente accertamento (più favorevole).
The power of tax self-defense in malam partem, consisting in canceling, for reasons of legitimacy, a provision which provided for the taxpayer the obligation to pay a certain sum, and in adopting, in substitution, another provision with regard to of the taxpayer himself a pejorative nature (i.e. obligation to pay a higher sum), meets the limit constituted by legitimate expectations (art. 1 paragraph 3 bis of Law 212/2000) to the stability and certainty of the previous (more favorable) assessment.
Un altro limite all’esercizio del potere di autotutela tributaria in malam partem è costituito dal fatto che, quando l’accertamento di una violazione diviene definitivo a seguito della mancata impugnazione del relativo atto, tale definitività, in virtù del principio del “ne bis in idem” di cui all’art. 1 comma 3 bis dello Statuto, dovrebbe impedire all’Amministrazione Finanziaria di riaprire il procedimento avente lo stesso oggetto e quindi di adottare un provvedimento di contenuto ancor più restrittivo. Tuttavia, a norma dell’art. 10 quater comma 1 Statuto, l’Amministrazione Finanziaria può annullare in autotutela l’atto impositivo anche quando quest’ultimo sia divenuto “definitivo”, a seguito appunto della mancata impugnazione, e pertanto la mancata impugnazione non sembra sufficiente ad impedire la riedizione del potere tributario, sotto forma di adozione di un atto a contenuto peggiorativo.
Another limit to the exercise of the power of tax self-defense in malam partem is constituted by the fact that, when the assessment of a violation becomes definitive following the failure to challenge the relevant act, this definitiveness, by virtue of the principle of "ne bis in idem” referred to in the art. 1 paragraph 3 bis of the Statute, should prevent the Financial Administration from reopening the proceeding having the same object and therefore from adopting a measure with an even more restrictive content. However, pursuant to art. 10 quater paragraph 1 of the Statute, the Financial Administration can self-defendably cancel the taxation act even when the latter has become "final", following the lack of appeal, and therefore the lack of appeal does not seem sufficient to prevent the reissue of the power tax, in the form of the adoption of an act with a pejorative content.
Il contribuente, nel caso in cui non abbia ancora provveduto all’integrale pagamento delle somme accertate con il primo provvedimento (illegittimo), non sembra poter invocare alcun affidamento relativo alla non modificabilità in peius della pretesa tributaria, in quanto, ai sensi dell’art. 31 comma 1 D.P.R. 602/73, il pagamento parziale deve essere obbligatoriamente accettato dal concessionario della riscossione anche quando esso venga fatto a valere su rate scadute e cioè anche quando il contribuente sia stato inadempiente. Di conseguenza, per parità di trattamento, non sembra possibile impedire all’Amministrazione Finanziaria, la quale sia stata in errore nel quantificare le somme oggetto del pagamento parziale, annullare il relativo provvedimento sostituendolo con un altro di contenuto peggiorativo per il contribuente (somme maggiorate)
The taxpayer, in the event that he has not yet made the full payment of the sums assessed with the first (illegitimate) provision, does not appear to be able to invoke any reliance relating to the non-modification in peius of the tax claim, since, pursuant to art. . 31 paragraph 1 Presidential Decree 602/73, the partial payment must be accepted by the collection agent even when it is made on expired installments and that is even when the taxpayer has been in default. Consequently, for equal treatment, it does not seem possible to prevent the Financial Administration, which was in error in quantifying the sums subject to the partial payment, from canceling the relevant provision by replacing it with another which is detrimental to the taxpayer (increased sums).
La Corte di Cassazione SSUU, con sentenza n. 30051 del 21.11.2024, ha affrontato la problematica relativa alla c.d. “autotutela tributaria sostitutiva in malam partem”, la quale si ha quando l’Amministrazione Finanziaria (di seguito “AF”), dopo aver adottato un atto impositivo, lo annulla sostituendolo con un altro che prevede una maggiore imposizione, e che quindi ha un effetto, appunto, peggiorativo per il contribuente rispetto a quello, ugualmente restrittivo ma più lieve, che era stato adottato (e poi annullato).
