Cassazione Penale: il reato di falso interno bancario

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LATTANZI Giorgio - Presidente -

Dott. PIZZUTI Giuseppe - Consigliere -

Dott. SICA Giuseppe - Consigliere -

Dott. MARASCA Gennaro - Consigliere -

Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) R.F., N. IL (OMISSIS);

avverso SENTENZA del 26/10/2004 CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARASCA GENNARO;

Udito il Pubblico Ministero in persona del Dottor IACOVIELLO Francesco Paolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore della parte civile avvocato BIANCHI, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore dell’imputato avvocato MAZZACUVA Nicola, che ha concluso per l’annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata.

La Corte di Cassazione:

Fatto e Diritto

A R.F., nella sua qualità di funzionario del Banco di Sicilia - Agenzia (OMISSIS) -, veniva contestata la violazione del D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385, art. 137, comma 2, perchè, per favorire A.M. in proprio e quale legale rappresentante della BAMAR s.r.l., dovendo valutare titoli esteri sui conti correnti di tali clienti scaricava arbitrariamente le relative PAD - partite avvisate dare -, cioè le segnalazioni che sospendevano l’accredito degli assegni esteri fino alla conoscenza dell’esito degli stessi, e dava disposizioni affinchè tale avviso non venisse più dato prima di conoscere l’esito dei titoli stessi.

In conseguenza di tale comportamento il M. aveva avuto immediata disponibilità delle somme indicate sugli assegni, che, in buona parte, tornarono insoluti per un ammontare di L. 480.000.000.

Il Tribunale di Milano, con sentenza emessa in data 25 settembre 2003, assolveva il R. dalla contravvenzione contestatagli perchè il fatto non costituisce reato ritenendo in particolare non solo la mancanza di prova in ordine al dolo richiesto, ma anche la mancanza di elementi costitutivi del reato in discussione sia perchè la disponibilità della somma non equivaleva ad una apertura di credito, sia perchè da parte del R. non vi era stata alcuna omissione di comunicazioni riguardanti il cliente.

In seguito ad impugnazione del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano, quest’ultima Autorità Giudiziaria, con sentenza emessa in data 26 ottobre 2004, dopo avere rilevato che la norma risultava applicabile a qualsiasi situazione in cui di fatto un soggetto avesse disponibilità di somme a credito da parte dell’Istituto bancario e che l’anticipata cancellazione delle PAD si traduceva nell’omissione di informazioni vere circa le condizioni del cliente, ed avere messo in evidenza che era ravvisabile nella condotta posta in essere il dolo richiesto, in riforma della sentenza di primo grado, condannava R.F. alla pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile da liquidarsi in separato giudizio.

Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione R.F., il quale, tramite il proprio difensore di fiducia, deduceva i seguenti motivi di impugnazione:

1) Erronea applicazione della legge penale - D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137 - perchè la mera inosservanza di una prassi interna è stata ricondotta alla fattispecie contestata. Il ricorrente ha posto in evidenza la assenza di regolamenti e di ordini di servizio che disciplinassero l’appostazione e la cancellazione delle PAD ed ha rilevato che il reato contestato, trattandosi di un reato omissivo proprio, era ravvisabile soltanto nel caso di mancato compimento dell’azione richiesta dalla norma incriminatrice. Infine il ricorrente ha rilevato che il comportamento posto in essere costituiva una condotta attiva che non integrava, comunque, la condotta sanzionata consistente nell’invio di notizie relative alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del richiedente il fido.

2) Erronea applicazione della legge penale - citato D.Lgs. art. 137 - perchè la Corte di merito ha qualificato la condotta contestata come concessione di credito, mentre l’improprio termine fido usato dal legislatore deve essere inteso nel senso di contratto di apertura di credito; i conti correnti non erano costitutivi di linee di credito.

La interpretazione della Corte di merito era, quindi, in malam partem.

3) Violazione dell’articolo 137 citato perchè la Corte di merito ha ritenuto sussistente l’elemento psicologico della contravvenzione contestata - dolo specifico -, mentre è pacifico, in quanto riferito dalla sentenza di primo grado, che alla data del 20 ottobre 2000 - quando diede disposizione di scaricare le PAD - il R. non conosceva la stato di insolvenza dei clienti, noto, invece, alla sede centrale dell’Istituto sin dal 5 ottobre 2000.

4) Vizio di motivazione perchè la Corte di merito non ha contestato le considerazioni di segno contrario contenute nella sentenza di primo grado, che era pervenuta, come già detto, alla assoluzione dell’imputato. In particolare nella motivazione della sentenza del primo giudice si dava atto che per i clienti fidati - tali erano il M. e la BAMAR - la PAD non veniva apposta.

5) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale - artt. 573, 576 e 648 c.p.p. - perchè la Corte di merito ha statuito in ordine ai profili civilistici pur in assenza di impugnazione della parte civile.

