Beni culturali - Cassazione Civile: fino a prova contraria i reperti archeologici sul territorio italiano sono dello Stato

Beni culturali - Cassazione Civile: fino a prova contraria i reperti archeologici sul territorio italiano sono dello Stato
Beni culturali - Cassazione Civile: fino a prova contraria i reperti archeologici sul territorio italiano sono dello Stato

La Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di Beni Culturali, ribadendo che nelle azioni giudiziali di rivendica, lo Stato può avvalersi di una presunzione di proprietà statale di beni archeologici presenti su suolo nazionale (articolo 869 Codice Civile patrimonio indisponibile dello Stato). Pertanto, spetterà all’attore che agisce in rivendicazione, smentire la riconducibilità di tali beni al territorio italiano e dar prova della loro origine straniera.

 

Il caso e i giudizi di merito

Un privato cita in giudizio, avanti il Tribunale di Venezia, il Ministero per i beni culturali e le attività culturali, chiedendo l’accertamento della proprietà e la conseguente restituzione di reperti archeologici. Questi reperti, difatti, a seguito di un procedimento penale contro l’attuale parte attrice, erano stati devoluti dal giudice penale alla Soprintendenza per i beni archeologici in Veneto. A sostegno della domanda, l’attore lamenta il fatto che i beni in questione fossero ormai da più di cinquant’anni in possesso della sua famiglia e conseguentemente a lui pervenuti per via ereditaria.

Tribunale e Corte d’appello rigettano le domande dell’attore.

In particolare, la Corte d’appello afferma che i beni d’interesse archeologico acquisiscono il carattere pubblicistico nel momento stesso in cui se ne ha la scoperta e, non essendo suscettibili di usucapione, il loro prolungato possesso non ne fa mutare la proprietà in capo ad altri soggetti (articolo 826 del Codice Civile). Conclude, inoltre, rilevando che il carattere culturale dei reperti era già risultato da una relazione precedente svolta da funzionari della Soprintendenza per il Veneto  nell’ambito del procedimento penale che aveva visto coinvolta la parte. Pertanto, sarebbe spettato all’attore dare prova della loro origine e acquisizione in terra straniera, così da legittimarne la detenzione.

 

Il ricorso in Cassazione

Nel ricorso in Cassazione, la parte sostiene che non vi è alcuna dimostrazione da parte del Ministero che gli oggetti fossero stati ritrovati nel sottosuolo o sui fondi marini italiani, essendo anche le modalità del rinvenimento presupposto per ricollegare la proprietà di beni in capo allo Stato (articoli 10 e 91, primo comma, del Decreto Legislativo n. 42 del 2004). Per di più mancherebbe l’accertamento del carattere culturale degli oggetti, dal momento che non è possibile evincerlo da alcun documento valido portato a giudizio.

A tal proposito lamenta che la Corte d’appello abbia fondato la propria decisione esclusivamente sulla relazione dei funzionari, stesa nel corso del procedimento penale. Ed a tale relazione non dovrebbe essere riconosciuta alcuna efficacia probatoria essendo un atto d’indagine e non di prova.

In fine, sostiene che nel corso del giudizio non sono stati provati né la provenienza dei beni da territori italiani, né il loro carattere culturale. Secondo il ricorrente, l’onere di darne prova gravava, appunto, sull’Amministrazione e non tanto sull’attore, e, in ogni caso, le eventuali prove sarebbero state superate dando testimonianza dell’avvenuta usucapione per possesso da oltre cinquant’anni degli oggetti.

 

Il giudizio della Cassazione

La Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo infondate le motivazioni sulla scorta del proprio orientamento (Cassazione, sezione I, 10 febbraio 2006, n. 1995) in forza del quale lo Stato si avvale di una presunzione di proprietà dei beni archeologici. 

Nel caso di specie, peraltro, rileva la Cassazione, nei rilievi dei funzionari vi è stata la conferma della loro provenienza da aree site su territorio italiano. Per queste ragioni spettava all’attore dar prova dell’inesistenza del diritto in capo allo Stato. Inoltre, l’appartenenza dei beni alla categoria delle cose di interesse archeologico, li rende direttamente ricompresi nell’ambito dei beni di carattere culturale.

Sul piano probatorio, la Cassazione afferma che non essendovi alcun impedimento normativo che non permetta ad un giudice civile l’utilizzazione di prove derivanti da differente giudizio, la Corte d’appello non è incorsa in un irregolarità avvalendosi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, se considerate sufficienti allo scopo.

A conclusione delle motivazioni del rigetto, la Corte ribadisce che, sulla base della Legge 20 giugno 1909, n. 364, sulla inalienabilità delle antichità e delle belle arti, è irrilevante il ritrovamento nell’abitazione dell’attore, né tanto meno il tempo della loro permanenza al suo interno, essendo l’usucapione impossibile su questo genere di beni.

