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Art. 4 - Soggetti destinatari

1. I provvedimenti previsti dal presente capo si applicano:

a) agli indiziati di appartenere alle associazioni di cui all’articolo 416–bis c.p.;

b) ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3–bis, del codice di procedura penale ovvero del delitto di cui all’articolo 12–quinquies, comma 1, del decreto–legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, o del delitto di cui all’articolo 418 del codice penale; (3)

c) ai soggetti di cui all’articolo 1; (6)

d) agli indiziati di uno dei reati previsti dall’articolo 51, comma 3–quater, del codice di procedura penale e a coloro che, operanti in gruppi o isolatamente, pongano in essere atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti a sovvertire l’ordinamento dello Stato, con la commissione di uno dei reati previsti dal capo I del titolo VI del libro II del codice penale o dagli articoli 284, 285, 286, 306, 438, 439, 605 e 630 dello stesso codice, nonché alla commissione dei reati con finalità di terrorismo anche internazionale ovvero a prendere parte ad un conflitto in territorio estero a sostegno di un’organizzazione che persegue le finalità terroristiche di cui all’articolo 270–sexies del codice penale; (2)

e) a coloro che abbiano fatto parte di associazioni politiche disciolte ai sensi della legge 20 giugno 1952, n. 645, e nei confronti dei quali debba ritenersi, per il comportamento successivo, che continuino a svolgere una attività analoga a quella precedente;

f) a coloro che compiano atti preparatori, obiettivamente rilevanti, ovvero esecutivi diretti alla ricostituzione del partito fascista ai sensi dell’articolo 1 della legge n. 645 del 1952, in particolare con l’esaltazione o la pratica della violenza; (4)

g) fuori dei casi indicati nelle lettere d), e) ed f), siano stati condannati per uno dei delitti previsti nella legge 2 ottobre 1967, n. 895, e negli articoli 8 e seguenti della legge 14 ottobre 1974, n. 497, e successive modificazioni, quando debba ritenersi, per il loro comportamento successivo, che siano proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine indicato alla lettera d);

h) agli istigatori, ai mandanti e ai finanziatori dei reati indicati nelle lettere precedenti. È finanziatore colui il quale fornisce somme di denaro o altri beni, conoscendo lo scopo cui sono destinati;

i) alle persone indiziate di avere agevolato gruppi o persone che hanno preso parte attiva, in più occasioni, alle manifestazioni di violenza di cui all’articolo 6 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, nonché alle persone che, per il loro comportamento, debba ritenersi, anche sulla base della partecipazione in più occasioni alle medesime manifestazioni, ovvero della reiterata applicazione nei loro confronti del divieto previsto dallo stesso articolo, che sono dediti alla commissione di reati che mettono in pericolo l’ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l’incolumità delle persone in occasione o a causa dello svolgimento di manifestazioni sportive; (1)

i–bis) ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 640–bis o del delitto di cui all’articolo 416 del codice penale, finalizzato alla commissione di taluno dei delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 316, 316–bis, 316–ter, 317, 318, 319, 319–ter, 319–quater, 320, 321, 322 e 322–bis del medesimo codice; (5)

i–ter) ai soggetti indiziati del delitto di cui all’articolo 612–bis del codice penale (5).

(1) Comma così modificato dall’art. 4, comma 2, DL 119/2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 146/2014.

(2) Lettera modificata dall’ art. 4, comma 1, lett. a), DL 7/2015, convertito, con modificazioni, dalla L. 43/2015. Successivamente, la presente lettera è stata così sostituita dall’art. 1, comma 1, lett. b), L. 161/2017.

(3) Lettera così modificata dall’ art. 1, comma 1, lett. a), L. 161/2017.

(4) Lettera così modificata dall’ art. 1, comma 1, lett. c), L. 161/2017.

(5) Lettera aggiunta dall’ art. 1, comma 1, lett. d), L. 161/2017.

(6) La Corte costituzionale, con sentenza 24/2019 ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale della presente lettera, nella parte in cui stabilisce che i provvedimenti previsti dal capo II si applichino anche ai soggetti indicati nell’art. 1, lettera a).

Rassegna di giurisprudenza

In generale

È necessario, in conformità anche ad indirizzo espresso, sul punto, da pronunce più risalenti (Sez. 1, 23641/2014) verificare, in primo luogo l’apprezzamento, da parte dei giudici della prevenzione, di fatti idonei ad iscrivere i soggetti proposti in una delle categorie criminologiche tipizzate e, in secondo luogo, esaminare la valutazione operata, dal punto di vista prognostico, circa le probabili future condotte offensive degli interessi tutelati.

Secondo numerosi arresti, anche precedenti all’intervento della Grande Camera della Corte EDU del 23 febbraio 2017, l’iscrizione del soggetto in determinate categorie criminologiche è, infatti, condizione necessaria (ma non sufficiente) ad applicare la misura di prevenzione personale, posto che dette categorie tipizzate rappresentano indicatori della pericolosità del soggetto, in quanto indici rivelatori della possibilità, per il predetto, di compiere in futuro, condotte perturbatici dell’ordine sociale, economico o costituzionale.

La Corte EDU, poi, come è noto, si è pronunciata sulla norma in astratto (L. 1423/1956, rispetto alla quale quella del 2011 si pone in continuità normativa: Sez. 5, 49464/2013) escludendo, in punto di chiarezza e precisione, la tassatività e, quindi, la prevedibilità, di talune delle categorie criminologiche astratte. Si è, poi, di recente affermato (Sez. 1, 2188/2018) in conformità all’indirizzo di legittimità nella composizione più autorevole, in tema di pericolosità generica (SU, 40076/2017, adottata sulla rilevanza penale della violazione della prescrizione generica di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi”) che l’interprete è chiamato ad una lettura conforme alla CEDU e al tempo stesso (ed anzi in via prioritaria) alla Costituzione e in particolare a una lettura tassativizzante e tipizzante della fattispecie.

Tanto riportandosi anche ai precedenti interventi in materia della Corte costituzionale (Corte costituzionale, 93/2010) che avevano già evidenziato la componente ricostruttiva del giudizio di prevenzione, teso a valorizzare l’apprezzamento di fatti idonei ad iscrivere il soggetto proposto nelle categorie tipizzate, in quanto individuate secondo principi di tassatività e determinatezza della descrizione normativa dei comportamenti rilevanti.

Va, poi, richiamato, da ultimo l’indirizzo espresso dalla Consulta nelle pronunce 24/2019 e 25/ 2019, intervenute in tema di pericolosità generica, che hanno fissati importanti principi sul rapporto tra principio di legalità e disciplina legislativa in materia di misure di prevenzione personali e patrimoniali.

Si è, infatti, affrontato anche il tema del rapporto tra la natura e la funzione delle misure di prevenzione, l’ordinamento interno e il diritto sovranazionale, confrontandosi con la giurisprudenza europea e con i più recenti approdi, anche a sezioni unite, dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità.

