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La giovinezza del digitale e l’elogio dell’umiltà

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La giovinezza del digitale e l’elogio dell’umiltà

 

Partendo dall’assunto che oggi come oggi la civiltà di un Paese si misura anche dal livello di una “sana” trasformazione digitale raggiunta, e dalla consapevolezza che il primo ostacolo (ovviamente non l’unico) in questo percorso è di ordine culturale, alcuni anni fa ho cominciato ad approfondire e sviluppare il tema delle tre caratteristiche fondamentali del digitale – pervasività, dinamicità e giovinezza – raggiungendo il punto più alto, o, più realisticamente, il più basso in una fiction, ispirata alle opere di Zerocalcare, trasmessa in anteprima al forum PA del 2022 e con alcune repliche qua e là, sul cui incredibile successo (in attesa delle candidature al David di Donatello) non voglio soffermarmi per non inficiare, tenuto conto del titolo, la credibilità del presente articolo.

Sono convinto che la metabolizzazione delle tre caratteristiche possa sensibilmente contribuire ad aumentare la consapevolezza digitale che da sempre è per me ciò che consente di massimizzare le opportunità e minimizzare i rischi della profonda trasformazione in atto.

In questo ambito mi soffermerò solo sulla terza di queste caratteristiche (per quanto siano in realtà tutte e tre strettamente collegate) che certamente è la meno nota, anzi, diciamola tutta, sono stato il primo e, per quanto ne sappia, l’unico a parlarne per cui è di fatto una mia invenzione e come tale, a differenza delle altre due, non riconosciuta dalla comunità scientifica e credo ahimè da nessun’altra.

Il digitale, oltre ad essere il fenomeno più pervasivo di tutti i tempi, è estremamente giovane, a differenza della maggior parte delle altre scienze umane che affondano le radici nell’antichità e nella rivoluzione industriale. Fino a pochi decenni fa sostanzialmente non ne parlava nessuno, anzi per alcuni anni il temine utilizzato è stato “informatica”, oramai sostituito, spesso anche a sproposito, dalla locuzione “digitale”. 

A causa della sua dinamicità e rapida crescita ha stravolto le nostre vite nel giro di pochissimi anni, anche in questo caso, a differenza di tutte le altre scienze umane che si sono trasformate in tempi enormemente più lunghi (tranne quando hanno cominciato ad avere a che fare proprio con la pervasività dello stesso digitale).

Con queste premesse è naturale che la società non abbia avuto il tempo di sviluppare una piena consapevolezza su questo argomento e sugli impatti delle tecnologie digitali. È pertanto, a mio parere, una esigenza avvicinarsi a tutto ciò anche con un approccio filosofico e sociologico.

Il rischio più grande in questo ambito di diffusa inconsapevolezza è quello di ritenersi – a causa dell’utilizzo quotidiano delle tecnologie - degli esperti della materia. Un po’ come accade per la nazionale di calcio o più recentemente per la pandemia. Essere esperti di digitale è a mio avviso un concetto che andrebbe messo in cantina o, quantomeno, ridimensionato, visto che parliamo di centinaia di professioni diverse in questo campo specifico e di migliaia di professioni ibride.

Con gli anni ho maturato la convinzione che in questo settore, probabilmente più che in altri, nulla produce un maggior numero di danni della mancanza di umiltà. È quindi in particolare l’approccio socratico (“la vera saggezza sta in colui che sa di non sapere”) ciò che dovrebbe diventare, a mio modesto e, visto che ci siamo, umile parere, il mantra filosofico della trasformazione digitale.

In questo contesto mi permetto una rapida digressione e una provocatoria estensione.

Qualche tempo fa ho letto, su questa stessa testata, un interessante articolo (decisamente più fico di quello che state leggendo!) della dottoressa Barbara Neri, i cui straordinari pezzi, a proposito di umiltà, dovrebbero avere una diffusione decisamente maggiore, sull’effetto Dunning Kruger che mi ha finalmente sistematizzato e riordinato una serie di percezioni che nella mia mente erano ancora confuse.

L'effetto Dunning-Kruger è una distorsione cognitiva, a causa della quale individui poco esperti e poco competenti in un campo tendono a sopravvalutare le proprie abilità autovalutandosi, a torto, esperti in materia. Come corollario di questa teoria, spesso gli incompetenti si dimostrano estremamente supponenti.

