C’era una volta a Salandra… e non solo

C’era una volta a Salandra… e non solo
Abstract: L’articolo descrive le relazioni intergenerazionali e la trasmissione dei valori e della cultura nelle comunità rurali del passato.
Ritornare, ricercare, ritrovare, ricordare…
Ricordare è riaprire una finestra del passato, è rimorchiare il passato per agganciarlo al presente e farne un carico di emozioni per andare avanti.
Ricordo è l’ombra sotto cui ci si rinfranca in tempi avversi.
Quasi nel cuore dell’ispido entroterra lucano sorge Salandra, un paese che non c’è bisogno di definire piccolo o paesello o altro, come precisa il paesologo Franco Erminio, perché la parola “paese” ha già in sé l’essenza di un paese. Salandra, paese che si presenta come un Giano bifronte, boschivo da un lato e argilloso e pietroso dall’altro, antico e moderno, che ha dato i natali a operai e a imprenditori… Paese che ne ha passate e superate tante (dai briganti ai terremoti) scrivendo una storia comune di cui essere orgogliosi, come di tutta la storia lucana.
Nascere in un paese allora ricco di storia e storie, di agricoltura e ogni altra forma di cultura, ti fa provare qualcosa di atavico, ancestrale, viscerale, quasi apotropaico, quando ti ritrovi immersa, seppure in maniera fugace, - come il posarsi di una farfalla che, non a caso, è il tuo insetto preferito - nella sua natura che, per quanto deturpata nel tempo e dall’uomo, torna a essere selvaggia e a impossessarsi dei suoi spazi e delle sue creature, anche in seguito all’abbandono crescente delle campagne.
Primo dopoguerra, anno 1921: nascita del maestro e scrittore siciliano Leonardo Sinisgalli, del maestro e narratore lombardo Mario Lodi, del musicista argentino Astor Piazzolla, dell’attore ciociaro Nino Manfredi e della Moto Guzzi a Genova. Il 24 marzo dello stesso anno nasceva mio nonno materno Antonio Leonardo, amante della lettura e della cultura in generale, della musica e in particolare della fisarmonica, del cinema (che, nonostante le ristrettezze, non si è fatto mai mancare né al paese né durante l’emigrazione in Germania dove vide in prima visione il film “La ciociara”) e delle moto, in special modo della rossa Moto Guzzi, sostituita successivamente dalla Vespa arancione e infine da quella rossa, tutti simboli del design italiano. La cultura patriarcale del tempo, purtroppo, che favoriva i primogeniti (altresì portatori del nome del nonno paterno) non gli consentì di continuare gli amati studi che finirono con la classe sesta della scuola popolare, l’unica esistente allora. Ciò, però, non gli impedì di andare oltre lo stereotipo “contadino, scarpe grosse e cervello fino”. Era capace di fare di tutto, per esempio usava ogni sorta di canna di palude per fare le canestre o per utilizzare le proprietà medicamentose delle membrane interne o con quelle più sottili creava lo strumento musicale popolare della “cupa cupa” per far divertire noi tre nipoti nel periodo carnevalesco o per fare i ditali o paradita per proteggere le dita durante la mietitura con la falce. Tra le tante, realizzò con i suoi vestiti dismessi uno spaventapasseri che faceva più paura alle persone che agli uccelli, perché sembrava un personaggio inquietante de “Il Mago di Oz”. Leggeva di tutto, dal romanzetto ad Anton Cechov, si documentava su tutto, comprava gli ultimi trovati di utensileria, si adoperava in tutto, dalla potatura all’apicoltura. Gli aneddoti su di lui si perdono, anche se l’ho perso precocemente, così come erano tanti quelli che raccontava, fra tutti ripeteva quello che riguardava la sua breve esperienza dell’arruolamento nella seconda guerra mondiale quando un commilitone e corregionale, gli chiese di scrivergli (perché analfabeta) una lettera da mandare a casa, ma mio nonno non riusciva a capire il nome del paese dove indirizzarla perché pronunciato velocemente e in un dialetto stretto fin quando venne fuori che si trattava di Episcopia (in provincia di Potenza), che dal quel racconto è entrato nel mio cuore (pur non conoscendolo) tanto da parlarne in un mio testo di geografia della mia scuola elementare e sentirmi palpitare il cuore quando ho visto il cartello stradale andando verso il territorio del Pollino. Una volta, mentre già era sulla sua Vespa per tornarsene a casa sua, sentì qualcosa muoversi nella manica della giacca e, tastando, tirò fuori un topolino come un mago fa uscire un coniglio dal suo cilindro. I nonni di una volta: maestri di storia e geografia, quelle della vita, perché davano contenuto e orientamento alla vita. I nonni non erano baby sitter o sostituti dei genitori o ostacolati nei rapporti con i nipoti o ignorati o chiusi in case di cura, erano nonni.