Per il profilo che qui interessa, la pronuncia 24/2019, prendendo le mosse dal comune punto di partenza (cioè dal contenuto della citata decisione de Tommaso c. Italia), ha sottolineato come la misura di sicurezza personale, oltre che essere riferita a soggetti appartenenti alle categorie elencate dall’art. 4, debba passare attraverso la verifica processuale della pericolosità, intesa come elevata probabilità di commissione in futuro di ulteriori attività criminose, individuando proprio nella pericolosità sociale il punto di contatto tra le misure di prevenzione e quelle di sicurezza di cui al codice penale (Sez. 5, 42761/2019).

Nel giudizio di prevenzione, si distinguono due fasi. Una a struttura ricognitiva, finalizzata ad accertare l’inquadramento del proposto in una delle «categorie tipiche» di pericolosità di cui all’art. 1 e all’art. 4; l’altra successiva ed eventualmente protesa a formulare, in funzione dell’«attualità della pericolosità», un giudizio sul rischio concreto di commissione di condotte.

Quest’ultima valutazione è logicamente influenzata dai risultati della prima: la prognosi negativa deve necessariamente tener conto della specifica inclinazione delinquenziale che ha determinato l’iscrizione del soggetto in una categoria, anziché in altra. Il primo giudizio impone, del resto, una congrua ricostruzione di «fatti» idonei a determinare l’inquadramento (attuale o pregresso) del soggetto proposto in una delle forme di pericolosità tipica; il secondo, che si risolve in una proiezione valutativa a base prognostica sulla pericolosità sociale, ha ad oggetto il comportamento futuro del proposto e impone la valutazione della complessiva personalità del proposto, risultante da ogni manifestazione sociale della sua vita, sulla scorta di elementi obiettivamente identificabili e non rimessi all’arbitrario apprezzamento del giudicante.

Alla stregua della casistica giurisprudenziale, elementi rivelatori della pericolosità sono stati di volta in volta ritenuti l’associazione o la relazione del proposto con altri soggetti socialmente pericolosi come anche l’accertata predisposizione al delitto desumibile dalle condanne o dalle denunzie a suo carico, i comportamenti illeciti e antisociali che rendano necessaria una particolare vigilanza, da parte degli organi di pubblica sicurezza e sia pure, insieme ad altri fattori, i precedenti penali o la pendenza di procedimenti penali. Il giudizio sulla attuale pericolosità sociale è passaggio necessario anche ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione personali nei confronti degli «appartenenti ad associazioni di tipo mafioso».

È possibile, tuttavia, là dove ricorra la figura prevista dall’art. 4, comma 1 lett. a), valorizzare, a certe condizioni, anche la presunzione semplice, relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità.

Ciò implica la necessità di una puntuale motivazione sull’attualità della pericolosità sociale, motivazione che deve essere tanto più specifica, quanto più gli elementi rivelatori dell’inserimento nel sodalizio siano lontani nel tempo, rispetto al momento del giudizio. In questa logica, occorre in primo luogo un’appartenenza che si traduca in una forma di partecipazione, intesa come stabile compenetrazione nella struttura associativa, compenetrazione in parte in discussione al cospetto delle forme di cd. concorso esterno.

Interventi rilevanti erano stati già quelli che, in diverse occasioni, aveva avuto modo di esprimere la Corte costituzionale (sentenza 291/2013, in tema di misure di prevenzione, sia la decisione in tema delle esigenze cautelari e del regime di presunzioni previste dall’art. 275, comma 3, CPP).

Occorre, dunque, una ripetitività del contributo con permanenza di determinate condizioni di vita e di interessi in comune. In questa logica anche il decorso di un rilevante arco temporale, in difetto di ogni elemento di segno contrario o il mutamento delle condizioni di vita del singolo possono risultare elementi o indicatori che rendono incompatibile una conclusione di persistenza del vincolo stesso, da cui inferire l’attualità del profilo di pericolosità personale.  (Sez. 1, 30955/2019).

 

Autonomia tra procedimento di prevenzione e procedimento penale

Condivisibili orientamenti interpretativi sono stati espressi di recente in sede di legittimità. Le decisioni cui si si riferisce muovono da una necessaria “riconsiderazione’ di alcuni assetti dogmatici del giudizio di prevenzione, maturata nel sistema interno già negli anni successivi alla riforma del 2011 e rafforzatasi dopo l’emissione della nota decisione del 21 febbraio 2017 della Grande Camera della Corte EDU nel caso De Tommaso contro Italia, nel senso di un marcato recupero di tassatività nella interpretazione dei presupposti descritti dal legislatore in sede di descrizione delle categorie soggettive di pericolosità.

Va dunque ribadito – in virtù della valenza pratica del principio – il significato della giurisdizionalità del procedimento di prevenzione, aspetto da cui deriva – in larga misura – la promozione del rinnovato approccio interpretativo «tassativizzante» alle previsioni di legge in materia, ferma restando la peculiarità della disciplina oggetto di analisi.

La Corte costituzionale, in due pronunzie con cui rifiutò di emettere decisioni additive in tema di misure di prevenzione (ordinanza 721/1988; sentenza 335/1996), ha fatto discendere tale scelta dalla constatazione per cui la giurisdizione preventiva è – quanto meno, da ritenersi limitativa di diritti, il che rappresenta una efficace definizione dei tratti peculiari di un settore dell’ordinamento presidiato – in larga misura – dalle garanzie comuni con quelle del sistema sanzionatorio, trattandosi – per riprendere altra affermazione del giudice delle leggi – di applicare in via giurisdizionale misure tese a delimitare la fruibilità di diritti della persona costituzionalmente garantiti, o ad incidere pesantemente e in via definitiva sul diritto di proprietà (Corte costituzionale, 93/2010).

È dunque da ribadirsi che le misure di prevenzione, pur se sprovviste di natura sanzionatoria in senso proprio, rientrano in una accezione lata di provvedimenti con portata afflittiva (sia pure in chiave preventiva) il che impone di ritenere applicabile – in siffatta materia – il generale principio di tassatività e determinatezza dei contenuti della fattispecie astratta (sia come limite al potere legislativo di costruzione della disposizione che come criterio interpretativo), lì ove si realizza la descrizione dei comportamenti presi in considerazione come prima “fonte giustificatrice” di dette limitazioni.

È, pertanto, dalla matrice giurisdizionale del procedimento e dalle ricadute della decisione su diritti fondamentali della persona che deriva, come più volte evidenziato in plurimi arresti, la necessità della valorizzazione: a) della dimensione probatoria della cd. fase constatativa del giudizio di prevenzione, base logica e giuridica della successiva prognosi di pericolosità; b) della aderenza di tale dimensione probatoria ai contenuti tipici della fattispecie astratta che si ritiene di applicare al soggetto proposto.