La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza  26 aprile 2017, n. 10303)

La Corte di Cassazione si è pronunciata in tema di Beni Culturali, ribadendo che nelle azioni giudiziali di rivendica, lo Stato può avvalersi di una presunzione di proprietà statale di beni archeologici presenti su suolo nazionale (articolo 869 Codice Civile patrimonio indisponibile dello Stato). Pertanto, spetterà all’attore che agisce in rivendicazione, smentire la riconducibilità di tali beni al territorio italiano e dar prova della loro origine straniera.

 

Il caso e i giudizi di merito

Un privato cita in giudizio, avanti il Tribunale di Venezia, il Ministero per i beni culturali e le attività culturali, chiedendo l’accertamento della proprietà e la conseguente restituzione di reperti archeologici. Questi reperti, difatti, a seguito di un procedimento penale contro l’attuale parte attrice, erano stati devoluti dal giudice penale alla Soprintendenza per i beni archeologici in Veneto. A sostegno della domanda, l’attore lamenta il fatto che i beni in questione fossero ormai da più di cinquant’anni in possesso della sua famiglia e conseguentemente a lui pervenuti per via ereditaria.

Tribunale e Corte d’appello rigettano le domande dell’attore.

In particolare, la Corte d’appello afferma che i beni d’interesse archeologico acquisiscono il carattere pubblicistico nel momento stesso in cui se ne ha la scoperta e, non essendo suscettibili di usucapione, il loro prolungato possesso non ne fa mutare la proprietà in capo ad altri soggetti (articolo 826 del Codice Civile). Conclude, inoltre, rilevando che il carattere culturale dei reperti era già risultato da una relazione precedente svolta da funzionari della Soprintendenza per il Veneto  nell’ambito del procedimento penale che aveva visto coinvolta la parte. Pertanto, sarebbe spettato all’attore dare prova della loro origine e acquisizione in terra straniera, così da legittimarne la detenzione.

 

Il ricorso in Cassazione

Nel ricorso in Cassazione, la parte sostiene che non vi è alcuna dimostrazione da parte del Ministero che gli oggetti fossero stati ritrovati nel sottosuolo o sui fondi marini italiani, essendo anche le modalità del rinvenimento presupposto per ricollegare la proprietà di beni in capo allo Stato (articoli 10 e 91, primo comma, del Decreto Legislativo n. 42 del 2004). Per di più mancherebbe l’accertamento del carattere culturale degli oggetti, dal momento che non è possibile evincerlo da alcun documento valido portato a giudizio.

A tal proposito lamenta che la Corte d’appello abbia fondato la propria decisione esclusivamente sulla relazione dei funzionari, stesa nel corso del procedimento penale. Ed a tale relazione non dovrebbe essere riconosciuta alcuna efficacia probatoria essendo un atto d’indagine e non di prova.

In fine, sostiene che nel corso del giudizio non sono stati provati né la provenienza dei beni da territori italiani, né il loro carattere culturale. Secondo il ricorrente, l’onere di darne prova gravava, appunto, sull’Amministrazione e non tanto sull’attore, e, in ogni caso, le eventuali prove sarebbero state superate dando testimonianza dell’avvenuta usucapione per possesso da oltre cinquant’anni degli oggetti.

 

Il giudizio della Cassazione

La Cassazione rigetta il ricorso, ritenendo infondate le motivazioni sulla scorta del proprio orientamento (Cassazione, sezione I, 10 febbraio 2006, n. 1995) in forza del quale lo Stato si avvale di una presunzione di proprietà dei beni archeologici. 

Nel caso di specie, peraltro, rileva la Cassazione, nei rilievi dei funzionari vi è stata la conferma della loro provenienza da aree site su territorio italiano. Per queste ragioni spettava all’attore dar prova dell’inesistenza del diritto in capo allo Stato. Inoltre, l’appartenenza dei beni alla categoria delle cose di interesse archeologico, li rende direttamente ricompresi nell’ambito dei beni di carattere culturale.

Sul piano probatorio, la Cassazione afferma che non essendovi alcun impedimento normativo che non permetta ad un giudice civile l’utilizzazione di prove derivanti da differente giudizio, la Corte d’appello non è incorsa in un irregolarità avvalendosi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, se considerate sufficienti allo scopo.

A conclusione delle motivazioni del rigetto, la Corte ribadisce che, sulla base della Legge 20 giugno 1909, n. 364, sulla inalienabilità delle antichità e delle belle arti, è irrilevante il ritrovamento nell’abitazione dell’attore, né tanto meno il tempo della loro permanenza al suo interno, essendo l’usucapione impossibile su questo genere di beni.

La sentenza è integralmente consultabile sul sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza  26 aprile 2017, n. 10303)