Il ricorrente chiedeva l’annullamento, con o senza rinvio della decisione impugnata.

Con successiva memoria difensiva depositata in data 21 giugno 2005 il difensore del ricorrente riproponeva alcune questioni ed in particolare ribadiva che l’art. 137 citato era stato erroneamente applicato sia perchè la cancellazione anticipata della PAD non rappresenta una forma di finanziamento diretto, sia perchè tale comportamento non integra la condotta tipica consistente nella utilizzazione di notizie e dati inveritieri, sia perchè la norma tutela la trasparenza della fase istruttoria dell’affidamento finanziario. Infine il difensore, dopo avere ricordato l’impossibilità di una condanna al risarcimento in assenza di impugnazione della parte civile, deduceva la intervenuta prescrizione del reato che risultava commesso in data 20 ottobre 2000.

I motivi posti a fondamento del ricorso proposto da R.F. non sono fondati, salvo quello relativo alla prescrizione del reato di cui al terzo motivo della citata memoria difensiva.

Il fatto è stato denunciato il 9 gennaio 2001, ma, in realtà, come risulta dalla motivazione delle due sentenze di merito, il reato si è consumato fino al 20 ottobre 2000, giorno nel quale il R. è andato in ferie.

Il termine prescrizionale, trattandosi di una contravvenzione punita con l’arresto è, ai sensi dell’art. 157 c.p., di anni quattro e mesi sei.

Di conseguenza il termine prescrizionale si è consumato il 20 aprile 2005.

I motivi di ricorso, come meglio si dirà, vanno rigettati, ma non sono inammissibili e, quindi, il maturare del termine prescrizionale anche in pendenza del giudizio di Cassazione produce l’effetto estintivo.

Dagli atti non risulta evidente la prova della estraneità del R. al fatto contestato e ciò non solo tenuto conto degli argomenti posti a sostegno della sentenza di condanna della Corte di Appello, ma anche per quanto si dirà per rigettare il ricorso agli effetti civili.

Ne consegue che, previo annullamento della sentenza impugnata, si deve prosciogliere l’imputato dal reato contestato per essere lo stesso estinto per prescrizione.

Tenuto conto degli esiti penali della vicenda, prima di esaminare i motivi di ricorso ai sensi dell’art. 578 c.p.p., appare preliminare esaminare il quinto motivo di impugnazione, secondo il quale la Corte di merito non avrebbe potuto statuire in ordine ai profili civilistici perchè avverso la sentenza di assoluzione in primo grado la parte civile non aveva proposto appello.

La tesi del ricorrente non è fondata.

Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno risolto un contrasto sorto tra le Sezioni della Suprema Corte e, mutando un orientamento precedente (SS.UU. Penali 11 marzo 1999, Loparco, in Cass. Pen. 1999, p. 2084), hanno stabilito che in una situazione siffatta il giudice di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, pronunci condanna dell’imputato deve provvedere anche sulle richieste della parte civile costituita e presente al processo, anche in assenza di specifica impugnazione della stessa (SS.UU. 11 settembre 2002, Guadalupi, in Cass. Pen. 2002, p. 3675 ).

Il Collegio condivide tale orientamento e rileva che gli argomenti portati dal ricorrente, pure interessanti e suggestivi, non consentono di superare la decisione delle Sezioni Unite.

Sul punto sarà sufficiente osservare che in primo grado gli aspetti civilistici, in caso di assoluzione penale, non vengono per nulla esaminati per essere venuto meno il presupposto per la condanna al risarcimento del danno.

L’impugnazione del P.G. sulla responsabilità penale, ovvero sul presupposto per la condanna anche al risarcimento del danno, rimette alla valutazione ed alla decisione della Corte di Appello la intera situazione processuale dell’imputato.

In una situazione siffatta un autonoma impugnazione della parte civile sarebbe, in verità, superflua, mancando aspetti specifici della decisione che investano le problematiche civilistiche.

Siffatta impostazione è legittimata dalla disposizione prevista dall’art. 76 c.p.p. che ha stabilito il principio della immanenza della costituzione di parte civile per tutta la durata del processo; detta immanenza fa sì che quando si verifichi il presupposto - la condanna penale - il giudice deve esaminare anche la domanda al risarcimento ed alle restituzioni della parte civile.

Sotto tale profilo vi è una sorta di accessorietà dell’azione proposta dalla parte civile al giudizio penale.

Infine se così non fosse non si comprenderebbe la disposizione dell’art. 601 c.p.p., comma 4, che prevede che la parte civile debba essere sempre citata a comparire nel processo penale nel quale si è costituita e, quindi, anche se non abbia proposto una autonoma impugnazione.

Si tratta ovviamente di una conseguenza del principio della immanenza, ma se la parte civile nel caso di mancata autonoma impugnazione non potesse interloquire sugli aspetti civili della questione e reiterare la sua domanda di risarcimento la sua presenza sarebbe superflua non potendo essa parte civile interloquire sugli aspetti penali se non strettamente connessi alla domanda civile.