Le decisioni di legittimità – antecedenti e successive alla pronunzia della Corte di Strasburgo – che hanno dato corpo a tale linea interpretativa sono molteplici e convergenti nel realizzare una lettura delle disposizioni in tema di pericolosità semplice di cui all’art. 1 lett. a – b incentrata sulla valorizzazione della locuzione proventi di attività delittuose/traffici delittuosi in chiave tassativizzante.

Si è infatti affermato, in via generale, che nella fase preliminare della constatazione delle condotte potenzialmente indicative della pericolosità sociale, parlare di “traffici delittuosi” o di proventi di “attività delittuose” in senso non generico, significa che, pur senza indicare le fattispecie incriminatrici specifiche, il legislatore ha inteso prendere in esame la condizione di un soggetto che ha, in precedenza, commesso dei delitti consistenti in attività di intermediazione in vendita di beni vietati (traffici delittuosi) o tipologicamente produttivi di reddito (provento di attività delittuose).

In tal senso, le categorie tipizzate della personalità semplice 7 art. 1 presentano aspetti (il riferimento alla abitualità e la descritta connotazione dell’attività pregressa svolta dal soggetto) di più elevata aderenza al paradigma classico della pericolosità penalistica rispetto a quelle della cd. pericolosità qualificata (art. 4, comma 1, lett. a e b), posto che in tale secondo caso il legislatore – proprio in riferimento al maggior disvalore delle fattispecie penali evocate – non richiede la precedente verifica della commissione del reato ma consente l’intervento preventivo sulla base dell’indizio di commissione del medesimo.

In altre parole, va condivisa e ribadita l’affermazione (Sez. 1. 349/2018) per cui, nella costruzione della fattispecie legale di pericolosità il “delittuoso’ non è connotazione di disvalore generico della condotta pregressa ma attributo che la qualifica, dunque il giudice della misura di prevenzione deve, preliminarmente, attribuire al soggetto proposto una pluralità di condotte passate (dato il riferimento alla abitualità) che – vuoi facendosi riferimento ad accertamenti realizzati in sede penale, vuoi attraverso una autonoma ricostruzione incidentale che non risulti contraddetta da esiti assolutori – siano rispondenti al tipo di una previsione di legge penalmente rilevante.

Ciò impone di ritenere che nella ricognizione del contenuto delle disposizioni di cui all’art. 1, comma 1 lett. a – b, l’interprete è tenuto ad aderire ad una lettura del contenuto prescrittivo che si fondi sull’apprezzamento di ripetute condotte di reato corrispondenti ai tratti (e alle finalità) delineati dal legislatore.

Si rievoca, nei citati arresti, la necessaria aderenza del momento cognitivo della prevenzione al contenuto tipico della previsione legale. Decisivo è che anche per le misure di prevenzione, la descrizione legislativa, la fattispecie legale, permetta di individuare la o le condotte dal cui accertamento nel caso concreto possa fondatamente dedursi un giudizio prognostico, per ciò stesso rivolto all’avvenire.

In tale passaggio argomentativo, peraltro, si riconosce con chiarezza il fondamento di quella posizione concettuale che scinde il giudizio di prevenzione in due fasi, constatativa e prognostica. In particolare, la scissione del giudizio prevenzionale in due fasi è ormai patrimonio comune sul piano interpretativo degli istituti coinvolti, atteso che solo a seguito di una prima fase «constatativa» (ossia di apprezzamento di fatti idonei ad iscrivere il soggetto in una delle categorie criminologiche tipizzate dal legislatore) può seguire la fase «prognostica» in senso stretto (ossia la valutazione delle probabili, future condotte, in chiave di offesa ai beni tutelati), logicamente influenzata dai risultati della prima, secondo il generale paradigma logico di cui all’art. 203 CP .

Come è stato osservato in ulteriore arresto (Sez. 1, 31209/2015), nessuna misura di prevenzione (sia essa personale o patrimoniale) può essere, dunque, applicata lì dove manchi una congrua ricostruzione di «fatti» idonei a determinare l’inquadramento (attuale o pregresso) del soggetto proposto in una delle «categorie specifiche» di pericolosità espressamente «tipizzate» dal legislatore all’art. 1 e all’art. 4.

Solo l’avvenuto inquadramento del proposto in una delle categorie tipiche di pericolosità, derivante dall’apprezzamento di fatti, consente, lì dove tale giudizio sia formulato in termini di attualità all’esito del giudizio di primo grado, di applicare la misura di prevenzione personale, se del caso “congiunta” a misura patrimoniale; mentre in ipotesi di pericolosità tipica sussistente ma non più attuale (sempre al momento della decisione di primo grado) può essere, in presenza degli ulteriori presupposti di legge, applicata la misura patrimoniale della confisca “disgiunta”.

In tali arresti si è evidenziato, altresì, che affermare la «condizione» di pericolosità sociale di un individuo (in un dato momento storico) è peraltro operazione complessa che nel giudizio di prevenzione non si basa esclusivamente sulla ordinaria «prognosi di probabile e concreta reiterabilità» di qualsivoglia condotta illecita – così come previsto in via generale dall’articolo 203 CP ( norma che non distingue la natura della violazione commessa a monte e postula la semplice commissione di un reato) – ma implica il precedente inquadramento del soggetto in una delle categorie criminologiche tipizzate dal legislatore, sicchè la espressione della prognosi negativa deriva, appunto, dalla constatazione di una specifica inclinazione mostrata dal soggetto, cui non siano seguiti segni consistenti di modifica comportamentale.

Dunque parlare di pericolosità sociale come caratteristica fondante del giudizio di prevenzione se da un lato è esatto, in quanto si intercetta il valore sistemico della misura di prevenzione, che è strumento giuridico di contenimento e potenziale neutralizzazione della pericolosità, dall’altro può essere fuorviante lì dove tale nozione venga intesa in senso del tutto generico, senza tener conto della selezione normativa delle specifiche «categorie» di pericolosità.

Le indicazioni del legislatore, in quanto “tipizzanti’, determinano la esclusione dal settore in esame di quelle condotte che, pur potendo percepirsi come manifestazione di pericolosità, risultino estranee al «perimetro descrittivo» di cui agli attuali articoli 1 e 4. La prognosi di pericolosità, infatti, segue gli esiti (positivi o negativi) di tale preliminare inquadramento e pertanto si manifesta in forme, costituzionalmente compatibili, che riducono la discrezionalità del giudice agli “ordinari’ compiti di interpretazione del valore degli elementi di prova e di manifestazione di un giudizio prognostico che da “quelle” risultanze probatorie è oggettivamente influenzato.

La descrizione della “categoria criminologica” di cui agli artt. 1 e 4 ha, pertanto, il medesimo «valore» che nel sistema penale è assegnato alla norma incriminatrice, ossia esprime la previa selezione e connotazione, con fonte primaria, dei parametri fattuali rilevanti, siano gli stessi rappresentati da una condotta specifica (le ipotesi di “indizio di commissione” di un particolare reato, con pericolosità qualificata) o da un “fascio di condotte” (le ipotesi di pericolosità generica).