Le SSUU hanno elaborato i seguenti principi:
1) il contribuente non può dire che il secondo provvedimento (più grave) emesso nei suoi confronti è assimilabile a quello che viene adottato a seguito del c.d. “accertamento integrativo” previsto dagli artt. 43, quarto comma (ora terzo) del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57, quarto comma, d.P.R. n. 633 del 1972, e che quindi il suddetto provvedimento è valido solo se determinato dalla “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”, in assenza dei quali pertanto il medesimo deve essere considerato come illegittimo.
Tale assimilazione – dice la Corte – non è fondata in quanto l’accertamento integrativo è caratterizzato non dalla conoscenza di elementi nuovi relativamente al provvedimento già emesso bensì da una nuova pretesa che si affianca a quella originaria e che, costituendo appunto una novità rispetto a quest’ultima, legittima l’adozione di un provvedimento di contenuto diverso, il quale quindi va non già ad “integrare” bensì a sostituire integralmente il primo atto.
L’art. 43 comma 3 DPR 600/1973 prevede che “l'accertamento puo' essere integrato o modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi da parte dell'Agenzia delle entrate. Nell'avviso devono essere specificamente indicati, a pena di nullita', i nuovi elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza dell'ufficio delle imposte”. L’accertamento di una somma maggiore (integrazione o modifica peggiorative) rispetto a quella prima quantificata deriva dalla “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi”. Esso deriva dalla scoperta di fatti dei quali l’AF, al tempo del provvedimento, non poteva avere conoscenza, e che quindi non sono dipesi da “errori di valutazione” commessi dalla stessa. Di conseguenza, il fatto che in precedenza sia stato adottato un provvedimento meno grave non comporta, a favore del contribuente, la definitiva cessazione della pretesa tributaria: questa, infatti, può “rivivere”, in forma per lui peggiorativa, se si verificano presupposti i quali, al momento in cui è stato adottato l’atto meno grave, non esistevano e pertanto non potevano essere conosciuti dall’AF.
Nel caso affrontato dalle SSU, invece, il fatto che determina un accertamento peggiorativo per il contribuente, è costituito non dalla sopravvenienza di fatti prima mai verificatisi, bensì dal riscontro di profili di illegittimità del provvedimento precedentemente adottato (e che era meno grave per il contribuente), e quindi dalla decisione dell’AF sia di procedere al suo annullamento in via di autotutela, sia di sostituirlo con un altro atto a carattere ancor più restrittivo. In questo caso, quindi, l’evento che ha determinato il sorgere di una nuova pretesa tributaria di importo maggiore rispetto a quella oggetto dell’atto annullato, è stato caratterizzato non dalla “imprevedibilità” (come nel caso dell’accertamento integrativo/modificativo), bensì da un “errore di valutazione” commesso dall’AF, la quale ha, sbagliando, ritenuto che il contribuente fosse tenuto al pagamento di una somma minore rispetto a quella da egli realmente dovuta. L’AF si è accorta che, anziché il provvedimento meno grave, avrebbe dovuto essere applicato un provvedimento più grave nei confronti del contribuente, in quanto è quest’ultimo, e non il primo, che la legge prevede.
Ora, ferma restando la differenza tra le due fattispecie, negare all’AF la possibilità di annullare un atto (illegittimo) adottato per “errore”, ed impedire alla stessa di emettere, in sostituzione, un nuovo provvedimento – più grave per il contribuente – il quale accerti l’esatta entità della somma dovuta, significherebbe affermare che l’autotutela in malam partem non debba trovare diritto di cittadinanza all’interno dell’ordinamento tributario.
Una simile conclusione appare assai difficile da sostenere, e ciò sia perché il principio generale in materia di procedimento amministrativo è che l’annullamento in autotutela ha ad oggetto proprio i provvedimenti attributivi di vantaggi economici (art. 21 nonies Legge 241/90), e quindi anche quelli che abbiano stabilito a carico del privato (in tal caso, il contribuente) obblighi meno gravi rispetto a quelli poi successivamente previsti da un nuovo atto adottato in sostituzione, sia perché il divieto di autotutela in malam partem determinerebbe l’impossibilità per l’AF di adempiere al proprio ruolo istituzionale, ossia quello di garantire la corretta esazione dei tributi.
Ebbene, il punto è proprio quest’ultimo: la riscossione del tributo deve essere “corretta”, ossia deve avvenire in conformità alle norme di legge.
E allora si tratta di vedere su quali norme il potere di autotutela in malam partem possa dirsi effettivamente fondato.