Correttamente quindi i giudici di appello di Milano hanno deciso anche sugli aspetti civili ed altrettanto correttamente questa Corte deve valutare i motivi di ricorso agli effetti civili ai sensi dell’art. 578 c.p.p., sussistendo il presupposto di una condanna penale pronunciata dal giudice di merito.

E’ infondato il primo motivo di impugnazione con il quale si è sostenuto che la condotta del R. non integrerebbe quella astratta prevista dalla legge bancaria.

In concreto al R. è stato contestato di avere scaricato dal sistema informatico relativo ai conti correnti del M. e della BA.MAR s.r.l. le PAD - partite avvisate dare - prima di conoscere l’esito dei titoli esteri in accredito.

La norma di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137, comma 2, punisce l’impiegato di banca che omette di segnalare dati o notizie di cui è a conoscenza.

I giudici di merito hanno accertato - e ciò non può essere messo in discussione in questa sede di legittimità - che secondo la prassi bancaria per i titoli esteri le PAD erano utilizzate fino all’esito della negoziazione.

Non vi erano norme di legge o regolamentari che imponessero siffatto sistema di rilevazione dati, ma è certo che la prassi ne aveva imposto l’uso, tanto è vero che pure il giudice di primo grado, che è pervenuto alla assoluzione del R., non ha potuto non rilevare che sotto l’aspetto professionale il comportamento era stato censurabile proprio perchè imprudentemente l’impiegato si era allontanato da una prassi oramai consolidata.

La PAD in definitiva serve proprio ad acquisire le informazioni necessarie per potere considerare il cd. saldo contabile un saldo disponibile per il cliente; si trattava, quindi, di un sistema finalizzato proprio alla raccolta delle informazioni necessarie sulla solvibilità del cliente di uso oramai comune presso le banche.

La norma non precisa quale sistema deve essere usato per acquisire informazioni e, quindi, è evidente che bisogna fare riferimento a quelli in uso comunemente presso la banca considerata.

Ciò posto se l’impiegato scarica il sistema detto non avrà più quel flusso di informazioni ritenute necessarie ed ometterà di segnalare i dati e le notizie che la banca ritiene necessarie.

Anzi vi è qualcosa in più: senza nulla dover fare il sistema PAD automaticamente trasmette a livello centrale le informazioni necessarie.

E’ allora ovvio che se l’operatore, scaricando il PAD, che costituisce l’unico sistema che gli venga conferito per acquisire notizie utili, interrompe quel flusso di notizie e di dati che automaticamente vengono trasferita a livello centrale, ometterà di segnalare notizie vere.

In tal modo non vi è alcun dubbio che sia integrata la fattispecie tipica prevista dalla norma in discussione, come correttamente hanno ritenuto i giudici di secondo grado.

Non è poi vero che la norma incriminatrice faccia riferimento esclusivamente ad una autonoma e preliminare fase istruttoria come ha sostenuto il ricorrente.

In effetti la norma prevede due condotte distinte, consistendo la prima nella omessa segnalazione di dati e notizie e la seconda nella utilizzazione nella fase istruttoria di notizie e dati falsi.

La fase istruttoria è, quindi, riferibile soltanto alla utilizzazione di dati falsi e non anche alla omissione di notizie.

Si tratta all’evidenza di due situazioni diverse perchè la seconda attiene alla fase di costituzione del rapporto, mentre la prima intende garantire un flusso continuo di notizie e di dati che mettano la banca in condizioni di attivarsi anche per una immediata revoca della apertura di credito.

Da quanto detto discende anche che mentre le notizie false che compromettono la fase genetica del rapporto debbono riferirsi alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del richiedente, i dati e le notizie di cui alla prima parte della norma incriminatrice concernono qualsiasi notizia dalla quale possa desumersi la presenza di una qualche anomalia nel rapporto.

E’ infondato anche il secondo motivo di impugnazione con il quale il ricorrente ha contestato che la condotta omissiva ascritta al R. potesse essere qualificata come concessione di credito.

La norma usa i termini concedere credito e più avanti, come già si è detto, richiedente il fido.

Si tratta all’evidenza di termini atecnici, come ha riconosciuto lo stesso ricorrente a proposito del termine fido mutuato dalla dottrina economica più che da quella bancaria vera e propria.

Francamente hanno ragione i giudici di merito quando rilevano che non vi è alcun elemento nella norma in discussione che consenta di limitarne la portata soltanto ai cosiddetti finanziamenti diretti, ovvero ai contratti tipici che consentono di aprire una linea di credito.

Se così fosse il legislatore avrebbe certamente utilizzato termini tecnici precisi ed avrebbe fatto esplicito riferimento ai contratti di apertura di credito disciplinati dagli artt. 1842 c.c. e ss. o a quello più generale di mutuo.