Ciò peraltro consente di qualificare come non condivisibile – anche alla luce delle più recenti linee interpretative interne – il giudizio negativo espresso dalla Corte EDU nel caso De Tommaso in punto di qualità della legge’, nel senso che le disposizioni di riferimento, qui limitate ai casi di “dedizione abituale a traffici delittuosi (lettera a), art. 1 comma 1) e/o al vivere abitualmente, anche in parte, con il provento di attività delittuose (lettera b)”, contengono gli spunti tassativizzanti che consentono di ritenerle disposizioni idonee ad orientare le condotte dei consociati in modo congruo (con rispetto del canone logico–giuridico della prevedibilità, richiamato nella decisione Corte EDU).

Ciò, ovviamente, nella misura in cui tale approccio “tassativizzante” alla lettura delle norme venga rispettato in concreto, sulla base dei contenuti dei numerosi precedenti interni già orientati in tale direzione. Da tale premessa derivano una serie di conseguenze, che è opportuno ribadire, proprio in tema di autonomia valutativa del giudice della misura di prevenzione. La prima riguarda il modo di essere della cosiddetta «fase constatativa» del giudizio di prevenzione, rappresentata dalla iscrizione del soggetto proposto (attuale o pregressa) nella categoria tipica di riferimento, base logica della prognosi.

Se l’iscrizione nella categoria è una condizione della prognosi – non essendo sufficiente per la formulazione della medesima, dovendo la pericolosità porsi come giudizio rivolto al futuro – è evidente che la base cognitiva deve essere processualmente certa, altrimenti la prognosi (giudizio ontologicamente probabilistico) nasce viziata in radice.

Ove si tratti delle ipotesi di cui all’art. 1, lett. a/b si è detto che le precedenti condotte del soggetto vanno qualificate in termini di ricorrenti attività delittuose (produttive di reddito o consistenti in traffici) il che tendenzialmente esclude la possibilità di ritenere tali, in sede di prevenzione, quelle condotte che il giudice penale – nell’esercizio della sua funzione cognitiva – ha ritenuto non conformi al tipo o addirittura insussistenti nella loro dimensione fattuale o giuridica.

Non è un caso, infatti, che l’origine giurisprudenziale del principio della «autonoma valutazione» riguardi il settore della pericolosità qualificata (appartenenza ad associazione mafiosa), nel cui ambito la descrizione normativa prevenzionale è operata in termini meno stringenti (si evoca l’indizio) rispetto a quelli prima evidenziati, il che rende sostenibile – in una con lo sviluppo autonomo dei dati informativi – l’approdo ad una diversità di esito dei due giudizi (penale e di prevenzione qualificata).

Ma lì dove la parte constatativa del giudizio debba fondarsi sulla constatazione di precedenti attività delittuose (art. 1), il sistema attuale della pericolosità semplice – arricchito, come si dirà, dalla previsione specifica di cui all’art. 28 – non tollera la rielaborazione autonoma di un giudicato penale assolutorio – nel merito– da parte del giudice della prevenzione, se non nella marginale ipotesi di un consistente apporto di elementi informativi non valutati in sede penale. Tale riflessione è stata in più arresti di legittimità.

Conviene rievocare, sul punto, la medesima decisione Sez. 1, 31209/2015 unitamente alla già evocata Sez. 2, 11846/2018. Nella prima decisione si è affermato – con linea non smentita nei successivi arresti – che: [tale inquadramento – art. 1, comma 1 lett. b – presuppone come realizzate con esito positivo, quanto alla parte constatativa del giudizio, le seguenti verifiche : a) la realizzazione di attività delittuose (trattasi di termine inequivoco) non episodica ma almeno caratterizzante un significativo intervallo temporale della vita del proposto; b) la realizzazione di attività delittuose che, oltre ad avere la caratteristica che precede siano produttive di reddito illecito (il provento); c) la destinazione, almeno parziale, di tali proventi al soddisfacimento dei bisogni di sostentamento della persona e del suo eventuale nucleo familiare.

L’attività contra legem (importata da correlato procedimento penale o ricostruita in via autonoma in sede di prevenzione) deve pertanto caratterizzarsi in termini di delitto – quantomeno ricorrente – produttivo di reddito. In ciò la norma non eleva a presupposto di “pericolosità generica rilevante’ la realizzazione di un qualsiasi illecito.

Sul punto, se è vero che l’autonomia del procedimento di prevenzione – rispetto a quello penale – consente in termini generali la valutazione del “fatto’ comunque accertato, quale eventuale sintomo di pericolosità, è pur vero che tale affermazione esige da un lato la «effettività» di una autonoma valutazione, ma soprattutto va rapportata alla tipologia di pericolosità “prevenzionale’ che si ipotizza sussistente.

Il principio della «autonoma valutazione» (di fatti accertati o, comunque, desumibili da decisioni di assoluzione emesse in sede penale) si è infatti affermato, quasi in via esclusiva, nel settore della contiguità mafiosa ed in riferimento ad una descrizione della categoria criminologica (il soggetto indiziato di appartenenza all’organismo mafioso) che tollera, per la sua diversità ontologica dalla prova della condotta partecipativa in senso pieno (art. 416–bis), la diversità di apprezzamento, nei due settori dell’ordinamento, delle medesime circostanze di fatto, sia pure nei limiti che si andranno a precisare.

Ma nel settore della pericolosità “semplice’ di cui all’art. 1, ed in particolare per quanto riguarda l’ipotesi della lettera b, molto minore, per non dire assente, è la possibilità di porre in essere, sul piano interpretativo ed in rapporto alla mediata osservanza del principio di tassatività prima descritta, una simile operazione.

La norma di riferimento, come si è detto, impone di constatare la ricorrente commissione di un delitto (attività delittuose) produttivo di reddito. Se la realizzazione del delitto è esclusa in sede penale – e ciò sia in rapporto all’elemento materiale che a quello psicologico, non potendosi certo sostenere una sopravvivenza del disvalore di un delitto in assenza di dolo – manca uno dei presupposti su cui lo stesso legislatore articola la costruzione della fattispecie.

Di ciò il giudice della prevenzione ha l’obbligo di tener conto, pena la violazione del principio di tassatività e di quello, ancor più generale, di unitarietà dell’ordinamento e di non contraddizione. L’unica ipotesi a ben vedere – di possibile valutazione autonoma dei “fatti accertati’ in sede penale che non abbiano dato luogo a sentenza di condanna, lì dove si discuta dell’inquadramento del soggetto proposto nella categoria di cui all’art. 1, comma 1, lett. b, riguarda  le ipotesi di proscioglimento per intervenuta prescrizione (limite esterno alla punibilità del fatto), lì dove il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza nella decisione di proscioglimento o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti.