La Legge 212/2000 (di seguito “Statuto”), all’art. 10, disciplina la “tutela dell’affidamento e della buona fede” del contribuente, stabilendo quanto segue: “non sono irrogate sanzioni nè richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell'amministrazione finanziaria, ancorche' successivamente modificate dall'amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell'amministrazione stessa” (comma 1). L’AF, se ha errato nel qualificare come legittimo un provvedimento che invece era illegittimo, non potrà poi, a valere sul medesimo atto, né chiedere il pagamento degli interessi di mora né infliggere sanzioni. Ma ciò non significa che essa non possa sostituire tale provvedimento con un altro avente un contenuto peggiorativo per il contribuente: un conto è l’impossibilità di chiedere interessi di mora e/o di applicare sanzioni, ossia chiedere una prestazione accessoria (tale è sia “l’interesse” sia la “sanzione”) rispetto ad un atto di cui è stata riconosciuta la illegittimità, in quanto, se l’atto base è contra legem, lo saranno anche gli effetti che dal medesimo dipendono (invalidità derivata); un altro conto, invece, è sostituire integralmente il provvedimento illegittimo con un altro di contenuto diverso, il quale si caratterizza non per il fatto di imporre prestazioni direttamente collegate al primo ma per il fatto di imporre prestazioni del tutto autonome, completamente sganciate da quest’ultimo.
Pertanto, al quesito se a favore del contribuente si possa configurare l’esistenza di un legittimo affidamento in merito al fatto che nei suoi confronti non possa essere successivamente adottato un atto a carattere peggiorativo rispetto a quello in precedenza adottato, si deve dare una risposta negativa, e quindi la decisione espressa dalle SSUU sembra cogliere nel segno.
Vi è un caso in cui l’atto sanzionatorio – ossia quello vietato dall’art. 10 comma 1 Statuto – e l’atto impositivo – cioè quello che giustifica l’adozione di un secondo provvedimento più grave per il contribuente – sono posti sullo stesso piano: è quello previsto in materia di silenzio dell’AF.
L’art. 11 comma 5 Statuto prevede che la mancata risposta dell’AF, entro il termine di 90 gg., ad un’istanza di interpello del contribuente, determina il “silenzio”, che “equivale a condivisione della soluzione prospettata dal contribuente”. Ebbene, la norma stabilisce che “gli atti, anche a contenuto impositivo o sanzionatorio difformi dalla risposta … anche tacita, sono annullabili”.
Il principio, quindi, è quello per cui “l’imposizione”, se è contraria ad una previsione di legge (qual è quella del silenzio assenso qualificato), è nulla esattamente come lo sarebbe la “sanzione”. Ma, nel caso in cui venga adottato un provvedimento più grave di quello riconosciuto come illegittimo (e che, perciò stesso, annullato), l’imposizione è finalizzata non a violare la legge bensì, all’opposto, a ripristinare la legalità violata, e pertanto in questo caso non si può invocare l’applicazione dell’art. 11 comma 5 al fine di equiparare “l’imposizione” alla “sanzione” e di poter quindi sostenere che il divieto di cui all’art. 10 comma 1 (“sanzione”) si applichi anche all’adozione di un secondo provvedimento più grave (“imposizione”).
Pertanto, è anche sotto questo aspetto che la decisione delle SSUU appare corretta.
Tuttavia, si consideri quanto segue.
