Cassazione Penale: 231, confisca per equivalente limitata al profitto netto del contratto

Nell’ambito di un giudizio protrattosi in più gradi e piuttosto articolato, la Cassazione, rigettando il ricorso, ha ribadito che "è corretto aver limitato l’oggetto del sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente al solo profitto netto del contratto posto a valle dell’attività corruttiva".

"Pur in assenza di una definizione legislativa delle nozioni di profitto e provento del reato, è indubbio che queste assumono significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui sono inserite.

Si ritiene, in particolare, che nel contesto di un’attività totalmente illecita, la nozione di profitto del reato finisce col comprendere "qualsiasi cosa" riveniente dal fatto delittuoso, individuata esclusivamente secondo il criterio selettivo della "pertinenzialità" del profitto al reato medesimo, ossia della circostanza che l’uno costituisca una conseguenza economica immediata dell’altro. In tal caso, non può farsi spazio all’uso di parametri valutativi di tipo aziendalistico e, in particolare, non è possibile distinguere fra il profitto e l’utile "netto", cioè l’effettivo guadagno percepito dal reo. Tutta la prestazione è, per così dire, geneticamente marchiata di illeceità e deve essere confiscata.

Altra valutazione deve esere compiuta, invece, nel caso in cui il fatto-reato si inserisce nel contesto di una attività che in sé sarebbe lecita, tanto più se caratterizzata da un rapporto di scambio di natura sinallagmatica.

Assume rilievo, quindi, la distinzione fra il "reato contratto", cioè il caso in ci vi è una vera e propria immedisimazione del reato con il negozio giuridico, ed il "reato in contratto", che si allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale.

In questa seconda ipotesi, il contratto "a valle" è lecito ed eventualmente annullabile ex art. 1439 Codice Civile. E’ di tutta evidenza che nel caso di "reato in contratto" il profitto tratto dall’agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmentre sanzionata, giacché la legge penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale tour court, ma esclusivamente il comportameno tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra.

Ed allora, il profitto del reato confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico derivante dal fatto illecito. Per cui, se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica. Tale vantaggio corrisponde, quindi, all’utile netto dell’attività di impresa.".

Prosegue la Cassazione: "rilevato che il delitto per cui si procede è un’ipotesi di corruzione propria e che questa si configura chiaramente come un "reato in contratto", è corretto aver limitato l’oggetto del sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente al solo profitto netto del contratto posto a valle dell’attività corruttiva".

Nel caso di specie, pertanto: "l’esecuzione del contratto di appalto illegittimamente aggiudicato non è attività in sé illecita (eventualità che, invece, determinerebbe la genetica illiceità di tutte le prestazioni che ne derivino), ma costituisce legittima attuazione di un rapporto contrattuale tutt’al più annullabile; con la conseguenza che il valore che può essere sottoposto a confisca è rappresentato unicamente dal guadagno conseguito in esito all’esecuzione dello scambio sinallagmatico, al netto dei costi sostenuti per l’effettuazione della prestazione di cui ha fruito la p.a.".

(Corte di Cassazione - Seconda Sezione Penale, Sentenza 29 marzo 2012, n.11808)

Nell’ambito di un giudizio protrattosi in più gradi e piuttosto articolato, la Cassazione, rigettando il ricorso, ha ribadito che "è corretto aver limitato l’oggetto del sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente al solo profitto netto del contratto posto a valle dell’attività corruttiva".

"Pur in assenza di una definizione legislativa delle nozioni di profitto e provento del reato, è indubbio che queste assumono significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui sono inserite.

Si ritiene, in particolare, che nel contesto di un’attività totalmente illecita, la nozione di profitto del reato finisce col comprendere "qualsiasi cosa" riveniente dal fatto delittuoso, individuata esclusivamente secondo il criterio selettivo della "pertinenzialità" del profitto al reato medesimo, ossia della circostanza che l’uno costituisca una conseguenza economica immediata dell’altro. In tal caso, non può farsi spazio all’uso di parametri valutativi di tipo aziendalistico e, in particolare, non è possibile distinguere fra il profitto e l’utile "netto", cioè l’effettivo guadagno percepito dal reo. Tutta la prestazione è, per così dire, geneticamente marchiata di illeceità e deve essere confiscata.

Altra valutazione deve esere compiuta, invece, nel caso in cui il fatto-reato si inserisce nel contesto di una attività che in sé sarebbe lecita, tanto più se caratterizzata da un rapporto di scambio di natura sinallagmatica.

Assume rilievo, quindi, la distinzione fra il "reato contratto", cioè il caso in ci vi è una vera e propria immedisimazione del reato con il negozio giuridico, ed il "reato in contratto", che si allorquando il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma va ad incidere solamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale.

In questa seconda ipotesi, il contratto "a valle" è lecito ed eventualmente annullabile ex art. 1439 Codice Civile. E’ di tutta evidenza che nel caso di "reato in contratto" il profitto tratto dall’agente non è interamente ricollegabile alla condotta penalmentre sanzionata, giacché la legge penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale tour court, ma esclusivamente il comportameno tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno dell’altra.

Ed allora, il profitto del reato confiscabile non corrisponde a qualsiasi prestazione percepita in esecuzione del rapporto contrattuale, ma solo al vantaggio economico derivante dal fatto illecito. Per cui, se il fatto penalmente rilevante (ad esempio, una corruzione) ha inciso sulla fase di individuazione dell’aggiudicatario di un pubblico appalto, ma poi l’appaltatore ha regolarmente adempiuto alle prestazioni nascenti dal contratto (in sé lecito), il profitto del reato per il corruttore non equivale all’intero prezzo dell’appalto, ma solo al vantaggio economico conseguito per il fatto di essersi reso aggiudicatario della gara pubblica. Tale vantaggio corrisponde, quindi, all’utile netto dell’attività di impresa.".

Prosegue la Cassazione: "rilevato che il delitto per cui si procede è un’ipotesi di corruzione propria e che questa si configura chiaramente come un "reato in contratto", è corretto aver limitato l’oggetto del sequestro preventivo ai fini della confisca per equivalente al solo profitto netto del contratto posto a valle dell’attività corruttiva".

Nel caso di specie, pertanto: "l’esecuzione del contratto di appalto illegittimamente aggiudicato non è attività in sé illecita (eventualità che, invece, determinerebbe la genetica illiceità di tutte le prestazioni che ne derivino), ma costituisce legittima attuazione di un rapporto contrattuale tutt’al più annullabile; con la conseguenza che il valore che può essere sottoposto a confisca è rappresentato unicamente dal guadagno conseguito in esito all’esecuzione dello scambio sinallagmatico, al netto dei costi sostenuti per l’effettuazione della prestazione di cui ha fruito la p.a.".

(Corte di Cassazione - Seconda Sezione Penale, Sentenza 29 marzo 2012, n.11808)