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Caporali state tranquilli: il lavoratore non può pretendere nulla da voi. Parola delle Sezioni Unite

Nota a Corte di Cassazione - Sezioni Unite Penali, Sentenza 26 ottobre 2006, n. 22910
ABSTRACT: intermediazione di manodopera – pronuncia delle sezioni unite – solo sull’effettivo utilizzatore gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro – indebolimento delle tutele del prestatore di lavoro.

PREMESSA

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22910 del 26/10/2006, risolve definitivamente un contrasto tra due diversi filoni interpretativi in merito alla responsabilità dell’appaltatore (o interposto) nell’ambito di un rapporto interpositorio non genuino.

La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite è quella dell’art. 1 L. 1369/60, che si realizza qualora un imprenditore affidi in appalto ad un’altra impresa l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante manodopera da lui stesso retribuita. La violazione di tale divieto è sanzionata dal comma 5 del precitato art. 1, mediante la costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa.

Occorre premettere che sul piano storico, la L. 1369/60, come noto abrogata dall’art. 85 del D.Lgsvo 276/03 che ha eliminato il divieto generale d’intermediazione di manodopera e ha dettagliatamente disciplinato le ipotesi di ricorso alla somministrazione di lavoro (per ragioni tecniche, organizzative e produttive o sostitutive dell’impresa utilizzatrice, cfr. art. 20 D.lgsvo 276/03), è sorta per arginare il fenomeno del c.d. “caporalato”, ovvero l’attività di reclutamento di manodopera svolta dal “caporale” imprenditore, e di appalto della manodopera stessa ad altre imprese effettivamente utilizzatrici delle prestazioni di lavoro dei lavoratori reclutati.

La ratio della norma, pertanto, era – ed ancora è, nella nuova disciplina della somministrazione, tanto che le ipotesi fraudolente, oggi come ieri, sono sanzionate con l’imputazione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa - evitare la dissociazione tra il datore di lavoro “fittizio” e quello effettivo, per assicurare ai lavoratori un creditore patrimonialmente più affidabile, ed assicurarne l’uniformità di trattamenti economico-normativo rispetto ai lavoratori direttamente dipendenti dell’impresa utilizzatrice.

Il problema, affrontato e risolto dalle Sezioni Unite, sorge dal fatto che la L. 1369/60, pur affermando l’imputazione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’effettivo utilizzatore, nulla dice in merito alla responsabilità patrimoniale dell’imprenditore appaltante nei confronti dei trattamenti economico-normativi del lavoratore, limitandosi, come già accennato, a considerare a tutti gli effetti il prestatore di lavoro alle dipendenze di colui che ne abbia effettivamente utilizzato le prestazioni.

LA PRONUNCIA DELLE SEZIONI UNITE N. 22910 DEL 26 OTTOBRE 2006

Orbene, nella giurisprudenza di legittimità e di merito, si erano formati due indirizzi: secondo un primo filone, tra imprenditore “fittizio” ed effettivo utilizzatore, avrebbe dovuto considerarsi vigente un regime di solidarietà, e pertanto il lavoratore, in caso di insolvenza, avrebbe potuto rivolgersi indifferentemente sia all’appaltante, sia all’appaltatore (cfr. Cass. Sez. Lav. 6649 del 5/4/2004).

Le argomentazioni giuridiche a suffragio di tale tesi erano diverse: in primo luogo, l’imprenditore “fittizio”, in virtù dei principi dell’apparenza del diritto, avrebbe dovuto rispondere solidalmente perché, almeno all’esterno, “apparirebbe” il vero datore di lavoro (adempie agli obblighi amministrativi, agli obblighi retributivi etc.); in secondo luogo, si riteneva applicabile in via analogica il disposto dell’art. 3 della precitata Legge, ai sensi del quale, nelle ipotesi di appalto genuino, appaltante e appaltatore sono solidalmente responsabili nei confronti dei lavoratori per i trattamenti economici e normativi loro spettanti; in terzo luogo, poiché entrambi i datori di lavoro rispondono penalmente, analogamente entrambi dovrebbero rispondere civilisticamente.

Il secondo indirizzo (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 5901 del 14/6/1999), cui hanno aderito le Sezioni Unite, ritiene che il solo datore di lavoro effettivo utilizzatore possa essere escusso dal prestatore di lavoro per i crediti da lavoro maturati e non corrisposti.