1) Nel D.P.R. 600/73 (“Accertamento imposte”), la facoltà per l’AF di accertare un maggior reddito imponibile, e quindi di adottare un provvedimento peggiorativo per il contribuente, è prevista a fronte del fatto che quest’ultimo ha reso una dichiarazione solo parziale del reddito effettivamente imponibile (art. 41 bis, il quale disciplina l’accertamento fatto tramite l’anagrafe tributaria), e non a fronte del fatto che l’AF stessa abbia errato nel considerare come legittimo un precedente provvedimento che prevedeva un trattamento più tenue. Stesso discorso vale per l’accertamento della maggiore imposta la quale derivi dai controlli automatici oppure da quelli che l’AF esegue di ufficio prima della presentazione della dichiarazione annuale (art. 36 bis comma 3): neanche in questo caso l’accertamento della maggiore imposta è il frutto dell’annullamento di un precedente provvedimento il quale, illegittimamente, prevedeva un trattamento meno grave nei confronti del contribuente. Stessa cosa vale per la maggiore imposta la quale emerga a seguito del controllo delle dichiarazioni presentante dalle società tenute alla redazione del bilancio consolidato (art. 40 bis comma 3). L’accertamento di una maggiore imposta, e quindi di un aggravamento della posizione del contribuente, può conseguire anche dopo che quest’ultimo abbia chiesto che venissero computate in diminuzione dal reddito imponibile le perdite pregresse prima non utilizzate a tal fine (art. 42 comma 4): ebbene, neanche qui il suddetto aggravamento deriva dall’annullamento in autotutela di un precedente atto. Pertanto, nella disciplina relativa all’accertamento delle imposte, la possibilità per l’AF di adottare successivi atti i quali aggravino la posizione del contribuente, quale accertata da un provvedimento precedente, è prevista solo a fronte di un comportamento colposo (o doloso) del medesimo (vedi errata dichiarazione), e non anche a seguito del fatto che l’AF abbia erroneamente ritenuto legittimo un provvedimento (più tenue per il contribuente) che invece era illegittimo.
Le suddette norme che disciplinano l’accertamento delle imposte, se da un lato possono anche non essere considerate idonee a negare il fondamento giuridico del potere di autotutela tributaria in malam partem, al tempo stesso si prestano ad essere utilizzate per sostenere il principio secondo cui tale autotutela deve comunque necessariamente incontrare dei limiti, che sono quelli rappresentati dal diritto del contribuente ad un legittimo affidamento in merito alla stabilità ed alla certezza della posizione debitoria precedentemente accertata e quindi a non essere perennemente esposto al rischio di subire, mediante l’annullamento di ufficio, gli effetti di un secondo provvedimento a contenuto peggiorativo. Non a caso le “ragioni di certezza e stabilità” vengono espressamente evidenziate dalle stesse SSUU nella decisione in commento, ed inoltre la tutela del legittimo affidamento è espressamente prevista quale principio generale dello Statuto (art. 1 comma 3 bis).
2) L’attività di accertamento dell’AF si può considerare conclusa, e quindi insuscettibile di proseguire, quando essa sia divenuta “definitiva”: a partire da tale momento essa non può essere proseguita in quanto ha “raggiunto il suo scopo”. Non potendo essere proseguita, essa non può essere “riaperta” per accertare l’esistenza, a carico del contribuente, di un debito maggiore rispetto a quello in precedenza acclarato.
Una violazione può essere considerata come “definitivamente” accertata solo se il contribuente, avverso l’atto impositivo, non abbia mai proposto impugnazione. Quindi, se si segue questo criterio, il divieto per l’AF di annullare un precedente atto meno grave per il contribuente e di sostituirlo con uno più grave, è destinato ad applicarsi solo laddove egli non abbia impugnato tale atto meno grave, in quanto proprio la mancata impugnazione di un precedente provvedimento “tenue” sancisce la definitività dell’accertamento e la conseguente impossibilità per l’AF di riaprire, in senso peggiorativo per il contribuente stesso, l’attività istruttoria. L’AF aveva accertato un debito di 50, il contribuente non ha impugnato, e, per tale ragione (definitività dell’accertamento), adesso l’AF non può dire che il medesimo debito è di 100 (atto peggiorativo). Tale tesi, per coerenza, deve comportare che, nell’ipotesi opposta, ossia quella in cui il contribuente abbia impugnato l’atto meno grave, non debba essere precluso all’AF di eseguire ulteriori accertamenti in merito al medesimo debito, e quindi si pone il seguente quesito: nel processo tributario, disciplinato dal D.lgs. 546/1992, esiste una norma in base alla quale l’AF, nonostante l’avvenuta impugnazione, può continuare l’attività di verifica a valere sul medesimo debito il cui atto di accertamento sia stato impugnato, fino al punto di poter arrivare ad una quantificazione ancor maggiore del debito stesso? Porsi questa domanda è importante perché, in assenza di una norma simile, manca sempre la controprova della su esposta tesi, la quale pertanto non può essere accolta. Nel D.lgs. 546/1992 non sembrerebbe potersi individuare una norma ad hoc, però la sopravvenienza, in corso di processo, di fatti nuovi, i quali siano il frutto di una “nuova” attività istruttoria compiuta dalla PA, e diversi da quello su cui il ricorso è stato basato, comporta una modifica dello svolgersi del processo stesso che è del tutto legittima. Si pensi, p.es., all’art. 43 del D.lgs. 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo), il quale, nel disciplinare i c.d. “motivi aggiunti”, prevede la possibilità per le parti di presentare “domande nuove connesse a quelle già proposte”, il che vuol dire facoltà di richiedere, relativamente alla pretesa oggetto del ricorso (“connessione”), il pagamento di una somma maggiore – ecco dove sta “la novità” – rispetto a quella quantificata negli atti introduttivi del ricorso. Ciò testimonia, appunto, che l’AF, ove il contribuente abbia impugnato il provvedimento, può, legittimamente, compiere un’ulteriore attività di verifica dell’entità del medesimo debito ed approdare quindi all’adozione, anche in corso di giudizio, di un secondo provvedimento di contenuto peggiorativo per il contribuente stesso. Di conseguenza, nella differente ipotesi in cui invece il provvedimento non sia stato impugnato, l’AF non dovrebbe considerarsi legittimata ad eseguire, in relazione al medesimo debito, un’istruttoria ulteriore e quindi ad adottare un secondo atto a carattere più restrittivo.
