Vetrine digitali e responsabilità penale: il diritto alla prova del live streaming
Vetrine digitali e responsabilità penale: il diritto alla prova del live streaming
La recente indagine sviluppata in Sicilia, relativa a un sistema di commercializzazione di merce contraffatta veicolata attraverso dirette sui social network e culminata nell’allestimento di uno showroom informale all’interno di una elegante villa privata con piscina, consente di osservare in presa diretta la trasformazione dei luoghi del commercio e, con essa, delle forme di aggressione agli interessi economici protetti dall’ordinamento. Non si tratta soltanto di una storia di falso e di social media, ancora tutta da definire sul piano giudiziario, ma di un caso emblematico di come il diritto penale dell’economia sia chiamato oggi a misurarsi con pratiche che sfuggono alle categorie tradizionali senza per questo collocarsi in una zona franca della responsabilità.
La contraffazione non è mai stata un reato “minore”, né sul piano normativo né su quello sostanziale. Dietro il marchio falsificato non vi è soltanto l’inganno del consumatore, ma un danno strutturale al sistema produttivo, alla libera concorrenza e alla stessa credibilità del mercato. L’impresa che investe in ricerca, qualità e reputazione si trova esposta a una concorrenza parassitaria che abbassa i costi aggirando le regole, generando una distorsione che l’ordinamento penale è chiamato a correggere non per ragioni simboliche, ma per la tutela di un bene pubblico economico, che non si esaurisce nell’interesse patrimoniale del titolare del marchio, ma investe la fede pubblica e l’affidamento del consumatore. In questo senso, gli artt. 473 e 474 c.p. si collocano in una linea di continuità con la funzione costituzionale di protezione dell’iniziativa economica lecita, che non può dirsi libera se non è anche leale.
Il passaggio dal negozio fisico alla “vetrina digitale” non attenua questo disvalore, ma lo amplifica. Il live streaming, lungi dall’essere una semplice modalità comunicativa, diventa il luogo stesso dell’offerta, una piazza virtuale nella quale il prodotto viene mostrato, descritto e reso desiderabile, pur in assenza di un contatto diretto tra venditore e acquirente. Sotto il profilo penalistico, tuttavia, tale mutamento di scenario non incide sulla struttura tipica della condotta incriminata dall’art. 474 c.p., che resta ancorata alla detenzione per la vendita, alla messa in circolazione o alla vendita di prodotti recanti segni distintivi contraffatti. Il mezzo digitale non crea una fattispecie nuova, ma rappresenta una diversa modalità di estrinsecazione di una condotta tradizionale, la cui rilevanza penale continua a misurarsi sui criteri classici di offensività concreta e di imputazione soggettiva.
In questa prospettiva, il contenuto delle dirette streaming assume rilievo soprattutto sul piano probatorio, quale documentazione della finalizzazione commerciale della detenzione della merce. Ciò non consente, però, scorciatoie nell’accertamento dell’elemento soggettivo: la responsabilità penale non può fondarsi sulla mera visibilità dell’offerta o sulla sua diffusione algoritmica, ma richiede la dimostrazione della consapevolezza della falsità del marchio, o quantomeno dell’accettazione del rischio circa la sua contraffazione, nonché della destinazione alla vendita. Il live streaming rafforza la prova della condotta, ma non può surrogare la prova del dolo.
In questo contesto si inserisce, non senza frizioni sistematiche, il ricorso alla contestazione della ricettazione nei confronti dei soggetti che pongono in vendita la merce contraffatta. L’estensione dell’art. 648 c.p. a condotte già integralmente sussumibili nell’art. 474 c.p. rischia di produrre una sovrapposizione che, più che rafforzare la risposta punitiva, ne indebolisce la coerenza dogmatica. L’art. 474 c.p. configura infatti una fattispecie a tipicità complessa, nella quale la disponibilità del bene e la sua destinazione alla commercializzazione costituiscono elementi strutturali del fatto tipico, idonei ad assorbire il disvalore dell’acquisizione della merce quando questa sia funzionalmente e temporalmente strumentale alla vendita. In tale ipotesi, la detenzione del prodotto contraffatto non rappresenta un segmento criminoso autonomo, ma un momento interno e necessario della condotta incriminata.