Le argomentazioni poste alla base di tale filone interpretativo e fatte proprie dalle Sezioni Unite sono principalmente due: una prima di carattere strettamente letterale, poiché l’ultimo comma dell’art. 1 della Legge 1369 considera i lavoratori alle dipendenze del solo effettivo utilizzatore; una seconda, di natura più sistematica, ritenendo il contratto di appalto tra imprenditore “fittizio” ed effettivo utilizzatore nullo ex art. 1418 cod. civ., l’unico rapporto di lavoro farà capo all’effettivo utilizzatore, anche in virtù del principio lavoristico per il quale ad un rapporto di lavoro può far capo un solo datore di lavoro.

Non ritengo sia necessario uno specifico approfondimento delle singole argomentazioni, ben sviluppate delle Sezioni Unite nella sentenza in oggetto, che hanno condotto a ritenere responsabile il solo effettivo utilizzatore e non l’appaltatore di manodopera, ma mi limiterò ad alcune riflessioni:

1. In primo luogo, il Consiglio dei Ministri ha recentemente approvato all’unanimità un disegno di legge che configura il reato di “caporalato”e lo sanziona con pene detentive piuttosto rilevanti: da tre ad otto anni, sebbene, per onore del vero, si osserva che si tratta di una fattispecie diversa da quella oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite, che sanziona chi recluta manodopera con violenza, minaccia o grave sfruttamento.

Mi desta qualche perplessità pensare che un soggetto che sul piano penale rischi una sanzione così pesante, rimanga del tutto illeso sotto il profilo civilistico (ferma restando la possibilità del lavoratore di agire nei confronti dell’interponente secondo le ordinarie regole di responsabilità extracontrattuale, qualora emerga un danno per la propria posizione giuridica).

2. In secondo luogo, mi pare che questa sentenza si inserisca nella logica, iniziata con la stagione delle riforme della passata legislatura, di promozione dell’occupazione mediante l’abbattimento delle tutele del lavoro subordinato. Rientra in questa logica l’abrogazione della L. 1369/60, sostituita da un’organica disciplina delle ipotesi di ricorso lecito alla somministrazione di lavoro – in luogo del divieto generalizzato espresso dalla 1369 le cui uniche eccezioni erano enumerate dalla L. 196/97 (c.d. pacchetto Treu). L’art. 1 comma 3 di tale abrogata legge disponeva che dovesse ritenersi presuntivamente sussistente un rapporto interpositorio illecito ogni qualvolta l’appaltatore impiegasse capitali macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso fosse corrisposto a quest’ultimo un compenso. Poichè questa presunzione è stata abrogata, non solo sul lavoratore incomberà l’onere di provare la non genuinità del rapporto interpositorio, ma, almeno da oggi, dopo aver dato tale prova, avrà un solo soggetto (l’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa) nei confronti del quale far valere i propri crediti da lavoro.

3. In terzo luogo, ritengo che, accogliendo l’orientamento delle Sezioni Unite, potrà verificarsi un singolare conflitto d’interessi tra coloro che sono legittimati a far valere la nullità del rapporto interpositorio, ovvero tra le associazioni sindacali, gli altri lavoratori dipendenti dall’impresa utilizzatrice, gli istituti di vigilanza nonché gli enti previdenziali. Orbene, qualora il datore di lavoro “fittizio” dovesse risultare patrimonialmente più affidabile dell’effettivo utilizzatore, il lavoratore non avrà nessun interesse a far valere la nullità dell’appalto, perché, in tale ipotesi, potrebbe far valere solo nei confronti dell’effettivo utilizzatore i propri (eventuali) crediti maturati e non più nei confronti dell’appaltatore, mentre gli altri soggetti sopra citati avranno tutto l’interesse a far valere la nullità del rapporto interpositorio.

4. Da ultimo trovo francamente inconcepibile – sul piano logico più che sul piano giuridico - che vi sia una così rilevante disparità di trattamento tra i lavoratori operanti in un appalto genuino, che possono far valere i propri crediti sia nei confronti del committente che nei confronti dell’appaltatore, e i lavoratori coinvolti in un rapporto interpositorio illecito, che avranno un solo soggetto nei confronti del quale far valere i propri crediti.

Oltre il danno, la beffa.