Nella seconda decisione indicata, si è ulteriormente affermato, in riferimento ad un caso di domanda di revoca ex tunc di decisione di prevenzione per successivo giudicato penale favorevole, che: [..] non può prescindersi dal fatto che il giudizio di prevenzione – specie in riferimento alle elaborazioni più recenti, tese a riconsiderare talune passate ambiguità concettuali in chiave costituzionalmente e convenzionalmente orientata – è strutturato come giudizio «cognitivo» teso a ricostruire, preliminarmente, talune condotte poste in essere dal soggetto “attenzionato”, in virtù del fatto che la formulazione di un giudizio prognostico rivolto al futuro è affrancata da un inaccettabile soggettivismo (che contrasterebbe con la natura giurisdizionale del procedimento) se ed in quanto trae origine da un previa operazione di tipo ricostruttivo, del tutto analoga a quella che si realizza – in sede penale – lì dove si ricostruisce il rapporto tra fatto concreto e fattispecie astratta.

In particolare, secondo gli arresti univoci antecedenti e successivi alla pronunzia Corte EDU De Tommaso c. Italia, – la parte prognostica del giudizio è preceduta e condizionata da una parte «ricostruttiva» di fatti (con strumenti dimostrativi analoghi a quelli utilizzati in sede penale) e delle singole condotte tenute dal proposto, sì da determinare la «previa iscrizione» del soggetto nella categoria normativa tipizzata di cui agli artt. 1/4.

Dunque, ragionando in termini sistematici, dai contenuti dei citati arresti – che per comodità espositiva sono stati qui riproposti per stralcio – emergono una serie di principi di diritto che possono essere sintetizzati nel modo che segue: a) nel giudizio cognitivo di prevenzione, l’applicazione delle previsioni di legge di cui all’art. 1, comma 1, lett. a – b, richiede adeguata motivazione circa la esistenza pregressa delle condotte delittuose commesse dal proposto, aderenti ai contenuti della previsione astratta, declinata – quest’ultima – in termini tassativi, trattandosi della base logica e normativa del giudizio di pericolosità soggettiva; b) il giudice della misura di prevenzione può fare riferimento, in tale parte della motivazione, a provvedimenti emessi in sede penale che abbiano affermato (anche in via provvisoria) la ricorrenza dei delitti in questione, esprimendo argomentata condivisione e confrontandosi – pena l’apparenza di motivazione – con gli argomenti contrari introdotti dalla difesa; c) il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione (art. 29); d) il giudice della misura di prevenzione è tuttavia vincolato a recepire l’eventuale esito assolutorio non dipendente dall’applicazione di cause estintive – sul fatto posto a base del giudizio di pericolosità – prodottosi nel correlato giudizio penale (art. 28) con le sole eccezioni che seguono : 1) il segmento fattuale oggetto dell’esito assolutorio del giudizio penale si pone come ingrediente fattuale solo concorrente e minusvalente rispetto ad altri episodi storici rimasti confermati (o non presi in esame in sede penale); 2) il giudizio di prevenzione si basa su elementi cognitivi autonomi e diversi rispetto a quelli acquisiti in sede penale; 3) la conformazione legislativa del tipo di pericolosità e prevenzionale è descritta in modo sensibilmente diverso rispetto ai contenuti della disposizione incriminatrice oggetto del giudizio penale (ipotesi di pericolosità qualificata).

Inoltre, circa il margine di discrezionalità valutativa di cui è titolare il giudice della misura di prevenzione rispetto agli esiti del giudizio penale in tema di pericolosità qualificata, va anche detto che la diversità tra la nozione di appartenenza alla associazione di cui all’art. 416–bis (attuale art. 4, comma 1, lett. a) e quella di partecipazione (chiunque fa parte di…) contenuta nella disposizione incriminatrice di cui all’art. 416–bis è stata di recente «ridimensionata» dai contenuti dell’arresto rappresentato da SU, 111/2018, lì dove si è affermato che il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, si sostanzia in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale.

In ciò risulta superato l’orientamento giurisprudenziale teso, per converso, a valorizzare, a fini di inquadramento nella categoria tipica di prevenzione, forme di vicinanza meramente ideologica o espressive di cultura comune. È stata affermata, dunque, come preferibile l’opzione interpretativa che consente di ricomprendere nella nozione di appartenenza tanto le condotte indicative della vera e propria partecipazione che quelle di supporto causale del non–associato, rientri – sul versante penale – nell’area del concorso esterno o comunque idonee ad apportare un “contributo fattivo’ alle attività e allo sviluppo del sodalizio criminoso.

Da ciò deriva, tornando al tema della «autonomia valutativa» che il giudice della prevenzione non può realizzare, in aderenza ai presupposti sin qui descritti (derivanti sia dal recupero complessivo di tassatività descrittiva che dalle ricadute ermeneutiche dei contenuti dell’art. 28) ) un arbitrario «superamento» di una statuizione favorevole al proposto emessa in sede penale lì dove gli elementi indizianti posti a carico siano i medesimi e la decisione intervenuta in sede penale ne abbia qualificato la piena «irrilevanza» a fini di qualificazione della condotta come «funzionale agli scopi associativi», pena la riproposizione di schemi concettuali ormai desueti e abbandonati tanto dal legislatore che dalla prevalente giurisprudenza (Sez. 1, 21735/2019).

Tra il procedimento di prevenzione ed il processo penale sussistono profonde differenze funzionali e strutturali, essendo il secondo ricollegato ad un determinato fatto reato ed il primo riferito ad una valutazione di pericolosità, espressa mediante condotte che non necessariamente costituiscono reato; sicché, la reciproca autonomia dei due processi spiega gli interventi del legislatore per regolare i punti di possibile interferenza, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole atipiche di pregiudizialità per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia, salva l’opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa.

Nel procedimento di prevenzione il giudice è legittimato a servirsi di elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, prescindendo dalla conclusione alla quale il giudice è pervenuto facendosi carico di individuare le circostanze di fatto rilevanti accertate in sede penale, e rivalutarle nell’ottica del giudizio di prevenzione).

Altrettanto pacifico è che non sussiste alcuna pregiudizialità tra il procedimento penale e quello di prevenzione ed è dunque possibile utilizzare in quest’ultimo, ai fini del giudizio di pericolosità sociale del proposto, elementi di prova o indiziari tratti da procedimenti penali non ancora conclusi atteso che, in assenza di giudicato penale, il giudice della prevenzione può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale di condotte emerse durante l’istruttoria, dando conto in motivazione della ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice idonea alla produzione di proventi illeciti. Nel procedimento di prevenzione, insomma, il giudice può utilizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto.

Più specificamente, poi, si è chiarito che il giudice della prevenzione è titolare di un autonomo potere di valutazione degli elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, che possono essere utilizzati nei confronti dei soggetti indicati nella lett. a) dell’art. 4 anche qualora non siano stati ritenuti sufficienti ad integrare la prova della partecipazione ad associazione mafiosa, in ragione della diversità tra il concetto di “appartenenza” (evocato dalla disposizione citata) e quello di “partecipazione”, necessaria ai fini di integrare il reato di cui all’art. 416–bis CP; si è precisato, tuttavia, che, qualora vi sia stata condanna nel procedimento penale, il giudice della prevenzione potrà riferirsi ad essa come ad un “fatto” solo se passata in giudicato, mentre, qualora si tratti di sentenza non definitiva, egli non potrà limitarsi a richiamarne la portata decisoria, dovendo confrontarsi “autonomamente” con gli elementi probatori per verificare la sussistenza dei presupposti che legittimano l’applicazione della misura.