Invece il legislatore volutamente non ha fatto riferimento a tali contratti bancari tipici proprio perchè ha voluto rendere applicabile la norma a tutte le situazioni in cui di fatto un soggetto abbia disponibilità di somme a credito da parte dell’istituto bancario, qualunque sia la veste in cui tale disponibilità si realizzi.

E tra i casi di disponibilità di somme di danaro certamente rientra quella di chi possa usufruire della somma indicata nel c.d. saldo contabile senza prima attendere il buon esito della negoziazione degli assegni, invece di quella più limitata del saldo effettivo.

In siffatta situazione certamente è lecito parlare di credito che la banca concede al suo cliente.

Nè si tratta di una interpretazione estensiva in malam partem, come sostenuto dal ricorrente, perchè anzi si tratta di una interpretazione letterale della norma, di cui ingiustificatamente ed illogicamente si vorrebbe ridurre la portata.

Infondato è anche il terzo motivo di impugnazione con il quale si è sostenuta la mancanza dell’elemento psicologico del reato.

Non vi è dubbio che il reato di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137, comma 2, sia un reato contravvenzionale con dolo specifico consistente nel fine di concedere o far concedere un credito.

Ovviamente la sussistenza del dolo va desunta dalle modalità della condotta e dagli altri elementi del fatto contestato ed è proprio in tal modo che hanno operato i giudici di secondo grado.

Dalle sentenze di merito - anche da quella di primo grado che è pervenuta per altre ragioni ad una pronuncia assolutoria - è emerso che i contratti di conto corrente intestati al M. e alla BA.MAR. appena un mese prima del fatto erano stati stipulati proprio dal R., nonostante le notizie relative alla sorte di una società gestita dal M. in Sicilia non fossero proprio confortanti. Nonostante il brevissimo tempo dalla instaurazione del rapporto, il R. si decise a compiere una operazione del tutto anomala e contraria alla prassi bancaria oltre che alla logica di buona amministrazione scaricando la PAD, che garantiva il regolare ed utile flusso di notizie, ed impedendo, quindi, che queste pervenissero agli uffici centrali, ed anzi premurandosi di dire al collega, che l’avrebbe sostituito durante le ferie, di non utilizzare la PAD per il M. e la BA.MAR. s.r.l. della quale era amministratore il M..

Naturalmente il R. era ben consapevole che con tale azione si sarebbe interrotto il flusso di notizie e volontariamente ha agito in tal modo.

Il fine evidente era proprio quello di rendere disponibile per l’utilizzazione l’importo degli assegni esteri prima che vi fosse stata assicurazione sulla buona riuscita della negoziazione.

Tutto ciò integra certamente l’elemento soggettivo richiesto dal reato in discussione perchè il fine richiesto è quello di aprire e mantenere in vita una linea di credito senza le necessarie informazioni, che, attraverso lo scaricamento della PAD, il R. ometteva di comunicare alla Banca.

La considerazione che fino a quel momento il M. non era ancora insolvente, o meglio, che il R. non fosse ancora a conoscenza di una insolvenza, è circostanza che non rileva ai fini della configurazione del dolo richiesto dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137.

Infine il quarto motivo di impugnazione è infondato e si risolve in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.

Non è affatto vero che il giudice di secondo grado non abbia tenuto in conto gli interessanti argomenti rappresentati dal primo giudice;

in effetti tali argomenti sono stati considerati, ma sono stati motivatamente, come si è detto, disattesi.

Tale considerazione è, quindi, infondata, mentre le altre contenute nel motivo sono di merito.

In effetti il ricorrente ha cercato di dimostrare che, dal momento che la PAD non veniva apposta per i clienti fidati, non avendo notizie il R. di insoluti correttamente si è nel modo oramai noto determinato.

Ma tutto ciò pone in discussione tutti gli accertamenti di merito compiuti dai primi due giudici - su di essi vi è concordanza, poichè le differenze concernono la interpretazione dei dati di fatto - e che sono stati riportati in precedenza.

Si tratta di dati che non possono essere messi in discussione in questa sede perchè la ricostruzione degli eventi è sorretta, come già si è detto, da una motivazione che non merita alcuna censura sotto il profilo della legittimità.

Per i motivi indicati la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il reato è estinto per prescrizione.

Il ricorso deve, invece, essere rigettato agli effetti civili ed il ricorrente deve essere condannato al rimborso delle spese in favore della parte civile, liquidate in Euro 2.400,00, dei quali Euro 2.000,00 per onorari ed Euro 400,00 per indennità di trasferta.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione;

Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore della parte civile, liquidate in Euro 2.400,00 dei quali Euro 2.000,00 per onorari ed Euro 400,00 per indennità di trasferta.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 luglio 2005.