ABSTRACT: intermediazione di manodopera – pronuncia delle sezioni unite – solo sull’effettivo utilizzatore gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e normativo scaturenti dal rapporto di lavoro – indebolimento delle tutele del prestatore di lavoro.

PREMESSA

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 22910 del 26/10/2006, risolve definitivamente un contrasto tra due diversi filoni interpretativi in merito alla responsabilità dell’appaltatore (o interposto) nell’ambito di un rapporto interpositorio non genuino.

La fattispecie esaminata dalle Sezioni Unite è quella dell’art. 1 L. 1369/60, che si realizza qualora un imprenditore affidi in appalto ad un’altra impresa l’esecuzione di mere prestazioni di lavoro mediante manodopera da lui stesso retribuita. La violazione di tale divieto è sanzionata dal comma 5 del precitato art. 1, mediante la costituzione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa.

Occorre premettere che sul piano storico, la L. 1369/60, come noto abrogata dall’art. 85 del D.Lgsvo 276/03 che ha eliminato il divieto generale d’intermediazione di manodopera e ha dettagliatamente disciplinato le ipotesi di ricorso alla somministrazione di lavoro (per ragioni tecniche, organizzative e produttive o sostitutive dell’impresa utilizzatrice, cfr. art. 20 D.lgsvo 276/03), è sorta per arginare il fenomeno del c.d. “caporalato”, ovvero l’attività di reclutamento di manodopera svolta dal “caporale” imprenditore, e di appalto della manodopera stessa ad altre imprese effettivamente utilizzatrici delle prestazioni di lavoro dei lavoratori reclutati.

La ratio della norma, pertanto, era – ed ancora è, nella nuova disciplina della somministrazione, tanto che le ipotesi fraudolente, oggi come ieri, sono sanzionate con l’imputazione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa - evitare la dissociazione tra il datore di lavoro “fittizio” e quello effettivo, per assicurare ai lavoratori un creditore patrimonialmente più affidabile, ed assicurarne l’uniformità di trattamenti economico-normativo rispetto ai lavoratori direttamente dipendenti dell’impresa utilizzatrice.

Il problema, affrontato e risolto dalle Sezioni Unite, sorge dal fatto che la L. 1369/60, pur affermando l’imputazione del rapporto di lavoro direttamente in capo all’effettivo utilizzatore, nulla dice in merito alla responsabilità patrimoniale dell’imprenditore appaltante nei confronti dei trattamenti economico-normativi del lavoratore, limitandosi, come già accennato, a considerare a tutti gli effetti il prestatore di lavoro alle dipendenze di colui che ne abbia effettivamente utilizzato le prestazioni.

LA PRONUNCIA DELLE SEZIONI UNITE N. 22910 DEL 26 OTTOBRE 2006

Orbene, nella giurisprudenza di legittimità e di merito, si erano formati due indirizzi: secondo un primo filone, tra imprenditore “fittizio” ed effettivo utilizzatore, avrebbe dovuto considerarsi vigente un regime di solidarietà, e pertanto il lavoratore, in caso di insolvenza, avrebbe potuto rivolgersi indifferentemente sia all’appaltante, sia all’appaltatore (cfr. Cass. Sez. Lav. 6649 del 5/4/2004).

Le argomentazioni giuridiche a suffragio di tale tesi erano diverse: in primo luogo, l’imprenditore “fittizio”, in virtù dei principi dell’apparenza del diritto, avrebbe dovuto rispondere solidalmente perché, almeno all’esterno, “apparirebbe” il vero datore di lavoro (adempie agli obblighi amministrativi, agli obblighi retributivi etc.); in secondo luogo, si riteneva applicabile in via analogica il disposto dell’art. 3 della precitata Legge, ai sensi del quale, nelle ipotesi di appalto genuino, appaltante e appaltatore sono solidalmente responsabili nei confronti dei lavoratori per i trattamenti economici e normativi loro spettanti; in terzo luogo, poiché entrambi i datori di lavoro rispondono penalmente, analogamente entrambi dovrebbero rispondere civilisticamente.

Il secondo indirizzo (cfr. Cass. Sez. Lav. n. 5901 del 14/6/1999), cui hanno aderito le Sezioni Unite, ritiene che il solo datore di lavoro effettivo utilizzatore possa essere escusso dal prestatore di lavoro per i crediti da lavoro maturati e non corrisposti.

