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Cassazione Lavoro: no al licenziamento del dipendente perché rivela all’autorità fatti dell’azienda di rilevanza penale (non esiste un dovere di omertà)

Il datore di lavoro non può contare sull’omertà del dipendente. Per le aziende un altro motivo per essere virtuose (oltre al Decreto Legislativo 231). Le sentenza si segnala anche per un interessante giudizio sugli scritti anonimi.

I fatti: Tribunale e Corte d’appello di Napoli giudicano legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per avere questi diffamato la società presentando, insieme ad altri cinque dipendenti, un esposto alla Procura della Repubblica – corredato da documenti aziendali – per irregolarità che sarebbero state commesse dalla medesima società in relazione ad un appalto pubblico, senza averle previamente segnalate ai superiori gerarchici.

Icasticamente, la Cassazione chiarisce: “se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia od un esposto all’Autorità Giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale. Diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’articolo 2105 Codice Civile) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento”.

La Cassazione, che ha cassato la sentenza di secondo grado e rinviato per la decisione alla Corte d’appello di Napoli, ha elaborato i seguenti principi di diritto:

“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’Autorità Giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto”.

“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali”.

“L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ex articolo 5 legge n.604/66, l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante (l’intento ritorsivo) che si cela dietro il negozio di recesso”.

La Cassazione si è altresì espressa sull’utilizzo degli scritti anonimi nel procedimento disciplinare (in particolare in funzione di sollecitazione).

Secondo la Cassazione: “nessuna norma di legge vieta che l’esercizio del potere disciplinare possa essere sollecitato (non anche provato, ovviamente) a seguito di scritti anonimi; il divieto di utilizzo di denunce anonime è disciplinato solo dagli articoli 240 e 333 Codice di Procedura Penale, in un’ottica – per altro – strettamente funzionale agli obiettivi e alle regole del processo penale, ma si tratta pur sempre d’un divieto di utilizzabilità a fini probatori, che non esclude l’avvio di successive indagini di polizia giudiziaria. Inoltre, poiché le clausole generali di correttezza e buona fede costituiscono un metro di valutazione dell’adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte, il loro rispetto da parte del datore di lavoro non viene in rilievo quando, come nel caso di specie, la materia del contendere verta sull’adempimento o meno degli obblighi del dipendente”.

Questa parte della sentenza ha particolari riflessi con riferimento alla vita quotidiana in azienda alla luce della disciplina 231, che ha introdotto le segnalazioni verso l’Organismo di Vigilanza.

Per la consultazione della sentenza integrale si rinvia al sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 14 marzo 2013, n.6501)

Il datore di lavoro non può contare sull’omertà del dipendente. Per le aziende un altro motivo per essere virtuose (oltre al Decreto Legislativo 231). Le sentenza si segnala anche per un interessante giudizio sugli scritti anonimi.

I fatti: Tribunale e Corte d’appello di Napoli giudicano legittimo il licenziamento intimato al lavoratore per avere questi diffamato la società presentando, insieme ad altri cinque dipendenti, un esposto alla Procura della Repubblica – corredato da documenti aziendali – per irregolarità che sarebbero state commesse dalla medesima società in relazione ad un appalto pubblico, senza averle previamente segnalate ai superiori gerarchici.

Icasticamente, la Cassazione chiarisce: “se l’azienda non ha elementi che smentiscano il lavoratore e/o che ne dimostrino un intento calunnioso nel presentare una denuncia od un esposto all’Autorità Giudiziaria, deve astenersi dal licenziarlo, non potendosi configurare come giusta causa la mera denuncia di fatti illeciti commessi in azienda ancor prima che essi siano oggetto di delibazione in sede giurisdizionale. Diversamente, si correrebbe il rischio di scivolare verso – non voluti, ma impliciti – riconoscimenti di una sorta di “dovere di omertà” (ben diverso da quello di fedeltà di cui all’articolo 2105 Codice Civile) che, ovviamente, non può trovare la benché minima cittadinanza nel nostro ordinamento”.

La Cassazione, che ha cassato la sentenza di secondo grado e rinviato per la decisione alla Corte d’appello di Napoli, ha elaborato i seguenti principi di diritto:

“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente reso noto all’Autorità Giudiziaria fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l’azienda in cui lavora né l’averlo fatto senza averne previamente informato i superiori gerarchici, sempre che non risulti il carattere calunnioso della denuncia o dell’esposto”.

“Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l’aver il dipendente allegato alla denuncia o all’esposto documenti aziendali”.

“L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ex articolo 5 legge n.604/66, l’esistenza di giusta causa o giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’illiceità del motivo unico e determinante (l’intento ritorsivo) che si cela dietro il negozio di recesso”.

La Cassazione si è altresì espressa sull’utilizzo degli scritti anonimi nel procedimento disciplinare (in particolare in funzione di sollecitazione).

Secondo la Cassazione: “nessuna norma di legge vieta che l’esercizio del potere disciplinare possa essere sollecitato (non anche provato, ovviamente) a seguito di scritti anonimi; il divieto di utilizzo di denunce anonime è disciplinato solo dagli articoli 240 e 333 Codice di Procedura Penale, in un’ottica – per altro – strettamente funzionale agli obiettivi e alle regole del processo penale, ma si tratta pur sempre d’un divieto di utilizzabilità a fini probatori, che non esclude l’avvio di successive indagini di polizia giudiziaria. Inoltre, poiché le clausole generali di correttezza e buona fede costituiscono un metro di valutazione dell’adempimento degli obblighi contrattuali e non anche una loro autonoma fonte, il loro rispetto da parte del datore di lavoro non viene in rilievo quando, come nel caso di specie, la materia del contendere verta sull’adempimento o meno degli obblighi del dipendente”.

Questa parte della sentenza ha particolari riflessi con riferimento alla vita quotidiana in azienda alla luce della disciplina 231, che ha introdotto le segnalazioni verso l’Organismo di Vigilanza.

Per la consultazione della sentenza integrale si rinvia al sito della Cassazione.

(Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 14 marzo 2013, n.6501)