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Basta Covid! I dieci balletti da conoscere

Balletti
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1. Come innamorarsi della danza in dieci lezioni. Inizierei dal classico per eccellenza, il “Lago dei cigni”, nella versione del Royal Ballet del 1980, con Natalia Makarova nel duplice ruolo di Odette/Odile: la prima, dolente vittima di un incantesimo che l’ha trasformata in cigno, e la seconda, in versione nera, figlia del mago malvagio. Questa produzione elegante ha la sua punta di diamante nell’interpretazione carismatica della stella sovietica, che ha ispirato generazioni di ballerine, con la sua intelligenza curiosa, il suo umorismo, la versatilità, l’attenzione per le giovani leve. Accanto a lei, il principe inglese per eccellenza, Anthony Dowell, attento e sensibile. Una curiosità: le variazioni delle principesse nel “pas de quatre” del terzo atto furono create negli anni ’60 dal grande coreografo Frederick Ashton, ispirato dalle movenze del “twist”. Il risultato è un po’ bizzarro, ma cosa sarebbe l’Inghilterra senza un po’ di stravaganza?

2. “Giselle” è un altro caposaldo del repertorio classico. La storia della dolce contadina che muore di crepacuore per essere stata ingannata dal nobile Albrecht, e diventa una delle Willi, spiriti vendicativi che condannano gli uomini a danzare fino alla morte, ma sceglie di proteggere il suo amato anche dall’aldilà, è un vero e proprio manifesto del romanticismo. Tra le tante versioni continuo ad amare quella cinematografica del 1969 con Carla Fracci, un prodigio di musicalità e libertà espressiva, e una tecnica precisa e guizzante, ed Erik Bruhn, compatto e controllato, assai danese.

3. E per concludere il mio trittico ideale di balletto classico di matrice ottocentesca, il geniale “Don Chisciotte” nella versione del 1983 dell’American Ballet Theatre, con un incredibile Mikhail Baryshnikov, grande non solo per la qualità tecnica, ma per le finissime capacità attoriali che fanno sembrare naturali e mai artefatte tutte le parti mimiche. Al suo fianco Cinthia Harvey, giocosa, potente e disinvolta (e un pelino troppo alta per lui), e una compagnia ai massimi livelli, per un divertimento che non finisce mai.

4. Nel balletto “Marco Spada”, coreografato dal colto e autorevole Pierre Lacotte, le scene mimiche sono ridotte al minimo: è una sequela di variazioni, passi a due, numeri d’insieme, espressione di uno stile raffinato e veloce, tipico della scuola francese. Ed è divertente vedere delle ballerine-briganti sulle punte..! Mi ha entusiasmato la versione del Bol'šoj con l’étoile internazionale David Hallberg nel pieno della forma, poco prima di un grave incidente che gli è costato ben due anni di fisioterapia prima del ritorno sulle scene. Ma la pulizia tecnica e le linee impeccabili appartengono anche al resto del cast, prima fra tutte la meravigliosa Evgenia Obraztsova.

5. Dopo aver visto Alessandra Ferri nel “Romeo e Giulietta” del Royal Ballet del 1984 è quasi intollerabile vedere altre danzatrici in quella parte. Le linee incredibili, la delicatezza adolescenziale dei tratti, l’abbandono, la capacità di far sembrare ogni passo come qualcosa che nasce lì per lì perché collegato per necessità a un pensiero, a un sentimento, fanno di questa straordinaria artista qualcosa di unico. La coreografia di Kenneth MacMillan sembra (e non lo è) nata per lei. Personalmente ho qualche riserva sul Romeo di Wayne Eagling, a mio parere non abbastanza raffinato, ma finché c’è lei in scena tutto il resto scompare, tranne la musica di Prokofiev, che è altrettanto meravigliosa, lirica, oscura, tormentata.

