Bourdelle scultore mitico
Bourdelle scultore mitico
Emile Antoine Bourdelle (1861-1929) seppe conquistarsi una fama ed esercitare un’influenza tali che in breve tempo superarono i confini francesi per dilagare in Europa e approdare in America. Lo studio parigino di questo volitivo allievo di Rodin divenne così, subito dopo il primo conflitto mondiale, un punto di riferimento per tanti giovani e un centro di irradiazione delle idee di un artista che pensò di realizzare con la scultura quel diffuso desiderio di ripresa artistica nella conservazione, caro alla borghesia del tempo, collegando il richiamo che ancora poteva esercitare il mito greco arcaico al dramma sacro e umano delle cattedrali gotiche.
Ciò che ancora restava dell’impeto romantico ereditato da Rodin veniva trasfigurato da Bourdelle in una monumentalità chiusa e massiccia, non scevra da sollecitazioni letterarie, che avrebbe finito per dare un volto a quella diffusa, se pur approssimativa e ancora romantica, volontà di potenza ricavata dalla filosofia nietzschiana.
Il residuo romanticismo, l’eclettismo offerto dall’imperversante gusto Liberty e quel ciclico desiderio, nobile e pericoloso al contempo, di rinverdire il mito greco cercandolo in questo caso nelle sue espressioni arcaiche fino a Creta e Micene, sembrarono la grande folgorazione del momento, una misura stilistica attesa da chi intendeva reagire al germe nichilista delle avanguardie succedute all’Impressionismo.
Convinto nell’idea di poter ridurre le varie arti a un’unica espressione (che era, curiosamente, anche l’idea delle avanguardie), Bourdelle agisce nel proprio campo con l’impeto che gli è proprio, e se ha pensato alla scultura come a una costruzione architettonica non gli sarà difficile pensare un’architettura di valenze scultoree. Per la costruzione del Théatre des Champs-Elysées, Bourdelle è architetto, scultore e perfino pittore d’affreschi. È la consacrazione di un gusto che ritroveremo, ridondante di elmi, lance, scudi e simbologie varie, nei monumenti ai caduti sulle piazze di mezzo mondo e in costruzioni che fondono forme plastiche e stili architettonici, protrattesi da noi fino alla stazione di Milano.
Nel catalogo (De Luca) della mostra di Spoleto, Silvia Lucchesi illustra esempi precisi riferiti all’influsso abbastanza scoperto di Bourdelle sui nostri scultori che vanno da Libero Andreotti ad Arturo Dazzi e, per certe impostazioni, si poteva aggiungere anche Arturo Martini, senza dimenticare tanta scultura anonima del periodo fascista (fino a lambire lo stesso Sironi), intesa spesso come elemento compositivo o di mera decorazione, in una piazza o nel contesto di un’architettura. Scultura ispirata da quel concetto di forza e potenza iniziato da Bourdelle, spesso risolto abbondando nel “massiccio”, ma che Ojetti, elogiando l’artista francese, aveva definiti:”…la visione dura, eroica e solenne dell’arte”.
È dei nostri tempi, perduta l’unità e l’ancoraggio a uno stile, lo scorrere e realizzarsi dell’opera di un artista su più binari che anche in Bourdelle convivono, intersecandosi e intercambiandosi: la naturale forza espressiva, da una parte, e la volontà di organizzare secondo un’idea, spesso più di carattere letterario che artistico, dall’altra.
In questa mostra sono esposti due ritratti e una figura intera di Beethoven che offrono un chiaro esempio di questo suo modo di procedere: in un primo ritratto l’artista plasma unicamente secondo la forza delle proprie qualità, sempre notevoli, ottenendo un ritratto vivo e imponente per plasticità e soluzione quasi impressionista; nel secondo interviene invece l’idea di natura letteraria che gli fa scegliere la nota maschera mortuaria del musicista, esaltandola in una furia di capelli in movimento, enorme e preponderante, essendo ora suo desiderio, non di fare il ritratto dell’uomo ma dare l’idea del genio musicale, scadendo ovviamente in un risultato incerto che nei particolari sembra arrivare all’informe, come appare anche più evidente nella figura intera, fluttuante in un vento immaginario.
Un altro esempio eclatante è il celeberrimo “Eracle arciere” della Galleria d’arte moderna di Roma, costruito seguendo una dinamica tesa su due linee di forza, quella della gamba alzata con il piede puntato su una roccia, e l’altra delle braccia che tendono l’arco con mani possenti; nelle prime versioni la testa del mitico eroe ha le sembianze di personaggio reale (ne conosciamo perfino l’identità) mentre nell’opera definitiva venne modellata su riferimenti arcaici greci. Una testa artefatta, improbabile e disorganica con il resto, un esempio di come il gusto del tempo potesse influire negativamente su uno scultore autentico e forte come il Nostro, quando si lasciava sopraffare dalle idee, da una sorta di filosofia dell’arte o anche soltanto dal desiderio della sperimentazione che arrivava fino a fargli modellare una figura come quella di “Madeleine Charnaux”, primo esempio di quel filone che diverrà l’ossessione del suo tardo allievo Alberto Giacometti.
Ma resta il Bourdelle scultore autentico e di notevole impeto, resta in quelle opere meno corrive al gusto del tempo e nelle quali l’enfasi si smorza, o addirittura scompare, e lo stesso mito assume caratteri evocativi in forme realistiche come la bellissima “Testa di Apollo”, quella d’“Ercole”, il poderoso “Ritratto di Ingres”, il “Piccolo centauro morente”, lo scattante “Piccolo cavallo” o i bozzetti quali “Siesta sotto l’albero”, tanto per non citare che le opere rimaste più vive nel ricordo.