Depositato in cancelleria il 12 gennaio 2006

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LATTANZI Giorgio - Presidente -

Dott. PIZZUTI Giuseppe - Consigliere -

Dott. SICA Giuseppe - Consigliere -

Dott. MARASCA Gennaro - Consigliere -

Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) R.F., N. IL (OMISSIS);

avverso SENTENZA del 26/10/2004 CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. MARASCA GENNARO;

Udito il Pubblico Ministero in persona del Dottor IACOVIELLO Francesco Paolo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore della parte civile avvocato BIANCHI, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Udito il difensore dell’imputato avvocato MAZZACUVA Nicola, che ha concluso per l’annullamento, con o senza rinvio, della sentenza impugnata.

La Corte di Cassazione:

Fatto e Diritto

A R.F., nella sua qualità di funzionario del Banco di Sicilia - Agenzia (OMISSIS) -, veniva contestata la violazione del D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385, art. 137, comma 2, perchè, per favorire A.M. in proprio e quale legale rappresentante della BAMAR s.r.l., dovendo valutare titoli esteri sui conti correnti di tali clienti scaricava arbitrariamente le relative PAD - partite avvisate dare -, cioè le segnalazioni che sospendevano l’accredito degli assegni esteri fino alla conoscenza dell’esito degli stessi, e dava disposizioni affinchè tale avviso non venisse più dato prima di conoscere l’esito dei titoli stessi.

In conseguenza di tale comportamento il M. aveva avuto immediata disponibilità delle somme indicate sugli assegni, che, in buona parte, tornarono insoluti per un ammontare di L. 480.000.000.

Il Tribunale di Milano, con sentenza emessa in data 25 settembre 2003, assolveva il R. dalla contravvenzione contestatagli perchè il fatto non costituisce reato ritenendo in particolare non solo la mancanza di prova in ordine al dolo richiesto, ma anche la mancanza di elementi costitutivi del reato in discussione sia perchè la disponibilità della somma non equivaleva ad una apertura di credito, sia perchè da parte del R. non vi era stata alcuna omissione di comunicazioni riguardanti il cliente.

In seguito ad impugnazione del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Milano, quest’ultima Autorità Giudiziaria, con sentenza emessa in data 26 ottobre 2004, dopo avere rilevato che la norma risultava applicabile a qualsiasi situazione in cui di fatto un soggetto avesse disponibilità di somme a credito da parte dell’Istituto bancario e che l’anticipata cancellazione delle PAD si traduceva nell’omissione di informazioni vere circa le condizioni del cliente, ed avere messo in evidenza che era ravvisabile nella condotta posta in essere il dolo richiesto, in riforma della sentenza di primo grado, condannava R.F. alla pena di giustizia, oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile da liquidarsi in separato giudizio.

Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per Cassazione R.F., il quale, tramite il proprio difensore di fiducia, deduceva i seguenti motivi di impugnazione:

1) Erronea applicazione della legge penale - D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137 - perchè la mera inosservanza di una prassi interna è stata ricondotta alla fattispecie contestata. Il ricorrente ha posto in evidenza la assenza di regolamenti e di ordini di servizio che disciplinassero l’appostazione e la cancellazione delle PAD ed ha rilevato che il reato contestato, trattandosi di un reato omissivo proprio, era ravvisabile soltanto nel caso di mancato compimento dell’azione richiesta dalla norma incriminatrice. Infine il ricorrente ha rilevato che il comportamento posto in essere costituiva una condotta attiva che non integrava, comunque, la condotta sanzionata consistente nell’invio di notizie relative alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del richiedente il fido.

2) Erronea applicazione della legge penale - citato D.Lgs. art. 137 - perchè la Corte di merito ha qualificato la condotta contestata come concessione di credito, mentre l’improprio termine fido usato dal legislatore deve essere inteso nel senso di contratto di apertura di credito; i conti correnti non erano costitutivi di linee di credito.

La interpretazione della Corte di merito era, quindi, in malam partem.

3) Violazione dell’articolo 137 citato perchè la Corte di merito ha ritenuto sussistente l’elemento psicologico della contravvenzione contestata - dolo specifico -, mentre è pacifico, in quanto riferito dalla sentenza di primo grado, che alla data del 20 ottobre 2000 - quando diede disposizione di scaricare le PAD - il R. non conosceva la stato di insolvenza dei clienti, noto, invece, alla sede centrale dell’Istituto sin dal 5 ottobre 2000.

4) Vizio di motivazione perchè la Corte di merito non ha contestato le considerazioni di segno contrario contenute nella sentenza di primo grado, che era pervenuta, come già detto, alla assoluzione dell’imputato. In particolare nella motivazione della sentenza del primo giudice si dava atto che per i clienti fidati - tali erano il M. e la BAMAR - la PAD non veniva apposta.

5) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale - artt. 573, 576 e 648 c.p.p. - perchè la Corte di merito ha statuito in ordine ai profili civilistici pur in assenza di impugnazione della parte civile.

Il ricorrente chiedeva l’annullamento, con o senza rinvio della decisione impugnata.

