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Art. 10 - Impugnazioni

1. Il procuratore della Repubblica, il procuratore generale presso la corte di appello e l’interessato e il suo difensore hanno facoltà di proporre ricorso alla corte d’appello, anche per il merito. (1)

1–bis. Il procuratore della Repubblica, senza ritardo, trasmette il proprio fascicolo al procuratore generale presso la corte di appello competente per il giudizio di secondo grado. Al termine del procedimento di primo grado, il procuratore della Repubblica forma un fascicolo nel quale vengono raccolti tutti gli elementi investigativi e probatori eventualmente sopravvenuti dopo la decisione del tribunale. Gli atti inseriti nel predetto fascicolo sono portati immediatamente a conoscenza delle parti, mediante deposito nella segreteria del procuratore generale. (2)

2. Il ricorso non ha effetto sospensivo e deve essere proposto entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento. La corte d’appello provvede, con decreto motivato, entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso. L’udienza si svolge senza la presenza del pubblico. Il presidente dispone che il procedimento si svolga in pubblica udienza quando l’interessato ne faccia richiesta.

2–bis. La corte di appello annulla il decreto di primo grado qualora riconosca che il tribunale era incompetente territorialmente e l’incompetenza sia stata riproposta nei motivi di impugnazione e ordina la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica competente; la declaratoria di incompetenza non produce l’inefficacia degli elementi già acquisiti. Si applica l’articolo 7, comma 10–quater, primo periodo. (3)

2–ter. Le disposizioni del comma 2–bis si applicano anche qualora la proposta sia stata avanzata da soggetti non legittimati ai sensi dell’articolo 5 e l’eccezione sia stata riproposta nei motivi di impugnazione. (3)

2–quater. In caso di conferma del decreto impugnato, la corte di appello pone a carico della parte privata che ha proposto l’impugnazione il pagamento delle spese processuali. (6)

3. Avverso il decreto della corte d’appello, è ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge, da parte del pubblico ministero e dell’interessato e del suo difensore, entro dieci giorni. La Corte di cassazione provvede, in camera di consiglio, entro trenta giorni dal ricorso. Il ricorso non ha effetto sospensivo. (4)

3–bis. In caso di ricorso per cassazione si applicano le disposizioni dei commi 2–bis e 2–ter, ove ricorrano le ipotesi ivi previste. (5)

4. Salvo quando è stabilito nel presente decreto, per la proposizione e la decisione dei ricorsi, si osservano in quanto applicabili, le norme del codice di procedura penale riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all’applicazione delle misure di sicurezza.

(1) Comma così modificato dall’ art. 3, comma 1, lett. a), L. 161/2017.

 (2) Comma inserito dall’ art. 3, comma 1, lett. b), L. 161/2017.

(3) Comma inserito dall’ art. 3, comma 1, lett. c), L. 161/2017.

(4) Comma così modificato dall’ art. 3, comma 1, lett. d), L. 161/2017.

(5) Comma inserito dall’ art. 3, comma 1, lett. e), L. 161/2017.

(6) Comma inserito dall’ art. 24, comma 1, lett. a), DL 113/2018, convertito, con modificazioni, dalla L. 132/2018.

Rassegna di giurisprudenza

Pubblicità dell’udienza

È noto che la Corte costituzionale, con sentenza 93/2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 L. 1423/1956 nella parte in cui non consentiva che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolgesse, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica.

In merito alla mancata celebrazione dell’udienza in forma pubblica anziché camerale, su specifica richiesta del proposto, emergono nell’ambito della giurisprudenza di legittimità due diversi orientamenti: il primo esclude che tale omessa assunzione della forma pubblica dell’udienza possa integrare una qualche nullità, in quanto non espressamente prevista dall’art. 7; è significativo, anzi, che la trattazione del procedimento in pubblica udienza è contemplata dal comma 1, secondo periodo, dell’art. 7 cit., e che, però, questo articolo, al comma 7, commina espressamente la sanzione della nullità per la violazione di disposizioni contenute in altri commi, elencandole analiticamente, ma omette ogni riferimento al comma 1; il secondo orientamento afferma che tale omissione integra una nullità relativa che viene sanata nell’ipotesi in cui le parti interessate non l’abbiano eccepita.