Certo è che, in sede di verifica della pericolosità del soggetto proposto per l’applicazione di una misura di prevenzione ai sensi dell’art. 1, comma 1, lett. a) e b), il giudice della prevenzione può ricostruire in via autonoma la rilevanza penale dei fatti accertati in sede penale che non abbiano dato luogo ad una sentenza di condanna a condizione, però, che non sia stata emessa una sentenza irrevocabile di assoluzione in quanto la negazione penale di un fatto impedisce di assumerlo come elemento indiziante ai fini del giudizio di pericolosità; il potere di autonoma valutazione sussiste anche nel caso di emissione di una sentenza di proscioglimento per intervenuta prescrizione purché il fatto risulti delineato con sufficiente chiarezza o sia comunque ricavabile in via autonoma dagli atti.

D’altra parte, è pur necessario ribadire che il concetto di “appartenenza” ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende la condotta che, sebbene non riconducibile alla “partecipazione”, deve tuttavia risolversi in una condotta, anche isolata, tuttavia funzionale agli scopi associativi, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale (Sez. 2, 19880/2019).

La pericolosità qualificata può essere rilevata, pur nell’assenza di condanna per il reato di cui all’art. 416–bis CP, ove siano individuati, come avvenuto nel caso al vaglio, fatti specifici, indicati dai giudici della prevenzione, come sintomatici di detta pericolosità (Sez. 5, 32017/2019).

Nel giudizio di prevenzione è consentito utilizzare le sentenze pronunciate nei confronti del proposto che sia stato assolto con la formula dell’insufficienza o contraddittorietà della prova; in tal caso la verifica dell’effettiva consistenza e sintomaticità degli indizi di appartenenza al sodalizio mafioso deve essere condotta sulle risultanze probatorie, acquisite nel giudizio penale e sulle reali ragioni del convincimento di non colpevolezza espresso dai giudici di merito (Sez. 6, 921/2015).

Nel giudizio di prevenzione, opera la regola della piena utilizzazione di qualsiasi elemento indiziario desumibile anche da procedimenti penali in corso (e, persino, definiti con sentenza irrevocabile di assoluzione), purché tale elemento sia certo e si apprezzi come idoneo – per il suo valore sintomatico – a giustificare il convincimento del giudice, attraverso cui si dispiega la relativa sfera di discrezionalità con enucleazione della corrispondente motivazione, sulla sussistenza della pericolosità sociale del proposto, senza che operi alcuna pregiudizialità tra il procedimento penale e quello di prevenzione.

È quindi possibile utilizzare, in questo ambito, ai fini del giudizio di pericolosità sociale del proposto, elementi di prova o indiziari tratti da procedimenti penali non ancora conclusi, naturalmente confrontandosi in modo autonomo con gli elementi stessi per stabilire se essi, una volta accertati, per la consistenza e il significato che posseggono, siano idonei a fondare la sussistenza dei presupposti legittimanti l’applicazione della misura (Sez. 1, 24707/2018).

La piena autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale comporta l’ampia libertà di cognizione da parte del primo nell’apprezzamento degli elementi probatori tratti da procedimenti penali in corso, apprezzamento svincolato dal rispetto obbligatorio delle regole di giudizio proprie del dibattimento penale in tema di prova indiziaria e di prova dichiarativa, con gli unici vincoli di non fare ricorso a prove vietate e di dar conto delle ragioni per le quali da quegli elementi si traggano i presupposti applicativi della misura imposta (Sez. 6, 40552/2017).

L’autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale, permette al giudice, chiamato ad applicare la misura, di avvalersi di un complesso quadro di elementi indiziari, anche attinti dallo stesso processo penale conclusosi con l’assoluzione, là dove la motivazione rielabori i dati stessi e ne inferisca appunto un giudizio che colleghi il proposto ad una delle figure tipiche di soggetto socialmente pericoloso (Sez. 1, 12498/2019).

 

Pericolosità generica e pericolosità qualificata

La distinzione fondamentale tra pericolosità generica e pericolosità qualificata consiste, infatti, che ai fini di quest’ultima e dell’applicazione dei provvedimenti previsti nel Capo II del Decreto 159/2011 è sufficiente la qualità di essere indiziati (anche in veste di istigatori, mandanti e finanziatori) di uno dei reati contemplati alle lettere a), b), d), f), i) dell’art. 4; per i reati di cui alle lettere e) e g), si richiede, invece, una pregressa condanna (per uno dei delitti in materia di armi) o quanto meno un positivo accertamento di avere fatto parte di associazioni politiche disciolte dalla L. 645/1952 riferite al deposto regime fascista.

Evidentemente diversa è, invece, la situazione riguardante i soggetti di cui alla lett. c) dell’art. 4 che a sua volta rinvia alle ipotesi di cui all’art. 1, dove, tralasciando il caso specifico della lett. c) retaggio della precedente impostazione della normativa di prevenzione incentrata sui soggetti perturbatori dello ordine pubblico, il termine “abitualmente’ che ricorre nei casi di cui alle lettere a) e b) postula di necessità pregresse occasioni di accertamento in sede penale della ripetuta dedizione a determinate condotte (i traffici delittuosi di cui alla lett. a) o della consumazione di condotte costituenti reato dai quali i soggetti traggano o abbiano tratto, anche in parte, i proventi del loro sostentamento.

Ma che tale accertamento non possa limitarsi alla mera constatazione della condizione di indiziati per uno dei vari delitti da cui i proventi possono derivare, da un lato lo dimostra la differente struttura del sistema della pericolosità qualificata e dall’altro lo richiede la pressante esigenza di dare contenuto concreto alla nozione di pericolosità generica, al fine di delimitarne i confini e sottrarla ai rilievi critici di vaghezza e genericità, come tali suscettibili di attribuire margini di eccessiva discrezionalità ai giudici in violazione del principio di certezza del diritto, provenienti non solo dalla giurisprudenza sovranazionale (sentenza Corte EDU De Tommaso c. Italia del 23 febbraio 2017) ma anche da quella interna (ordinanza Corte di Appello di Napoli, Sez. 8,  14 marzo 2017, che ha posto in dubbio la legittimità costituzionale di tutte le misure di prevenzione, patrimoniali e personali, fondate sulle fattispecie di pericolosità generica disciplinate dall’art. 1, lett. a) e b) (Sez. 6, 53033/2017).