Con successiva memoria difensiva depositata in data 21 giugno 2005 il difensore del ricorrente riproponeva alcune questioni ed in particolare ribadiva che l’art. 137 citato era stato erroneamente applicato sia perchè la cancellazione anticipata della PAD non rappresenta una forma di finanziamento diretto, sia perchè tale comportamento non integra la condotta tipica consistente nella utilizzazione di notizie e dati inveritieri, sia perchè la norma tutela la trasparenza della fase istruttoria dell’affidamento finanziario. Infine il difensore, dopo avere ricordato l’impossibilità di una condanna al risarcimento in assenza di impugnazione della parte civile, deduceva la intervenuta prescrizione del reato che risultava commesso in data 20 ottobre 2000.

I motivi posti a fondamento del ricorso proposto da R.F. non sono fondati, salvo quello relativo alla prescrizione del reato di cui al terzo motivo della citata memoria difensiva.

Il fatto è stato denunciato il 9 gennaio 2001, ma, in realtà, come risulta dalla motivazione delle due sentenze di merito, il reato si è consumato fino al 20 ottobre 2000, giorno nel quale il R. è andato in ferie.

Il termine prescrizionale, trattandosi di una contravvenzione punita con l’arresto è, ai sensi dell’art. 157 c.p., di anni quattro e mesi sei.

Di conseguenza il termine prescrizionale si è consumato il 20 aprile 2005.

I motivi di ricorso, come meglio si dirà, vanno rigettati, ma non sono inammissibili e, quindi, il maturare del termine prescrizionale anche in pendenza del giudizio di Cassazione produce l’effetto estintivo.

Dagli atti non risulta evidente la prova della estraneità del R. al fatto contestato e ciò non solo tenuto conto degli argomenti posti a sostegno della sentenza di condanna della Corte di Appello, ma anche per quanto si dirà per rigettare il ricorso agli effetti civili.

Ne consegue che, previo annullamento della sentenza impugnata, si deve prosciogliere l’imputato dal reato contestato per essere lo stesso estinto per prescrizione.

Tenuto conto degli esiti penali della vicenda, prima di esaminare i motivi di ricorso ai sensi dell’art. 578 c.p.p., appare preliminare esaminare il quinto motivo di impugnazione, secondo il quale la Corte di merito non avrebbe potuto statuire in ordine ai profili civilistici perchè avverso la sentenza di assoluzione in primo grado la parte civile non aveva proposto appello.

La tesi del ricorrente non è fondata.

Le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione hanno risolto un contrasto sorto tra le Sezioni della Suprema Corte e, mutando un orientamento precedente (SS.UU. Penali 11 marzo 1999, Loparco, in Cass. Pen. 1999, p. 2084), hanno stabilito che in una situazione siffatta il giudice di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, pronunci condanna dell’imputato deve provvedere anche sulle richieste della parte civile costituita e presente al processo, anche in assenza di specifica impugnazione della stessa (SS.UU. 11 settembre 2002, Guadalupi, in Cass. Pen. 2002, p. 3675 ).

Il Collegio condivide tale orientamento e rileva che gli argomenti portati dal ricorrente, pure interessanti e suggestivi, non consentono di superare la decisione delle Sezioni Unite.

Sul punto sarà sufficiente osservare che in primo grado gli aspetti civilistici, in caso di assoluzione penale, non vengono per nulla esaminati per essere venuto meno il presupposto per la condanna al risarcimento del danno.

L’impugnazione del P.G. sulla responsabilità penale, ovvero sul presupposto per la condanna anche al risarcimento del danno, rimette alla valutazione ed alla decisione della Corte di Appello la intera situazione processuale dell’imputato.

In una situazione siffatta un autonoma impugnazione della parte civile sarebbe, in verità, superflua, mancando aspetti specifici della decisione che investano le problematiche civilistiche.

Siffatta impostazione è legittimata dalla disposizione prevista dall’art. 76 c.p.p. che ha stabilito il principio della immanenza della costituzione di parte civile per tutta la durata del processo; detta immanenza fa sì che quando si verifichi il presupposto - la condanna penale - il giudice deve esaminare anche la domanda al risarcimento ed alle restituzioni della parte civile.

Sotto tale profilo vi è una sorta di accessorietà dell’azione proposta dalla parte civile al giudizio penale.

Infine se così non fosse non si comprenderebbe la disposizione dell’art. 601 c.p.p., comma 4, che prevede che la parte civile debba essere sempre citata a comparire nel processo penale nel quale si è costituita e, quindi, anche se non abbia proposto una autonoma impugnazione.

Si tratta ovviamente di una conseguenza del principio della immanenza, ma se la parte civile nel caso di mancata autonoma impugnazione non potesse interloquire sugli aspetti civili della questione e reiterare la sua domanda di risarcimento la sua presenza sarebbe superflua non potendo essa parte civile interloquire sugli aspetti penali se non strettamente connessi alla domanda civile.