Oltre ad Antonio, Giuseppe, nome che deriva da un verbo ebraico col significato emblematico di “accrescere, aumentare, aggiungere”, era un altro dei nomi di persona più diffusi, presente quasi in ogni famiglia e con tante variazioni, anche al femminile. E così pensi ai tanti parenti con questo nome che hanno puntinato la tua vita, quelli che non hai conosciuto affatto o per poco, perché morti o scomparsi precocemente o tragicamente o in altro modo lontani, quelli che non hai vissuto o non frequentato: dai tre bisnonni, di cui si è sentito solo parlare, al procugino (anche se, all’epoca, ci si riteneva tutti cugini o, comunque, parenti stretti) coetaneo con cui si è cresciuti vicini di casa, insieme alla scuola media, nelle feste di famiglia e in altri momenti importanti. Tra questi due estremi, l’albero genealogico pullulava di Giuseppe: c’era il decano, il cugino paterno diventato poliziotto che, quando tornava in estate al paese, cui è rimasto legato sino all’ultimo, era accolto e circondato, come un gigante buono, da tanti per ascoltarne racconti della vita nella capitale e ricordi della sua giovinezza paesana mai dimenticata. C’era l’altro cugino omonimo di quello precedente e quasi suo coetaneo, abile meccanico, sempre affettuoso, mite, rispettoso, che non faceva mai mancare la sua visita o la sua telefonata, che non dispensava consigli ma solo esempio di vita e che era solito andare a leggere una delle due letture in chiesa quando faceva ritorno in paese. E ancora, c’era il fratello della bisnonna materna, diventato padre di undici figli, abituale nel suo mettersi a sedere, da anziano, davanti al camino o davanti casa, nella bella stagione, vestito nel modo classico del tempo e con il suo atteggiamento austero da vero capofamiglia, sempre con la moglie accanto o di fronte ed entrambi sembravano nella posa in cui ci si metteva per fare le foto da appendere, poi, alle pareti. E tanti, tanti altri parenti. Al di fuori del parentado, in paese c’era un Giuseppe in ogni ruolo o professione. A cominciare dal “medico condotto”, chiamato “don” per riverenza e immortalato nella memoria di tutti quando si affacciava dal suo balcone con la ringhiera in ferro battuto e prospiciente la piazza centrale. A seguire, l’elettrotecnico che si spostava con la vecchia Renault 4 rossa e che con la sua cassetta degli attrezzi sembrava un medico chirurgo, come lo era veramente la sorella, l’altra dottoressa del paese, che aveva fatto nascere decine di bambini nei parti in casa. Il sindacalista e vicesindaco nonché venditore ambulante con il furgone rosso, usato pure per la propaganda elettorale o per organizzare la festa del primo maggio. Nella parte più alta del paese il bottegaio di generi alimentari, fratello del postino. Il falegname, preciso ma lento nelle consegne. Il bravo insegnante, esponente di una delle famiglie in vista. Il tappezziere, denominato “Pippo”. Il fidato aiutante dell’impeccabile sarto. Il chitarrista e cantante amatoriale con il nome d’arte “Ramon” (nome preso dal film “Per un pugno di dollari”) e che aveva fondato con altri il complessino (e non “band”, come si dice ora) “The New Boys”. Il vicino di casa dei miei nonni, somigliante al Mastro Geppetto di Pinocchio, che metteva a riposo nella stalluccia sottoscala il suo asinello, non semplice animale domestico o mezzo di trasporto ma compagnia nella sua lunga vedovanza. L’orefice con un nomignolo tutto suo. Il calzolaio. Il muratore…