A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 15 del D.P.R. 602/73 (“Riscossione imposte”), “le imposte, i contributi ed i premi corrispondenti agli imponibili accertati dall'ufficio ma non ancora definitivi, nonche' i relativi interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell'atto di accertamento, per un terzo degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili accertati”. L’imponibile può essere accertato in misura maggiore a seguito di un accertamento che non sia ancora divenuto definitivo: da ciò si ricava che, ove lo stesso sia divenuto definitivo (a seguito di mancata impugnazione), non è ammesso un accertamento di un “maggior” imponibile e quindi non è consentita l’adozione di un secondo provvedimento di contenuto peggiorativo rispetto al precedente.
Pertanto, non appare manifestamente infondato sostenere che il potere di annullamento in autotutela in malam partem non è esercitabile dall’AF quando l’atto, che dovrebbe essere annullato e sostituito con uno ancor più restrittivo, non sia stato impugnato.
Del resto, questo principio si sposa con quanto affermato dalle stesse SSUU (vedi punto 2), le quali ritengono che il contribuente possa invocare il legittimo affidamento derivante dal precedente provvedimento (quello meno grave) solo nel caso in cui l’AF, prima di adottarlo, abbia fornito indicazioni oppure abbia dottato comportamenti contraddittori, e le somme siano state comunque compiutamente da egli versate. La mancata impugnazione del (primo) provvedimento meno grave implica accettazione dell’obbligo di pagare.
L’art. 1 comma 3 bis dello Statuto prevede, tra i principi generali dell’ordinamento tributario, quello del “ne bis in idem”, il quale deriva dal sistema processual penalistico. L’art. 649 c.p.p. prevede che “l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze…”. Chi sia stato condannato con sentenza definitiva, ossia con un provvedimento giudiziale che non è stato impugnato od avverso cui non sia più possibile proporre impugnazione, non può essere sottoposto ad un nuovo procedimento. Il “ne bis in idem” tributario comporta lo stesso effetto: il contribuente il quale non abbia impugnato, e che così facendo abbia reso “definitivo”, il primo atto impositivo (quello che prevedeva un trattamento più tenue), non può, adesso, essere destinatario di un “nuovo” atto impositivo adottato per il medesimo debito e che preveda un trattamento peggiorativo.
Tuttavia, a norma dell’art. 10 quater comma 1 Statuto, l’AF può annullare in autotutela l’atto impositivo anche quando quest’ultimo sia divenuto “definitivo”, a seguito appunto della mancata impugnazione, e pertanto la mancata impugnazione non sembra sufficiente ad impedire la riedizione del potere tributario, sotto forma di adozione di un atto a contenuto peggiorativo.
2) le SSUU affermano che il contribuente può invocare il legittimo affidamento derivante dal precedente provvedimento (quello meno grave) solo nel caso in cui l’AF, prima di adottarlo, abbia fornito indicazioni oppure abbia adottato comportamenti contraddittori, e le somme siano state comunque compiutamente da egli versate. Se l’AF, prima di adottare l’atto, aveva inizialmente affermato che il debito tributario sussisteva in una certa misura e poi successivamente (sempre prima dell’adozione) aveva comunicato che lo stesso debito era sì dovuto ma in una misura minore, e per effetto di tale mutamento di indirizzo il contribuente ha pagato la somma minore, adesso l’AF non può, annullando l’atto in autotutela, pretendere di emettere nei riguardi del medesimo un provvedimento sostitutivo il quale preveda l’obbligo di pagare una somma maggiore.