Correttamente quindi i giudici di appello di Milano hanno deciso anche sugli aspetti civili ed altrettanto correttamente questa Corte deve valutare i motivi di ricorso agli effetti civili ai sensi dell’art. 578 c.p.p., sussistendo il presupposto di una condanna penale pronunciata dal giudice di merito.

E’ infondato il primo motivo di impugnazione con il quale si è sostenuto che la condotta del R. non integrerebbe quella astratta prevista dalla legge bancaria.

In concreto al R. è stato contestato di avere scaricato dal sistema informatico relativo ai conti correnti del M. e della BA.MAR s.r.l. le PAD - partite avvisate dare - prima di conoscere l’esito dei titoli esteri in accredito.

La norma di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137, comma 2, punisce l’impiegato di banca che omette di segnalare dati o notizie di cui è a conoscenza.

I giudici di merito hanno accertato - e ciò non può essere messo in discussione in questa sede di legittimità - che secondo la prassi bancaria per i titoli esteri le PAD erano utilizzate fino all’esito della negoziazione.

Non vi erano norme di legge o regolamentari che imponessero siffatto sistema di rilevazione dati, ma è certo che la prassi ne aveva imposto l’uso, tanto è vero che pure il giudice di primo grado, che è pervenuto alla assoluzione del R., non ha potuto non rilevare che sotto l’aspetto professionale il comportamento era stato censurabile proprio perchè imprudentemente l’impiegato si era allontanato da una prassi oramai consolidata.

La PAD in definitiva serve proprio ad acquisire le informazioni necessarie per potere considerare il cd. saldo contabile un saldo disponibile per il cliente; si trattava, quindi, di un sistema finalizzato proprio alla raccolta delle informazioni necessarie sulla solvibilità del cliente di uso oramai comune presso le banche.

La norma non precisa quale sistema deve essere usato per acquisire informazioni e, quindi, è evidente che bisogna fare riferimento a quelli in uso comunemente presso la banca considerata.

Ciò posto se l’impiegato scarica il sistema detto non avrà più quel flusso di informazioni ritenute necessarie ed ometterà di segnalare i dati e le notizie che la banca ritiene necessarie.

Anzi vi è qualcosa in più: senza nulla dover fare il sistema PAD automaticamente trasmette a livello centrale le informazioni necessarie.

E’ allora ovvio che se l’operatore, scaricando il PAD, che costituisce l’unico sistema che gli venga conferito per acquisire notizie utili, interrompe quel flusso di notizie e di dati che automaticamente vengono trasferita a livello centrale, ometterà di segnalare notizie vere.

In tal modo non vi è alcun dubbio che sia integrata la fattispecie tipica prevista dalla norma in discussione, come correttamente hanno ritenuto i giudici di secondo grado.

Non è poi vero che la norma incriminatrice faccia riferimento esclusivamente ad una autonoma e preliminare fase istruttoria come ha sostenuto il ricorrente.

In effetti la norma prevede due condotte distinte, consistendo la prima nella omessa segnalazione di dati e notizie e la seconda nella utilizzazione nella fase istruttoria di notizie e dati falsi.

La fase istruttoria è, quindi, riferibile soltanto alla utilizzazione di dati falsi e non anche alla omissione di notizie.

Si tratta all’evidenza di due situazioni diverse perchè la seconda attiene alla fase di costituzione del rapporto, mentre la prima intende garantire un flusso continuo di notizie e di dati che mettano la banca in condizioni di attivarsi anche per una immediata revoca della apertura di credito.

Da quanto detto discende anche che mentre le notizie false che compromettono la fase genetica del rapporto debbono riferirsi alla situazione economica, patrimoniale e finanziaria del richiedente, i dati e le notizie di cui alla prima parte della norma incriminatrice concernono qualsiasi notizia dalla quale possa desumersi la presenza di una qualche anomalia nel rapporto.

E’ infondato anche il secondo motivo di impugnazione con il quale il ricorrente ha contestato che la condotta omissiva ascritta al R. potesse essere qualificata come concessione di credito.

La norma usa i termini concedere credito e più avanti, come già si è detto, richiedente il fido.

Si tratta all’evidenza di termini atecnici, come ha riconosciuto lo stesso ricorrente a proposito del termine fido mutuato dalla dottrina economica più che da quella bancaria vera e propria.

Francamente hanno ragione i giudici di merito quando rilevano che non vi è alcun elemento nella norma in discussione che consenta di limitarne la portata soltanto ai cosiddetti finanziamenti diretti, ovvero ai contratti tipici che consentono di aprire una linea di credito.

Se così fosse il legislatore avrebbe certamente utilizzato termini tecnici precisi ed avrebbe fatto esplicito riferimento ai contratti di apertura di credito disciplinati dagli artt. 1842 c.c. e ss. o a quello più generale di mutuo.