Si afferma da tempo in sede di legittimità che, allorché il giudizio si svolga nelle forme del rito camerale fuori dei casi previsti dalla legge, si verifica, al più, una nullità relativa che, a pena di decadenza, deve essere eccepita dalle parti presenti prima che venga compiuto il primo atto del procedimento o, se non è possibile, subito. Tale principio, affermato in relazione al giudizio ordinario che si svolga – contrariamente alla previsione normativa – col rito camerale, vale a maggior ragione nel procedimento di prevenzione, dove la forma pubblica è condizionata ad una richiesta di parte.

Inoltre, è stato osservato che anche secondo la giurisprudenza elaborata dalla Corte EDU in tema di pubblicità dell’udienza, può essere possibile una “compensazione” della mancanza di pubblicità del giudizio di primo grado, quando vi è lo svolgimento pubblico di un giudizio di impugnazione a cognizione non limitata, quale appunto quello di appello, che, atteso il richiamo operato dall’art. 10 alle disposizioni del codice di rito, consente un pieno riesame del merito della regiudicanda (Corte costituzionale, 80/2011, § 6.3) (Sez. 2, 27263/2019).

La mancata indicazione nell’intestazione dei moduli prestampati dei verbali della natura pubblica dell’udienza non è determinante, dovendosi verificare unicamente le concrete modalità attraverso le quali è stata celebrata (Sez. 2, 27263/2019).

Costituisce giurisprudenza pacifica che il principio di pubblicità dell’udienza, stabilito dalla Corte costituzionale con sentenza n. 93/2010 (ribadito dalla sentenza 80/2011) e dalla Corte EDU (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza c. Italia), qualora il soggetto interessato ne abbia fatto richiesta, sia stato affermato con riferimento esclusivo alla fase di merito della procedura di prevenzione e non già al giudizio di legittimità (Sez. 6, 50437/2017).

Anche più recentemente si è condivisibilmente ribadito che il procedimento per la trattazione in sede di legittimità dei ricorsi in materia di misure di prevenzione, che prevede la celebrazione dell’udienza in camera di consiglio non partecipata, è pienamente compatibile con gli artt. 24 e 76 Cost., perché garantisce il contraddittorio nel rispetto della parità delle parti. Tale affermazione non trova ostacolo nella sentenza del 13 novembre 2007 della Corte EDU Bocellari e Rizza c. Italia, in quanto tale pronuncia, nell’affermare la necessità che al soggetto interessato possa quanto meno essere offerta la possibilità di richiedere una trattazione in pubblica udienza, non si riferisce al giudizio innanzi alla Corte di cassazione (Sez. 5, 18303/2019).

 

Incompetenza per territorio

Le impugnazioni avverso i provvedimenti in tema di misure di prevenzione personali sono disciplinate dall’art. 10; tale disposizione rimanda, salvo quanto stabilito nelle leggi che disciplinano le medesime misure, alle norme del codice di procedura penale riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all’applicazione delle misure di sicurezza, in quanto applicabili, e, quindi, all’art. 680, comma 3, CPP, che, a sua volta, in tema di appello contro i provvedimenti relativi alle misure di sicurezza, richiama l’osservanza delle disposizioni generali sulle impugnazioni, precisando che l’appello non ha effetto sospensivo, salvo che il tribunale disponga altrimenti.

In caso di incompetenza trova, dunque, applicazione l’art. 24 CPP, a termini del quale il giudice di appello emette pronuncia di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al giudice di primo grado competente quando riconosce che il giudice di primo grado era incompetente per materia ovvero per territorio o per connessione, purché, in tali ultime ipotesi, l’incompetenza sia stata eccepita tempestivamente e riproposta nei motivi di appello.