La ricettazione conserva invece uno spazio applicativo residuo solo laddove l’acquisizione del bene presenti un’autonomia funzionale e temporale rispetto alla successiva messa in commercio, configurandosi come fase distinta e non meramente ancillare. Diversamente, la contestazione cumulativa finisce per trasformare l’art. 648 c.p. in una clausola di stile dell’accusa, spostando il baricentro dalla tipicità del fatto a un giudizio di riprovazione complessiva, secondo una logica di accumulo sanzionatorio che mal si concilia con i principi di legalità e di specialità.
Ma è forse il collegamento con l’indebita percezione del Reddito di cittadinanza a rendere la vicenda particolarmente significativa sul piano pubblicistico. Nel caso di specie, a due degli imputati è stata contestata la percezione del Reddito di cittadinanza, mentre uno di essi risulterebbe proprietario di un’autovettura di lusso, una Lamborghini Urus, elemento che ha contribuito ad attirare l’attenzione mediatica sull’indagine. Qui il diritto penale incrocia il diritto sociale, e lo fa in un punto sensibile: quello della fiducia che lo Stato ripone nel cittadino beneficiario. Il welfare non è soltanto redistribuzione di risorse, ma patto di lealtà, nel quale il sostegno pubblico presuppone una rappresentazione veritiera della propria condizione economica.
Sotto il profilo penalistico, la fattispecie di riferimento è quella prevista dall’art. 316-ter c.p., che si configura quando il soggetto ottiene il beneficio mediante dichiarazioni mendaci o omissioni rilevanti, in assenza dei requisiti economici richiesti. L’uso distorto di tale strumento, specie quando si accompagni a forme di economia sommersa o illecita, non produce solo un danno erariale, ma mina la legittimazione stessa della solidarietà pubblica, alimentando una percezione di ingiustizia che ricade sull’intero sistema.
Ciò non autorizza, tuttavia, a sostituire l’accertamento giuridico con il giudizio morale. Il mero possesso di beni di lusso, se non correttamente contestualizzato, non può assurgere a prova automatica dell’illecito, pena la trasformazione del processo penale in un tribunale dell’apparenza. Esso può, al più, costituire un indizio sintomatico di una situazione economica potenzialmente incompatibile con il beneficio, che deve però essere verificata attraverso l’accertamento della sussistenza di dichiarazioni mendaci o omissioni causalmente connesse all’erogazione del Reddito di cittadinanza. In difetto di tale nesso, il dato patrimoniale rischia di rimanere suggestivo sul piano mediatico, ma giuridicamente fragile.
In definitiva, la vicenda delle vetrine digitali e dello showroom clandestino mostra come il diritto penale contemporaneo sia chiamato a una duplice tutela: da un lato, quella dell’economia legale e dell’iniziativa imprenditoriale lecita, esposta a forme di contraffazione sempre più pervasive; dall’altro, quella della credibilità dello Stato sociale, che presuppone un rapporto di lealtà tra amministrazione e beneficiario. In entrambi i casi, la risposta punitiva non può essere affidata né alla spettacolarizzazione repressiva né a una lettura tecnologicamente deterministica del fatto. Il live streaming non crea nuove immunità, ma non legittima neppure un abbassamento della soglia delle garanzie: la prova digitale resta soggetta ai criteri ordinari di attendibilità, riferibilità soggettiva e dimostrazione del dolo. È in questo equilibrio, tra esigenze di tutela e rispetto dei principi di tipicità, offensività e personalità della responsabilità penale, che si gioca oggi la tenuta del diritto penale dell’economia, chiamato a confrontarsi con fenomeni nuovi senza rinunciare alla propria coerenza sistematica