Invece il legislatore volutamente non ha fatto riferimento a tali contratti bancari tipici proprio perchè ha voluto rendere applicabile la norma a tutte le situazioni in cui di fatto un soggetto abbia disponibilità di somme a credito da parte dell’istituto bancario, qualunque sia la veste in cui tale disponibilità si realizzi.

E tra i casi di disponibilità di somme di danaro certamente rientra quella di chi possa usufruire della somma indicata nel c.d. saldo contabile senza prima attendere il buon esito della negoziazione degli assegni, invece di quella più limitata del saldo effettivo.

In siffatta situazione certamente è lecito parlare di credito che la banca concede al suo cliente.

Nè si tratta di una interpretazione estensiva in malam partem, come sostenuto dal ricorrente, perchè anzi si tratta di una interpretazione letterale della norma, di cui ingiustificatamente ed illogicamente si vorrebbe ridurre la portata.

Infondato è anche il terzo motivo di impugnazione con il quale si è sostenuta la mancanza dell’elemento psicologico del reato.

Non vi è dubbio che il reato di cui al D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137, comma 2, sia un reato contravvenzionale con dolo specifico consistente nel fine di concedere o far concedere un credito.

Ovviamente la sussistenza del dolo va desunta dalle modalità della condotta e dagli altri elementi del fatto contestato ed è proprio in tal modo che hanno operato i giudici di secondo grado.

Dalle sentenze di merito - anche da quella di primo grado che è pervenuta per altre ragioni ad una pronuncia assolutoria - è emerso che i contratti di conto corrente intestati al M. e alla BA.MAR. appena un mese prima del fatto erano stati stipulati proprio dal R., nonostante le notizie relative alla sorte di una società gestita dal M. in Sicilia non fossero proprio confortanti. Nonostante il brevissimo tempo dalla instaurazione del rapporto, il R. si decise a compiere una operazione del tutto anomala e contraria alla prassi bancaria oltre che alla logica di buona amministrazione scaricando la PAD, che garantiva il regolare ed utile flusso di notizie, ed impedendo, quindi, che queste pervenissero agli uffici centrali, ed anzi premurandosi di dire al collega, che l’avrebbe sostituito durante le ferie, di non utilizzare la PAD per il M. e la BA.MAR. s.r.l. della quale era amministratore il M..

Naturalmente il R. era ben consapevole che con tale azione si sarebbe interrotto il flusso di notizie e volontariamente ha agito in tal modo.

Il fine evidente era proprio quello di rendere disponibile per l’utilizzazione l’importo degli assegni esteri prima che vi fosse stata assicurazione sulla buona riuscita della negoziazione.

Tutto ciò integra certamente l’elemento soggettivo richiesto dal reato in discussione perchè il fine richiesto è quello di aprire e mantenere in vita una linea di credito senza le necessarie informazioni, che, attraverso lo scaricamento della PAD, il R. ometteva di comunicare alla Banca.

La considerazione che fino a quel momento il M. non era ancora insolvente, o meglio, che il R. non fosse ancora a conoscenza di una insolvenza, è circostanza che non rileva ai fini della configurazione del dolo richiesto dal D.Lgs. 1 settembre 1993, n. 385, art. 137.

Infine il quarto motivo di impugnazione è infondato e si risolve in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.

Non è affatto vero che il giudice di secondo grado non abbia tenuto in conto gli interessanti argomenti rappresentati dal primo giudice;

in effetti tali argomenti sono stati considerati, ma sono stati motivatamente, come si è detto, disattesi.

Tale considerazione è, quindi, infondata, mentre le altre contenute nel motivo sono di merito.

In effetti il ricorrente ha cercato di dimostrare che, dal momento che la PAD non veniva apposta per i clienti fidati, non avendo notizie il R. di insoluti correttamente si è nel modo oramai noto determinato.

Ma tutto ciò pone in discussione tutti gli accertamenti di merito compiuti dai primi due giudici - su di essi vi è concordanza, poichè le differenze concernono la interpretazione dei dati di fatto - e che sono stati riportati in precedenza.

Si tratta di dati che non possono essere messi in discussione in questa sede perchè la ricostruzione degli eventi è sorretta, come già si è detto, da una motivazione che non merita alcuna censura sotto il profilo della legittimità.

Per i motivi indicati la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perchè il reato è estinto per prescrizione.

Il ricorso deve, invece, essere rigettato agli effetti civili ed il ricorrente deve essere condannato al rimborso delle spese in favore della parte civile, liquidate in Euro 2.400,00, dei quali Euro 2.000,00 per onorari ed Euro 400,00 per indennità di trasferta.

P.Q.M.

La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione;

Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente al rimborso delle spese in favore della parte civile, liquidate in Euro 2.400,00 dei quali Euro 2.000,00 per onorari ed Euro 400,00 per indennità di trasferta.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 luglio 2005.

Depositato in cancelleria il 12 gennaio 2006