Ma il giudice dell’appello contro il provvedimento che dispone una misura di prevenzione, il quale si riconosca incompetente, può annullare il decreto impugnato e ordinare la trasmissione degli atti al giudice di primo grado competente, a norma dell’art. 24 CPP, solamente qualora l’organo proponente sia invece competente; nel procedimento di prevenzione, diversamente da quanto accade nel procedimento penale di cognizione, la questione relativa all’incompetenza territoriale del giudice, è infatti correlata al genus dell’incompetenza funzionale dell’organo proponente, ed è essa stessa di natura funzionale e inderogabile.

Nell’insegnamento di legittimità, la proposta di applicazione di una misura di prevenzione da parte di organo territorialmente incompetente, sia esso il Questore o il procuratore della Repubblica, comporta infatti l’inammissibilità della proposta, senza possibilità di disporre la trasmissione degli atti al tribunale ritenuto competente; quanto al procuratore della Repubblica, in particolare, si tratta di competenza funzionale inderogabile sicché il tribunale, se fosse competente con riguardo al luogo ove dimora il proposto, non potrebbe che dichiarare l’inammissibilità della proposta formulata da organo non legittimato mentre, se fosse incompetente, non potrebbe trasmettere gli atti al tribunale ritenuto competente, il quale non potrebbe decidere su una proposta formulata da procuratore della Repubblica incompetente, atteso che nel sistema della prevenzione l’attribuzione della legittimazione a formulare la proposta è riconosciuta in via esclusiva, con conseguente competenza non solo territoriale ma anche funzionale (Sez. U, 5/1991, ove si insegna che la competenza funzionale a promuovere il procedimento di prevenzione ai sensi dell’art. 2 L. 575/1965, dovendo essere determinata alla stregua dei principi generali del processo penale, spetta esclusivamente al procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo di provincia in cui dimora il proposto – secondo la normativa dell’epoca – perché deve esistere sempre piena corrispondenza tra il tribunale decidente e la procura requirente; tale competenza, essendo funzionale, è inderogabile e non può formare oggetto di potere di sostituzione o di delegazione; quindi, l’eventuale incompetenza dell’organo esclude ogni possibilità di ratifica, convalida, conferma o conversione; l’incompetenza del PM requirente realizza un’ipotesi di nullità assoluta e rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, riconducibile nella previsione dell’art. 178, comma 1, lett. b), CPP) (Sez. 4, 27039/2015).

 

Inesistenza dell’effetto sospensivo dell’impugnazione

L’art. 10 stabilisce che, nei confronti dei provvedimenti adottati dal tribunale, il PG presso la Corte di appello e l’interessato possono proporre ricorso in appello (comma 1) aggiungendo, tuttavia, che il ricorso non ha effetto sospensivo (comma 2); analogamente è previsto per il ricorso per cassazione, esperibile contro il decreto della Corte di appello, cui non è ricondotto alcun effetto sospensivo del provvedimento impugnato (comma 3).

Ne consegue che, sin quando la questione dell’incompetenza non venga decisa, il giudice che procede non può ritenersi in alcun modo privato del potere di portare avanti la procedura e di adottare tutti i provvedimenti dovuti tra cui le proroghe del termine di cui all’art. 24, comma 2 (Sez. 2, 11855/2018).

 

Distinzione tra capi e punti della decisione ai fini dell’impugnazione

Secondo l’insegnamento delle Sezioni unite, i “capi” della sentenza, ossia ciascuna decisione emessa relativamente ad uno dei reati attribuiti all’imputato, vanno tenuti distinti dai “punti”, ossia da «tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione necessarie per ottenere una decisione completa su un capo», fermo restando che «non costituiscono punti del provvedimento impugnato le argomentazioni svolte a sostegno di ciascuna statuizione»: pertanto, «ad ogni capo corrisponde una pluralità di punti della decisione, ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione, sulla quale il potere giurisdizionale del giudice non può considerarsi esaurito se non quando siano stati decisi tutti i punti, che costituiscono i presupposti della pronuncia finale su ogni reato, quali l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’imputato, la qualificazione giuridica, l’inesistenza di cause di giustificazione, la colpevolezza, e – nel caso di condanna – l’accertamento delle circostanze aggravanti ed attenuanti e la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale di essa, e le altre eventuali questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio» (SU, 1/2000; conforme SU, 10251/2007).