Nel ragionamento della Corte, ciò che sembra fare la differenza è il fatto che il contribuente abbia interamente pagato le somme previste dal provvedimento meno grave: è solo in tal caso che il legittimo affidamento del contribuente in merito alla definitiva cessazione della pretesa tributaria può essere tutelato, in quanto egli ha interamente saldato l’obbligazione posta a suo carico. Viceversa, nel caso in cui il contribuente non abbia ancora provveduto al versamento integrale della somma, l’annullamento in autotutela del provvedimento meno grave e la sua sostituzione con un provvedimento più grave non sarebbero lesivi di alcun legittimo affidamento, dal momento che il contribuente non ha ancora adempiuto.
Il principio, quindi, è quello per il quale il legittimo affidamento del contribuente non può essere tutelato se quest’ultimo non abbia interamente pagato il debito. Si tratta di vedere se tale principio sia effettivamente operante nell’ordinamento tributario.
In base al suddetto criterio, l’adempimento totale dell’obbligazione da parte del contribuente impedisce all’AF di procedere ad un annullamento in autotutela in malam partem. Il pagamento eseguito a chiusura della partita di debito osta a che la PA annulli il relativo atto di accertamento e lo sostituisca con un altro a contenuto peggiorativo. Alla base di tale criterio vi è, quindi, una concezione per la quale il pagamento integrale del debito estingue non soltanto quest’ultimo ma anche qualsivoglia altra pretesa tributaria, mentre il pagamento eseguito solo parzialmente non estingue quest’ultima nel senso che l’AF, pur a fronte di singoli pagamenti eseguiti dal contribuente, può annullare l’atto che a questi ultimi aveva dato origine e sostituirlo con un altro il quale preveda il pagamento di una somma maggiore.
Allora bisogna vedere se nell’ordinamento tributario esista un principio in base al quale, una volta che la somma sia stata pagata anche solo in parte, sia vietato per l’AF adottare un provvedimento sostitutivo più grave per il contribuente.
Per affermare un principio del genere, si dovrebbe dimostrare che sia sufficiente anche un singolo pagamento al fine di cristallizzare definitivamente la pretesa tributaria, impedendo che quest’ultima possa essere successivamente quantificata in misura maggiore, anche laddove tale quantificazione dovesse derivare dal riconoscimento dell’illegittimità dell’atto che aveva dato origine a quel singolo pagamento.
Il contribuente, se ha deciso di iniziare a pagare, è perché ha scelto di non impugnare l’atto impositivo, e quindi ha fatto sì che quest’ultimo diventasse “definitivo”. Come sopra già illustrato, ai sensi dell’art. 10 quater comma 1 Statuto, l’AF può annullare in autotutela l’atto impositivo anche quando quest’ultimo sia divenuto “definitivo”, a seguito appunto della mancata impugnazione. Ciò quindi significa che l’AF può annullare l’atto anche quando il contribuente abbia iniziato a pagare. Pertanto, il pagamento parziale non è sufficiente ad impedire la riedizione del potere tributario, sotto forma di adozione di un atto a contenuto peggiorativo.
Inoltre, il pagamento parziale, come deve essere obbligatoriamente accettato dal concessionario della riscossione anche quando esso venga fatto a valere su rate scadute (art. 31 comma 1 D.P.R. 602/73) e quindi nel caso in cui il contribuente si sia reso inadempiente all’obbligazione assunta al momento in cui il beneficio della rateazione gli è stato concesso, allo stesso modo, per parità di trattamento, non può impedire all’AF di annullare l’atto da cui il pagamento stesso aveva avuto origine e di sostituirlo con un atto a carattere peggiorativo. Il pagamento parziale, se può essere eseguito anche da un contribuente inadempiente, non può precludere all’AF, che aveva adottato un atto illegittimo, di riquantificare il debito in peius: nel primo caso c’è stato un inadempimento del privato, nel secondo caso vi è stato un errore della PA.
Di conseguenza, il principio affermato dalle SSUU appare essere corretto.