6. E parlando di fenomeni senza i quali non si riesce più ad apprezzare un balletto, propongo la “Cenerentola” dell’Opéra di Parigi del 1987, sulla bellissima partitura di Prokofiev. Il grande danzatore russo Rudolph Nureyev, all’epoca direttore del teatro, creò una nuova versione del balletto per la giovane étoile Sylvie Guillem. E il mondo della danza ne fu sbalordito. Non si era mai vista prima una danzatrice così. Divenne istantaneamente famosa per le celebratissime gambe che alzava senza sforzo apparente fino all’orecchio, per il collo del piede talmente pronunciato che spesso rende la caviglia debole e i salti impossibili, ma in lei no, in lei la tecnica era regale, un dominio assoluto e in apparenza noncurante. Per anni nessuno si è accorto di quanto fossero belle le sue braccia: tutti guardavamo quanto alzasse le gambe. In questo balletto, ambientato nella Hollywood degli anni ’20, non mancano parti inutilmente complicate (era il marchio di fabbrica del Nureyev coreografo), specialmente per il divo del cinema, Charles Jude  ma la Guillem accende di luce tutto quello tutto quello che danza. Nota di merito per le due strepitose sorellastre, Isabelle Guérin e Monique Loudières. Che generazione irripetibile di étoiles…

7. Parlando delle opere di George Balanchine, coreografo russo naturalizzato statunitense, in pratica l’inventore del balletto in America, riesce difficile scegliere un solo titolo; ho scelto “Who cares?”, su musiche di George Gershwin, perché mette in luce le qualità strettamente “americane” del suo lavoro: la dinamica, la spregiudicatezza, le strizzate d’occhio al tip tap e al mondo del musical, la certezza assoluta che guida i ballerini nella capacità di raggiungere l’obiettivo, sempre più veloci, sempre più gioiosi. Cercatene una versione in cui danzi Tyler Peck, una danzatrice dall’energia portentosa, contagiosa, radiante, a dispetto di una costituzione fisica forse non ideale, ma il sogno americano non è forse questo? Che ce la puoi fare se ti impegni con tutto te stesso, anche se in partenza non hai granché?

8. A questo punto sarete ormai abbastanza esperti da iniziare ad apprezzare le riletture in chiave moderna. Vi propongo quindi un’altra “Giselle”, quella creata da Mats Ek per il Cullberg Ballet nel 1987, nella quale Giselle è una ritardata mentale, che finisce rinchiusa in un manicomio femminile. La protagonista, Ana Laguna, danza a piedi nudi, vestita male, muovendosi come uno strano animaletto, e i ballettofili DOC durante i primi cinque minuti storceranno un po’ il naso… per poi lasciarsi conquistare completamente. Un capolavoro di espressività, profondità, sentimento, per godere pienamente del quale è necessario conoscere la versione ottocentesca.

9. Nel 1991 il più che prolifico coreografo Jiri Kylian creò “Petite Mort”, su musiche di Mozart. Il titolo fa riferimento all’estasi che segue al rapporto sessuale. Uno dei passi a due è di una bellezza struggente. Se ne trovano sul web varie versioni, tra cui una con Sylvie Guillem, che la esegue da par suo, ma io preferisco quella danzata dagli artisti del Nederland Dans Theater, la compagnia per la quale Kylian ha creato la maggior parte dei suoi lavori, e che ha avuto modo, nel tempo, di assorbire completamente lo stile del coreografo, contribuendo anzi a crearlo.

10. E arriviamo così al balletto del futuro. Christopher Wheeldon è il coreografo più celebrato in questo momento, e il suo “Alice’s Adventures in Wonderland”, nato nel 2011 per il Royal Ballet, ma molto richiesto anche da altre grandi compagnie, è un vero gioiello per gli occhi, per lo spirito, per l’orecchio (musica davvero bellissima, mai banale e mai astrusa, di Joby Talbot). Wheeldon riesce a innovare il linguaggio del balletto senza snaturarlo. È capace di rendere danzabili anche degli esercizi prettamente tecnici, che di solito si fanno solo alla sbarra, come i battements frappés. I passi a due sono fluidi e aerei (tradizione inglese), i personaggi si muovono in un mondo di favola divertente e ironico, e la caratterizzazione della Regina di Cuori è già nella storia. La bellissima Lauren Cuthbertson nei leggerissimi panni di Alice si muove - e si lancia - alla velocità della luce con una naturalezza e una serenità che lasciano sbigottiti. Il Cappellaio Matto balla il tip tap (Wheeldon è anche coreografo di musical per il West End). Contaminazione e purezza, precisione e libertà di giocare. Incantevole!