Per quanto affermato precedentemente, nel settore digitale l'effetto Dunning-Kruger trova, ahimè, una delle sue massime o, più precisamente, peggiori espressioni.

La mia esperienza personale, oramai piuttosto lunga, con la politica (sottolineo “con la politica” e non “nella politica”), mi fa pensare che esista, tra l’altro, un fortissimo legame tra la detenzione di potere e questo effetto. È come se il potere ottenuto (spesso ahimè casualmente e non sulla base della competenza) garantisca di per sé, inconsapevolmente, proprio una specifica competenza. Il terrore di contraddire, di chi sta intorno a chi detiene il potere, fa il resto. Spesso l’entourage dei leader politici fa più danni dei politici stessi avallando e portando ad execution decisioni scellerate pur essendo in totale disaccordo e senza neppure tentare di esprimere la propria contraria opinione.

L’esigenza di un approccio filosofico e sociologico derivante dalla giovinezza del digitale è, a mio avviso, strettamente legata al mismatch culturale di cui accennato all’inizio e al concetto di umiltà. Pensare di poter metabolizzare e gestire completamente un fenomeno recentissimo, caratterizzato da una travolgente dinamicità e una illimitata pervasività, è impresa insensata per antieroi inconsapevoli e pericolosi.

Sempre a proposito di umiltà e di digitale alla fine del 2019, in concomitanza con la conclusione del mio incarico di Commissario straordinario all’attuazione della agenda digitale, pubblicai questo articolo che oltre a fare un bilancio di quella esperienza ed esplicitare alcune mie convinzioni e frustrazioni cercava esplicitamente di contrapporsi al vizio della politica, o più che altro dei politici di fare continuamente bilanci incentrati su una autoesaltazione che personalmente non trovo solo imbarazzante ma a tratti decisamente fastidiosa in un Paese in cui fatico veramente tanto a trovare nell’ultimo ventennio operazioni politiche o politici che la collettività abbia vissuto con entusiasmo e magari con un successivo convinto rimpianto. Detto questo è pur vero che uno che si autocita senza vergogna su un pezzo intitolato l’elogio dell’umiltà, non deve avere tutte le rotelle a posto.

Ma la distanza tra i politici e l’umiltà purtroppo non esiste solo nella consuntivazione dei risultati ma è presente, forse ancora più drammaticamente, nella fase preventiva, raggiungendo l’apice (anche se “il baratro” rende di più) nel momento della campagna elettorale. Oramai il vizio di sparare stronzate (scusate la volgarità ma proprio non mi viene un termine più efficacie) sempre più grosse e inverosimili in campagna elettorale, non avendo mai al centro l’interesse collettivo ma solo quello di lobby o addirittura di singoli con l’obiettivo evidente e quasi maniacale di accaparrarsi, con qualsiasi mezzo possibile, i voti a disposizione, caratterizza tutte le forze politiche senza alcuna distinzione. Per quanto non sia certo un caso che il numero dei votanti sia in costante diminuzione è innegabile però – e questo è l’aspetto più drammatico – che il metodo, almeno in parte, funzioni, altrimenti ad un certo punto ci sarebbe stata una inversione di tendenza. La politica d’altronde è solo lo specchio di una società sempre più tremendamente individualista.

Forse apparirò stucchevole se mi ritrovo dopo diversi anni a dover citare per l’ennesima volta Diego Piacentini come esempio da seguire, ma non posso, non riesco e non voglio proprio farne a meno. È lui che con una cifra che oggi, ai tempi del PNRR, possiamo considerare irrisoria e una quarantina di persone è riuscito a far fare un improvviso e complessivo salto di qualità alla trasformazione digitale della PA in termini manageriali, tecnici, culturali e operativi. È ovvio che ciò sia stato ottenuto per le sue indiscutibili e rare capacità manageriali e organizzative ma, a mio modo di vedere la differenza più grande l’hanno fatta proprio la sua umiltà che si esprimeva in varie forme tra cui il grande impegno, lo studio, il mettersi in discussione, il poter cambiare idea, il circondarsi dei migliori in ogni settore, l’ascolto, il rispetto  e i valori etici e morali tra cui l’inesistenza di un interesse personale, il non dover mai rendere conto a qualcuno di parte del proprio operato ma solo alla collettività. Mi auguro fortemente che la sua lezione di umiltà prima o poi entri nella storia della PA e diventi oggetto di letteratura manageriale.