 

Appartenenza ad un’organizzazione mafiosa

Il concetto di appartenenza ad una associazione mafiosa, rilevante per l’applicazione delle misure di prevenzione, comprende qualsiasi condotta che, sebbene non riconducibile alla partecipazione, si risolva in un’azione, anche isolata, funzionale agli scopi associativi, che si sostanzi in un contribuito fattivo’ alle attività ed allo sviluppo del sodalizio criminoso, con esclusione delle situazioni di mera contiguità o di vicinanza al gruppo criminale (SU, 111/2018).

In tema di misure di prevenzione, anche l’intervenuta assoluzione dal reato di cui all’art. 416–bis non comporta l’impossibilità di procedere all’applicazione della sorveglianza speciale, ai sensi dell’art. 11, ove risulti adeguatamente motivato l’inquadramento nella categoria di pericolosità soggettiva tipizzata dalla legge.

In questa logica si deve, del resto, ribadire che, ai fini della formulazione del giudizio di pericolosità, è anche legittimo avvalersi di elementi di prova e/o indiziari tratti da procedimenti penali, benché non ancora conclusi e, nel caso di processi definiti con sentenza irrevocabile, anche indipendentemente dalla natura delle statuizioni terminali, in ordine all’accertamento della penale responsabilità dell’imputato, sicché anche una sentenza di assoluzione, pur irrevocabile, non comporta la automatica esclusione delira pericolosità sociale (Sez. 1, 12498/2019).

 

