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Cassazione Civile: recesso per giusta causa nei confronti della società-agente

Secondo la Cassazione, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto integrati gli estremi della giusta causa di recesso contrattuale intimato dal preponente alla società agente, determinato dal fatto che uno dei soci, insieme col padre, si era reso responsabile nel giugno del 1986 di un ammanco di un miliardo di lire. Il Giudice di secondo grado, in particolare, ad avviso della Cassazione, ha adeguatamente valorizzato vari elementi della fattispecie, quali la ridottissima compagine dei soci (prima tre, poi solo due), tra cui il soggetto che, in forza sulle testimonianze raccolte, sia di fatto, sia di diritto, attraverso procure e nomine a cariche sociali, in qualsiasi momento poteva intervenire nella gestione della predetta società agente; la storia dei lungo rapporto di agenzia in questione, iniziato nel 1973, essendo la s.r.l. sorta per effetto della trasformazione dell’omonima s.a.s., la quale, a sua volta, era subentrata, senza soluzione di continuità, al soggetto nella posizione di agente; e la circostanza che quest’ultimo aveva continuato ad essere iscritto all’albo degli agenti di assicurazione.

La Cassazione ha ricordato il proprio orientamento.

"Pur nella sostanziale diversità delle rispettive prestazioni e della relativa configurazione giuridica, per stabilire se lo scioglimento del contratto stesso sia avvenuto o meno per un fatto imputabile al preponente o all’agente, tale da impedire la possibilità di prosecuzione anche temporanea del rapporto, può essere utilizzato per analogia il concetto di giusta causa di cui all’art. 2119 cc., previsto per il lavoro subordinato; il giudizio sulla sussistenza di una giusta causa di recesso costituisce valutazione rimessa al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da un accertamento sufficientemente specifico degli elementi di fatto e da corretti criteri di carattere generale ispiratori del giudizio di tipo valutativo ... nel contratto di agenzia il rapporto di fiducia - in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali - assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato, per cui ai fini della legittimità del recesso è sufficiente un fatto di minore consistenza. ... La sia pur parziale assimilazione delle due figure contrattuali, attraverso le direttrici comuni della fiducia e della continuità aziendale, nell’ottica della prevalenza dell’effettività del rapporto economico tra l’impresa preponente e l’impresa preposta, sulla rispettiva titolarità formale, induce, dunque, a ritenere rilevante ogni comportamento idoneo a gravare sul rapporto delle parti, potenzialmente anche oltre la mera imputabilità soggettiva delle singole condotte".

"Il richiamo alla nozione di giusta causa, enucleabile dall’art. 2119 c.c. analogicamente applicato, pone al centro della risposta l’inadempimento colpevole quale fatto generatore della crisi di fiducia, e non come evento lesivo dell’equilibrio sinallagmatico, non necessariamente apprezzabile in un rapporto di durata che, come quello di agenzia, è connotato da una rete complessa di obbligazioni reciproche, non esaurentesi nella corrispettività a coppie tra prestazione lato sensu lavorativa e remunerazione in denaro. Se dunque ciò che rileva ai fini del legittimo esercizio della facoltà di recesso per giusta causa è il fatto incidente sull’affidamento dell’una parte verso l’altra, indipendentemente dalla ricaduta che esso abbia o non nell’economia del rapporto di scambio, possono assumere importanza anche condotte di terzi che per il loro collegamento, a vario titolo, con l’agente, siano tali da far venir meno nel preponente l’aspettativa che la futura esecuzione del contratto da parte di quest’ultimo avvenga in maniera conforme agli obblighi convenzionali o di legge, incluso quello generale di correttezza sancito dall’art.1375 c.c., generatore di obbligazioni collaterali di tipo protettivo".

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 4 maggio 2011, n.9779)

Secondo la Cassazione, la Corte d’appello ha correttamente ritenuto integrati gli estremi della giusta causa di recesso contrattuale intimato dal preponente alla società agente, determinato dal fatto che uno dei soci, insieme col padre, si era reso responsabile nel giugno del 1986 di un ammanco di un miliardo di lire. Il Giudice di secondo grado, in particolare, ad avviso della Cassazione, ha adeguatamente valorizzato vari elementi della fattispecie, quali la ridottissima compagine dei soci (prima tre, poi solo due), tra cui il soggetto che, in forza sulle testimonianze raccolte, sia di fatto, sia di diritto, attraverso procure e nomine a cariche sociali, in qualsiasi momento poteva intervenire nella gestione della predetta società agente; la storia dei lungo rapporto di agenzia in questione, iniziato nel 1973, essendo la s.r.l. sorta per effetto della trasformazione dell’omonima s.a.s., la quale, a sua volta, era subentrata, senza soluzione di continuità, al soggetto nella posizione di agente; e la circostanza che quest’ultimo aveva continuato ad essere iscritto all’albo degli agenti di assicurazione.

La Cassazione ha ricordato il proprio orientamento.

"Pur nella sostanziale diversità delle rispettive prestazioni e della relativa configurazione giuridica, per stabilire se lo scioglimento del contratto stesso sia avvenuto o meno per un fatto imputabile al preponente o all’agente, tale da impedire la possibilità di prosecuzione anche temporanea del rapporto, può essere utilizzato per analogia il concetto di giusta causa di cui all’art. 2119 cc., previsto per il lavoro subordinato; il giudizio sulla sussistenza di una giusta causa di recesso costituisce valutazione rimessa al giudice di merito e incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da un accertamento sufficientemente specifico degli elementi di fatto e da corretti criteri di carattere generale ispiratori del giudizio di tipo valutativo ... nel contratto di agenzia il rapporto di fiducia - in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali - assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato, per cui ai fini della legittimità del recesso è sufficiente un fatto di minore consistenza. ... La sia pur parziale assimilazione delle due figure contrattuali, attraverso le direttrici comuni della fiducia e della continuità aziendale, nell’ottica della prevalenza dell’effettività del rapporto economico tra l’impresa preponente e l’impresa preposta, sulla rispettiva titolarità formale, induce, dunque, a ritenere rilevante ogni comportamento idoneo a gravare sul rapporto delle parti, potenzialmente anche oltre la mera imputabilità soggettiva delle singole condotte".

"Il richiamo alla nozione di giusta causa, enucleabile dall’art. 2119 c.c. analogicamente applicato, pone al centro della risposta l’inadempimento colpevole quale fatto generatore della crisi di fiducia, e non come evento lesivo dell’equilibrio sinallagmatico, non necessariamente apprezzabile in un rapporto di durata che, come quello di agenzia, è connotato da una rete complessa di obbligazioni reciproche, non esaurentesi nella corrispettività a coppie tra prestazione lato sensu lavorativa e remunerazione in denaro. Se dunque ciò che rileva ai fini del legittimo esercizio della facoltà di recesso per giusta causa è il fatto incidente sull’affidamento dell’una parte verso l’altra, indipendentemente dalla ricaduta che esso abbia o non nell’economia del rapporto di scambio, possono assumere importanza anche condotte di terzi che per il loro collegamento, a vario titolo, con l’agente, siano tali da far venir meno nel preponente l’aspettativa che la futura esecuzione del contratto da parte di quest’ultimo avvenga in maniera conforme agli obblighi convenzionali o di legge, incluso quello generale di correttezza sancito dall’art.1375 c.c., generatore di obbligazioni collaterali di tipo protettivo".

(Corte di Cassazione - Sezione Seconda Civile, Sentenza 4 maggio 2011, n.9779)