Le argomentazioni poste alla base di tale filone interpretativo e fatte proprie dalle Sezioni Unite sono principalmente due: una prima di carattere strettamente letterale, poiché l’ultimo comma dell’art. 1 della Legge 1369 considera i lavoratori alle dipendenze del solo effettivo utilizzatore; una seconda, di natura più sistematica, ritenendo il contratto di appalto tra imprenditore “fittizio” ed effettivo utilizzatore nullo ex art. 1418 cod. civ., l’unico rapporto di lavoro farà capo all’effettivo utilizzatore, anche in virtù del principio lavoristico per il quale ad un rapporto di lavoro può far capo un solo datore di lavoro.

Non ritengo sia necessario uno specifico approfondimento delle singole argomentazioni, ben sviluppate delle Sezioni Unite nella sentenza in oggetto, che hanno condotto a ritenere responsabile il solo effettivo utilizzatore e non l’appaltatore di manodopera, ma mi limiterò ad alcune riflessioni:

1. In primo luogo, il Consiglio dei Ministri ha recentemente approvato all’unanimità un disegno di legge che configura il reato di “caporalato”e lo sanziona con pene detentive piuttosto rilevanti: da tre ad otto anni, sebbene, per onore del vero, si osserva che si tratta di una fattispecie diversa da quella oggetto della pronuncia delle Sezioni Unite, che sanziona chi recluta manodopera con violenza, minaccia o grave sfruttamento.

Mi desta qualche perplessità pensare che un soggetto che sul piano penale rischi una sanzione così pesante, rimanga del tutto illeso sotto il profilo civilistico (ferma restando la possibilità del lavoratore di agire nei confronti dell’interponente secondo le ordinarie regole di responsabilità extracontrattuale, qualora emerga un danno per la propria posizione giuridica).

2. In secondo luogo, mi pare che questa sentenza si inserisca nella logica, iniziata con la stagione delle riforme della passata legislatura, di promozione dell’occupazione mediante l’abbattimento delle tutele del lavoro subordinato. Rientra in questa logica l’abrogazione della L. 1369/60, sostituita da un’organica disciplina delle ipotesi di ricorso lecito alla somministrazione di lavoro – in luogo del divieto generalizzato espresso dalla 1369 le cui uniche eccezioni erano enumerate dalla L. 196/97 (c.d. pacchetto Treu). L’art. 1 comma 3 di tale abrogata legge disponeva che dovesse ritenersi presuntivamente sussistente un rapporto interpositorio illecito ogni qualvolta l’appaltatore impiegasse capitali macchine ed attrezzature fornite dall’appaltante, quand’anche per il loro uso fosse corrisposto a quest’ultimo un compenso. Poichè questa presunzione è stata abrogata, non solo sul lavoratore incomberà l’onere di provare la non genuinità del rapporto interpositorio, ma, almeno da oggi, dopo aver dato tale prova, avrà un solo soggetto (l’effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa) nei confronti del quale far valere i propri crediti da lavoro.

3. In terzo luogo, ritengo che, accogliendo l’orientamento delle Sezioni Unite, potrà verificarsi un singolare conflitto d’interessi tra coloro che sono legittimati a far valere la nullità del rapporto interpositorio, ovvero tra le associazioni sindacali, gli altri lavoratori dipendenti dall’impresa utilizzatrice, gli istituti di vigilanza nonché gli enti previdenziali. Orbene, qualora il datore di lavoro “fittizio” dovesse risultare patrimonialmente più affidabile dell’effettivo utilizzatore, il lavoratore non avrà nessun interesse a far valere la nullità dell’appalto, perché, in tale ipotesi, potrebbe far valere solo nei confronti dell’effettivo utilizzatore i propri (eventuali) crediti maturati e non più nei confronti dell’appaltatore, mentre gli altri soggetti sopra citati avranno tutto l’interesse a far valere la nullità del rapporto interpositorio.

4. Da ultimo trovo francamente inconcepibile – sul piano logico più che sul piano giuridico - che vi sia una così rilevante disparità di trattamento tra i lavoratori operanti in un appalto genuino, che possono far valere i propri crediti sia nei confronti del committente che nei confronti dell’appaltatore, e i lavoratori coinvolti in un rapporto interpositorio illecito, che avranno un solo soggetto nei confronti del quale far valere i propri crediti.

Oltre il danno, la beffa.