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Comunque, e sempre, dalla parte degli sconfitti

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Comunque, e sempre, dalla parte degli sconfitti
 

Da sempre sono appassionato di cinema. Anzi, a dirla tutta, più che altro lo ero: oggi come oggi faccio una gran fatica ad entusiasmarmi e a dare continuità a questa mia passione.

Dobbiamo sottolineare che il cinema era già in piena crisi quando ci fu l’avvento della televisione multicanale (via cavo o satellitare) e dei servizi di streaming, che hanno segnato una svolta decisa nel panorama cinematografico. Poi, la pandemia con tutti i suoi effetti – effetti che, più che sulla salute, hanno avuto un’influenza importante sui nostri comportamenti quotidiani, sempre consistentemente condizionati da una cronica pigrizia – ne hanno decretato una lenta e inesorabile agonia. Cinematograficamente parlando – lo ammetto – non sono rimasto immune da questa sorta di involuzione.

Ebbene, fatta questa doverosa premessa, vorrei segnalarvi che, tra i film candidati (non vincitori) alla 96ª edizione dell’Academy Award (Oscar 2024), tenutasi a Los Angeles lo scorso 10 marzo, ne è stato presentato uno che mi è piaciuto particolarmente, e di cui vi vorrei brevemente parlare. Si tratta di «Past Lives» che vede il debutto alla regia di Celine Song, sceneggiatrice e drammaturga sudcoreana, poi naturalizzata canadese.

Nei miei discorsi e presentazioni, faccio largo uso di riferimenti, citazioni e immagini cinematografiche, e non è la prima volta che scrivo una recensione su di un film. In altre occasioni, (ad esempio: «Ken Loach cita Maslow mentre cerca una PA fondata sull’umanità») sfruttavo le pellicole per poi parlare di temi strettamente legati alla mia attività lavorativa, oggi, invece, voglio concentrarmi solo su «Past Lives» e sull’impatto emotivo che ha avuto su di me. Be’, siate felici: una volta tanto non vi annoierò con la solita «questione digitale».

Il film narra le vicissitudini di due protagonisti (Nora Moon e Hae Sung) che, fin da adolescenti, sono legati da un forte legame sentimentale. Il lungometraggio racconta le loro vite che si svolgono parallelamente: i due incroceranno i loro destini solo fugacemente in tre archi temporali, per un totale di ventiquattro anni, ma il loro sentimento sarà destinato a rimanere vivo per sempre.

Tutto nasce in Corea ai tempi delle scuole medie, quando i genitori di Na Young (poi Nora Moon) devono trasferirsi da Seoul a New York. Da questa dolorosa separazione trascorrono dodici anni quando i due protagonisti riescono a ritrovarsi e a parlarsi via Skype. Dopo questo struggente approccio on-line, Nora preferisce dare un taglio a questa relazione a distanza e dedicarsi alla propria carriera di scrittrice. Passeranno altri dodici anni prima che Hae Sung vada a New York per ritrovare il suo primo amore, Nora Moon, che nel frattempo si è sposata con un americano (Arthur)... Da sempre sostengo che le call non hanno lo stesso spessore qualitativo delle riunioni in presenza!

 

I film e le serie TV di origine coreana sono molto in voga in questi ultimi anni ma, sebbene la Corea e la cultura coreana donino delle sfumature molto caratteristiche a questa pellicola, la mia sensazione è che si tratti di un film molto contaminato dalla cultura dell’occidente – sia statunitense che europea, in particolare francese e italiana. Tra l’altro, il fatto che la regista (Celine Song) sia naturalizzata canadese e risieda a New York non fa, secondo me, che avvalorare questa mia tesi.

 

Anzitutto, si tratta di un gran bel film, di un lavoro pregevole. E già questa, a mio modo di vedere, oggi come oggi è una notizia. Ottima regia, ottima interpretazione, scene mai banali, anzi in grado di creare una tensione e un coinvolgimento non usuali nello spettatore.

 

Il film è intenso come tutte le storie d’amore struggenti e non vissute, anzi, in qualche modo vissute e non consumate, come per esempio accade nei due miei seguenti cult: «Lost in Translation» di Sofia Coppola e «Un cuore in inverno» di Claude Sautet.

Gli amori non consumati, soprattutto quelli che hanno un’origine adolescenziale, talvolta irrazionalmente idealizzati, se ben gestiti, sono a mio avviso fondamentali per un sano avvicinamento verso l’età adulta (almeno, per me lo sono stati).

Nella pellicola è centrale la romantica filosofia coreana («inyeon») su come le relazioni tra esseri umani si formino e si intensifichino nel corso di molte vite. Come spiega la protagonista al marito, si aggiunge un ulteriore strato di inyeon anche quando due sconosciuti si incrociano per strada e i loro vestiti si sfiorano accidentalmente, perché significa che qualcosa c’è già stato tra loro nelle vite passate. Se due persone si sposano, allora significa che tra loro ci sono stati ottomila strati di inyeon nel corso di ottomila differenti vite. Nora è convinta – forse per gioco, ma l’aspetto etico non è mai un gioco e non mai casuale – che l’inyeon non sia solo una prerogativa coreana e dei coreani: anche da questo punto di vista è aperta a qualsiasi tipo di contaminazione culturale.

In realtà, ciò che in assoluto mi ha maggiormente affascinato delle dinamiche relazionali presenti nella pellicola – in un periodo in cui la mancanza di rispetto per gli altri e soprattutto per i più deboli appare prassi; in cui il contatore dei femminicidi, spesso determinato da un delirante senso del possesso, fa pensare ad un nuovo medio evo – è il grande rispetto per i sentimenti e per la libertà individuale tra i protagonisti del film. Ritengo si tratti di una lezione straordinaria e da non sottovalutare. Inoltre, credo debba essere sottolineato il fatto che ciò non viene mai esplicitato formalmente, cioè, è dato – giustamente – per scontato (in informatica, la definiremmo un’impostazione «by default»).

In ultima analisi, vorrei evidenziare che mi è sempre piaciuto essere dalla parte degli sconfitti: ad esempio, da bambino parteggiavo sempre per i pellerossa. «Past Lives» non ha vinto alcun premio Oscar; il protagonista maschile non ha coronato il suo sogno d’amore; la protagonista femminile appare lacerata da una ferita non rimarginabile; Arthur – attore «non protagonista» per eccellenza, difatti manco candidato al premio Oscar – non potrà fare a meno di sentirsi tutta la vita come un «terzo». Tutti e tre però vivono una vita, complicata e struggente, ma piena di forti sentimenti e coinvolgimenti che non me li fa vedere come sconfitti ma come protagonisti di una vita (e di un film) che vale la pena di essere vissuta.