Facendo applicazione di tale insegnamento sul terreno (non già dell’accertamento della responsabilità per il reato, ma) della decisione sulla misura di prevenzione, l’attualità della pericolosità sociale rappresenta uno dei punti della decisione del giudice della prevenzione, ossia una delle statuizioni suscettibili di autonoma considerazione e necessarie per ottenere una decisione completa sulla richiesta di applicazione della misura di prevenzione personale. Integrando dunque uno dei punti della decisione, l’attualità della pericolosità del proposto doveva formare oggetto dei motivi proposti con il gravame, posto che, a norma dell’art. 597, comma 1, CPP, l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione devoluti con l’impugnazione.

Né in senso contrario può argomentarsi sulla base dell’orientamento di legittimità che, muovendo dal rilievo secondo cui il convincimento del giudice del gravame ben può fondarsi su elementi non esaminati in primo grado, dei quali può sempre disporre l’acquisizione, ai sensi dell’art. 666, comma 5, CPP, esclude che sia precluso al giudice di appello l’esame di ufficio di elementi, sopravvenuti alla decisione di primo grado, conferenti nel senso di un’attenuazione della pericolosità del proposto ovvero di un suo aggravamento (Sez. 1, 19995/2013).

Al riguardo, infatti, deve rilevarsi che il richiamo all’art. 666 CPP è operato dall’art. 7 con esclusivo riferimento al giudizio di primo grado, mentre per i giudizi di impugnazione l’art. 10, comma 4 stabilisce che – salvo quanto previsto dallo stesso decreto – si osservino, in quanto applicabili, le norme codicistiche riguardanti la proposizione e la decisione dei ricorsi relativi all’applicazione delle misure di sicurezza: viene, dunque, in rilievo, l’art. 680 CPP, il cui comma 3 rinvia, di regola, alle disposizioni generali sulle impugnazioni (Sez. 1, 8644/2009), tra le quali, appunto, l’art. 597, comma 1, CPP che limita la cognizione del giudice di secondo grado ai punti devoluti con il gravame (Sez. 5, 8763/2018).

 

Rilevanza del tempo trascorso dal provvedimento impugnato

Nel procedimento di prevenzione di appello, con riferimento alle misure personali di prevenzione, la valutazione di attualità della pericolosità sociale del proposto deve essere riferita a quello di primo grado, ma la motivazione deve tenere conto dell’eventuale anomala distanza temporale tra i due gradi di giudizio e della datazione risalente dei fatti posti a fondamento dello stesso giudizio di pericolosità (Sez. 5, 28343/2019).

 

Ricorso per cassazione

Il ricorso per cassazione avverso qualsiasi tipo di provvedimento non può essere personalmente proposto dalla parte, ma deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da difensori iscritti nell’albo speciale della Corte di cassazione (SU, 8914/2018).

Ai sensi degli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, avverso il decreto della Corte d’appello il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge, e, in tema di sindacato sulla motivazione, è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manifesta, potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato, il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (SU, 33451/2014).

Non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino in ogni caso assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (SU, 33451/2014).

È consentito il ricorso in cassazione in tema di misure di prevenzione (dall’art. 10 per le misure personali e dall’art. 27 per le misure patrimoniali) solo per violazione di legge e può pertanto vertere sulla motivazione solo quanto questa sia inesistente o meramente apparente (e non quando la si pretenda affetta da altri vizi motivazionali) (Sez. 5, 45456/2019).

Il ricorso per cassazione, in tema di decisioni emesse in sede di prevenzione, non ricomprende – in modo specifico – il vizio di motivazione (nel senso dell’illogicità manifesta e della contraddittorietà) ma la sola violazione di legge (art. 4, comma 11, L. 1423/1956, art. 10, comma 3).