Accanto a Giuseppe non poteva mancare il nome di Maria. E si era soliti chiamare le donne con questo nome “zia” o “commara”, anche se non vi era un rapporto di parentela o di frequentazione, ma per rispetto del rapporto di vicinato o dell’età matura o della funzione che svolgeva in paese. E così c’era zia Maria, la sorella del nonno materno che aveva il compito di “vestire” la statua di San Rocco in occasione della processione solenne per la festa patronale e che era esemplare per il suo ordine meticoloso nei cassetti e nelle sue cose. L’altra zia Maria, sorella della bisnonna materna, con cui c’era un doppio legame di sangue, dal lato materno e da quello paterno, perché prima in paese ci si imparentava tutti. Un’altra “zia” Maria, mai sposata e, quindi, senza nipoti, che abitava in una zona appartata del paese che sembrava non essere stata toccata dalla modernità, affacciata sui suggestivi calanchi senza tempo. Minuta, sferruzzava silenziosamente e minuziosamente i suoi più di due minuscoli ferri per fare calze e calzini su commissione (come i calzettoni per i miei fratelli che le commissionava mia nonna). Abitava accanto a una delle zie paterne più care, per cui era diventata una figura familiare, e nella sua casetta monolocale viveva in maniera spartana con suo fratello, anche lui non sposato. Entrambi sembravano personaggi fiabeschi, come quelli che spuntavano dalle casette in fondo al bosco. Il loro aspetto evocava i quadri di Carlo Levi e quell’angolo riposto sembrava la Lucania descritta in “Cristo si è fermato a Eboli”. E, poi, c’era “comma” Maria, punto di riferimento in chiesa, sempre pronta a recitare il Rosario, sposata ma senza figli, materna con tutti anche per la sua fisicità all’Ave Ninchi. Nella scuola elementare c’erano le maestre Maria e le due bidelle quando, appunto, non si parlava di collaboratrici scolastiche né di scuola primaria. Allora i bidelli indossavano grembiuli di un blu più scuro rispetto a quello del grembiule portato dai bambini, erano delle autorità più degli insegnanti, erano la scuola stessa. I corridoi erano lindi e negli angoli c’erano piante di cui si prendevano cura. Quelle due bidelle, essendo molto diverse per fisico e atteggiamento, sembravano la versione femminile delle coppie televisive o cinematografiche che avevano successo in quel periodo, per esempio Gianni e Pinotto, Raimondo Vianello e Ugo Tognazzi o altri. C’erano Maria, “la grassanese”, sempre capofila nelle processioni, Maria, l’ortolana, con cui era consuetudine scambiarsi il saluto quotidiano e quattro piacevoli chiacchiere, Maria, la moglie del fornaio…
Erano tutti e tutte istituzioni, icone, personaggi “in cerca d’autore” del teatro popolare inscenato nella vita quotidiana. E i bambini li guardavano, apprendevano da loro, li imitavano e si accontentavano del verace spettacolo della variopinta umanità ed erano autenticamente “contenti”. E il paese era comunità viva e vitale, una vera comunità educante secondo il proverbio africano “per educare un bambino serve un intero villaggio”.
Nascere in un posto ti segna e ti segue per tutta la vita in maniera silenziosa e significativa come la linfa irrorata dalle radici. Compaesanità: anche la partenza non cancella il senso di appartenenza, quel senso di paese descritto magistralmente dal grande Cesare Pavese.
“Ma un conto è essere tristi e stanchi, e un altro è perdersi d’animo, facendo della nostalgia uno stato abituale” (cit.). “Nostalgia”, letteralmente “dolore del ritorno al paese, a casa”: farsi prendere dalla nostalgia ma non farsi travolgere, altrimenti si perde l’ardire e l’ardore per il presente.
Scrivere è scoprire, scolpire, scrostare, scrutare... Scrivere, poi, sul proprio paese in cui si è nati e vissuti pochi anni dà un nuovo sapore, un nuovo senso e un nuovo significato al tempo passato.