Sicché resta sindacabile soltanto la mancanza del percorso giustificativo della decisione, nel senso di redazione di un provvedimento del tutto privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e logicità (motivazione apparente) o di un testo del tutto inidoneo a far comprendere l’iter logico seguito (Sez. 5, 42761/2019).

Pur non essendo deducibile il vizio di motivazione inteso come manifesta illogicità, l’impianto argomentativo del provvedimento di prevenzione risulta censurabile in Cassazione quando risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicità, ovvero quando si ponga come assolutamente inidoneo a rendere comprensibile il filo logico seguito dal giudice di merito; oppure, ancora, allorché le linee argomentative del provvedimento siano talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da far risultare oscure le ragioni che hanno giustificato la decisione della misura. Il vizio di apparenza è, insomma, ravvisabile ove il giudice si avvalga di asserzioni del tutto generiche e di carattere apodittico o di proposizioni prive di effettiva valenza dimostrativa, determinando così il venir meno di qualunque supporto argomentativo a sostegno del decisum.

In tema di sindacato della motivazione, il controllo del provvedimento consiste sostanzialmente nella verifica della rispondenza degli elementi esaminati ai parametri legali imposti per l’applicazione delle singole misure di prevenzione.

Da ultimo – in un caso avente ad oggetto l’applicazione della misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza e della misura patrimoniale della confisca di numerosi beni – si è giunti ad affermare che è viziato, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), CPP, il decreto che omette del tutto di confrontarsi con un elemento potenzialmente decisivo prospettato da una parte quando questo, singolarmente considerato, sarebbe tale da determinare un esito opposto del giudizio; dunque, se il giudice ha l’obbligo di motivare il decreto in materia di misure di prevenzione a pena di nullità (artt. 7, comma 1, e 10, comma 2, in combinato disposto con l’art. 125, comma 3, CPP), non solo tale obbligo deve estendersi a tutti i punti oggetto della decisione, ma la delimitazione del contenuto del dovere argomentativo non può essere rimessa alla insindacabile valutazione del decidente (Sez. 5, 43405/2019).

Nel procedimento di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge. Ne consegue che, ora come in precedenza, in sede di legittimità non è deducibile il vizio di motivazione, a meno che questa non sia del tutto carente o presenti difetti tali da renderla meramente apparente ed in realtà inesistente, traducendosi perciò in violazione di legge per mancata osservanza, da parte del giudice, dell’obbligo di provvedere con decreto motivato.

Tale assetto è già passato indenne al vaglio della Corte costituzionale: il Giudice delle Leggi (Corte costituzionale, sentenza 321/2004), premesso che l’art. 4, comma 11, L. 1423/1956, limitando alla sola violazione di legge il ricorso contro il decreto della Corte d’appello che abbia applicato la misura di sicurezza della sorveglianza speciale, esclude – secondo un consolidato orientamento del giudice di legittimità – la sua ricorribilità in cassazione per vizio di manifesta illogicità della motivazione, ai sensi dell’art. 606 CPP, comma 1, lett. e), ha osservato che tale presupposto interpretativo non si traduce tuttavia nella violazione dei parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost., “posto che le forme di esercizio del diritto di difesa possono essere diversamente modulate in relazione alle caratteristiche di ciascun procedimento, allorché di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione, con la conseguenza che i vizi della motivazione possono essere variamente considerati a seconda del tipo di decisione a cui ineriscono, non potendosi, al contrario, ritenere che il risultato perseguito dal rimettente costituisca una soluzione costituzionalmente obbligata”.

È stata, pertanto, ritenuta l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale della L. 1423/1956, art. 4, comma 11, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. (Sez. 2, 27933/2019).

Il giudice di legittimità, ai fini della valutazione della congruità della motivazione del provvedimento impugnato, deve fare riferimento alle sentenze di primo e secondo grado, le quali si integrano a vicenda confluendo in un risultato organico ed inscindibile (Sez. 5, 14022/2016).