…Attualità della pericolosità sociale

La misura di prevenzione della “sorveglianza speciale della pubblica sicurezza”, prevista dall’art. 3 L. 1423/1956 (ora D. Lgs. 159/2011), è applicabile anche nei confronti di persona detenuta in espiazione di pena (SU, 6/1993). Le Sezioni unite, nell’affermare tale principio e dopo aver rilevato l’incompatibilità del momento esecutivo della misura di prevenzione con lo stato di detenzione, hanno stabilito che la misura potesse avere inizio solo quando lo stato di detenzione fosse cessato; ferma restando la possibilità per il soggetto di chiedere la revoca della misura per l’eventuale venir meno della sua pericolosità in virtù dell’espiazione e dell’incidenza positiva sulla sua personalità della funzione risocializzante della pena. Dal nuovo indirizzo giurisprudenziale discendeva la conseguenza che la misura di prevenzione poteva essere messa in esecuzione anche a distanza di tempo rispetto alla sua deliberazione, senza alcun approfondimento in ordine alla persistente pericolosità della persona ad essa sottoposta. Al riguardo, la Corte costituzionale con la sentenza 291/2013, ha dichiarato la «illegittimità costituzionale dell’art. 12 L. 1423/1956 [ora art 15 D. Lgs. 159/2011], nella parte in cui non prevede che, nel caso in cui l’esecuzione di una misura di prevenzione personale resti sospesa a causa dello stato di detenzione per espiazione di pena della persona ad essa sottoposta, l’organo che ha adottato il provvedimento di applicazione debba valutare, anche d’ufficio, la persistenza della pericolosità sociale dell’interessato nel momento dell’esecuzione della misura». La giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia della Corte costituzionale, a fronte della descritta evoluzione in materia del diritto vivente, come segnalato nell’ordinanza di rimessione, non ha fornito un univoco indirizzo interpretativo. Secondo un primo orientamento interpretativo, sostenuto dalla Sez. 1, 6878/2015, nell’ipotesi di sottoposto a misura di prevenzione ai sensi della L. 1423/1956 ovvero D. Lgs. 159/2011, il quale, successivamente all’adozione della misura, sia assoggettato a misura cautelare personale ovvero alla espiazione di pena detentiva per un apprezzabile periodo temporale potenzialmente idoneo ad incidere sullo stato di pericolosità in precedenza delibato, la misura stessa deve considerarsi sospesa nella sua efficacia fino a quando il giudice della prevenzione non ne valuti nuovamente l’attualità alla luce di quanto desumibile in favore del sottoposto dalla esperienza di carcerazione patita; con la conseguenza che, fino a quando tale nuova valutazione non venga effettuata dal giudice della prevenzione, anche alla luce del comportamento tenuto nel corso dell’esecuzione della pena, non può considerarsi sussistente il reato di cui all’art. 75, comma 2, dal momento che tale illecito consiste nell’inadempimento ad obblighi e prescrizioni la cui esecuzione è sospesa. In sintesi, la valutazione di attualità della pericolosità sociale del destinatario della misura in questione, compiuta dal giudice della prevenzione al termine del periodo di differimento di esecuzione della misura stessa, determinato da detenzione di durata tale da incidere su tale stato, costituisce presupposto di sussistenza per tale persona dei reati previsti dall’art. 75. Un contrapposto orientamento, sostenuto dalla Sez. 1, 2790/2017, ritiene che la mancata rivalutazione della pericolosità non determina una sospensione ex lege della misura di prevenzione, con la conseguenza che «allorquando all’esito della detenzione stessa emergano profili o dati di fatto specifici, potenzialmente idonei ad incidere sullo stato di pericolosità sociale precedentemente delibato in senso positivo», il nuovo esame della pericolosità sociale del destinatario della misura di prevenzione è rimesso alla competenza funzionale «del giudice della misura stessa», ma non può affermarsi che la mancanza di tale rivalutazione equivalga «ad automatica inesistenza (originaria o sopravvenuta) del titolo genetico o che tenga luogo d’una sua sospensione ex lege». Il presupposto di pericolosità sociale, condizione strutturale essenziale della misura, che trae genesi dal titolo originario, continua ad esistere, perché adottato nel concorso delle condizioni legittimanti ed all’esito della verifica giurisdizionale e ciò finché il giudice funzionalmente competente non provveda ad operare una rivalutazione di segno contrario». Tale orientamento ermeneutico trova supporto normativo nella disposizione dell’art. 10, che prevede la immediata esecutività dei provvedimenti che applicano le misure di prevenzione e che non sono sospesi neanche in caso di loro impugnazione. In passato, Sez. 2, 12915/2015, aveva invece effettuato un distinguo, ribadendo che quando l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa per lo stato detentivo dell’interessato, «unica interpretazione costituzionalmente orientata è quella di considerare la sospensione dell’esecuzione della misura come destinata a risolversi solo a seguito della rivalutazione da parte del giudice, non dell’esecuzione, bensì dal medesimo giudice che ha applicato la misura, ovvero il tribunale competente a norma degli artt. 5 e ss.». Tale pronuncia opera però una netta distinzione tra l’ipotesi in cui lo stato detentivo sia determinato dall’espiazione pena, e quella determinata dalla applicazione di una misura cautelare. Infatti, mentre la detenzione per espiazione di pena di chi sia sottoposto a misura di prevenzione personale incrementa la possibilità, favorita dal trattamento rieducativo individualizzato “che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti di valori della convivenza civile”, la sottoposizione a misura cautelare personale, sia essa detentiva o non detentiva, non consente di ritenere superata o attenuata la presunzione di attualità della pericolosità sociale emessa in sede di applicazione, ma si pone, in realtà, come indiretta conferma della valutazione stessa, avuto riguardo alla ritenuta sussistenza di esigenze cautelari riferibili anche alla personalità dell’indagato e al concreto rischio di commissione di gravi reati». Secondo tale pronuncia, quindi, non occorre alcuna rivalutazione della pericolosità sociale nell’ipotesi in cui la sospensione sia stata determinata dall’applicazione di misura cautelare, la quale, a differenza della detenzione in espiazione pena, non è un trattamento specificamente finalizzato al reinserimento sociale. Secondo una posizione che può essere definita intermedia, assunta da Sez. 1, 11619/2018, la valutazione della persistente pericolosità sociale può essere oggetto di una valutazione incidentale e quindi la perdurante efficacia della sottoposizione alla misura di prevenzione dopo un periodo di detenzione, può essere oggetto della valutazione del giudice di merito che procede in ordine alla violazione degli obblighi inerenti detta misura. Linea interpretativa questa, che sembra essere quella alla quale si è rifatto il giudice della sentenza impugnata. Ritengono le Sezioni unite che debba essere condiviso il primo orientamento interpretativo. La Corte costituzionale, nel pronunciare la sentenza 291/2013, ha rilevato che, nella materia delle misure di sicurezza, la verifica della persistenza della pericolosità sociale è imposta dall’art. art. 679 CPP secondo cui «quando una misura di sicurezza diversa dalla confisca è stata ... ordinata con sentenza, o deve essere ordinata successivamente, il magistrato di sorveglianza, su richiesta del PM o di ufficio, accerta se l’interessato è persona socialmente pericolosa e adotta i provvedimenti conseguenti». In detta materia, pertanto, la valutazione della pericolosità sociale deve essere effettuata due volte: in un primo momento dal giudice della cognizione, che deve verificarne la sussistenza al momento della pronuncia della sentenza; successivamente, dal magistrato di sorveglianza, che deve verificarne l’attualità quando la misura, già disposta, deve avere inizio. Valutata l’affinità tra gli istituti delle misure di scurezza e delle misure di prevenzione, species di un unico genus di strumenti finalizzati a recuperare all’ordinato vivere civile soggetti che manifestano pericolosità sociale, la Corte con la dichiarazione di incostituzionalità ha inteso armonizzare le due discipline. Invero il decorso di un rilevante lasso di tempo, tra la applicazione della misura e la sua esecuzione, sospesa per l’espiazione di una pena, «incrementa la possibilità che intervengano modifiche nell’atteggiamento del soggetto nei confronti dei valori della convivenza civile». Infatti, considerata la funzione rieducativa assegnata dalla nostra Costituzione alla pena, «se è vero, in effetti, che non può darsi per scontato a priori l’esito positivo di detto trattamento, per quanto lungo esso sia, meno ancora può giustificarsi, sul fronte opposto, una presunzione – sia pure solo iuris tantum – di persistenza della pericolosità malgrado il trattamento, che equivale alla negazione della sua stessa funzione». In sintesi la Corte costituzionale ha inteso esprimere un monito: se presunzione vi deve essere, dopo l’espiazione di una pena essa deve essere intesa come avvenuta risocializzazione del condannato, dal che la necessità di una rinnovata valutazione della sua pericolosità sociale nella prospettiva della esecuzione della misura di sicurezza. Antecedentemente alla pronuncia della Corte, il “diritto vivente” aveva preso atto della necessità di dare una risposta costituzionalmente compatibile alla problematica dell’applicazione delle misure di prevenzione dopo un periodo di detenzione. SU, 10281/2008 ebbero modo di affermare, dopo aver premesso che la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è applicabile anche nei confronti di persona detenuta, che «dovendosi distinguere tra momento deliberativo e momento esecutivo della misura di prevenzione e attenendo la sua incompatibilità con lo stato di detenzione del proposto unicamente alla esecuzione della misura stessa, questa può avere inizio solo quando tale stato venga a cessare, ferma restando la possibilità per il soggetto di chiederne la revoca, per l’eventuale venire meno della pericolosità in conseguenza dell’incidenza positiva sulla sua personalità della funzione risocializzante della pena». Successivamente alla declaratoria di incostituzionalità la svalutazione della presunzione di pericolosità sociale attestata nel provvedimento genetico è stata costante, come prima già ricordato, e come ribadito da SU, 111/2018, che recependo il monito della Corte costituzionale sull’importanza della valutazione del «singolo caso» ai fini dell’accertamento della pericolosità sociale, ha affermato che anche «ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto». Tale accertamento, dunque, costituisce un presupposto legittimante l’applicazione delle misure di prevenzione personale per tutte le categorie previste dall’art. 4, ivi compresi gli indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose. L’esigenza di una valutazione della attualità della pericolosità sociale della persona per la applicazione a suo carico della misura di prevenzione è stata peraltro più volte ribadita dalla Corte EDU che ha affermato la necessità di accertare che i requisiti che giustificano l’iniziale applicazione della misura permangono anche durante la sua esecuzione. Al riguardo, in passato, con la sentenza del 22/02/1994, Raimondo c. Italia, la Grande Camera della Corte EDU aveva ritenuto compatibili le misure di prevenzione con i principi comunitari, in ragione della minaccia alla società democratica rappresentata dalla mafia; quindi la misura della sorveglianza speciale era necessaria «per il mantenimento dell’ordine pubblico» e «per la prevenzione del crimine». Pertanto aveva riconosciuto la legittimità di misure tese ad impedire il compimento di nuovi reati, piuttosto che a sanzionare quelli già compiuti. In successive pronunce, però, la Corte di Strasburgo ha ribadito la necessità che i requisiti che giustificano l’iniziale applicazione della misura debbano permanere anche durante la sua esecuzione. Nella sentenza del 6/04/2000, Labita c. Italia (§ 195), la Grande Camera della Corte EDU ha accertato la violazione dell’art. 2, Prot. 4, CEDU, valutando che «la sorveglianza speciale applicata nei confronti di Labita è stata decisa il 10 maggio 1993, quando esistevano effettivamente indizi riguardo la sua partecipazione alla mafia, ma è stata applicata solo il 19 novembre 1994, ossia dopo il proscioglimento, pronunciato dal Tribunale di Trapani». Pertanto anche da tale pronuncia si desume come la Corte EDU pretenda che per l’applicazione delle misure di prevenzione, oltre all’accertamento di elementi concreti e non meri sospetti, anche che la valutazione della pericolosità sociale dell’interessato sia «attuale». La codificazione dell’evoluzione del diritto vivente si è completata con la L. 161/2017, che con l’art. 4 ha introdotto nel corpo dell’art. 14, i commi 2–bis e 2–ter. Con il comma 2–ter viene previsto che l’esecuzione della sorveglianza speciale resta sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto a detenzione per espiazione di pena, aggiungendo che la verifica della pericolosità avviene ad opera del tribunale, anche d’ufficio, dopo la cessazione della detenzione protrattasi per almeno due anni. Il tribunale competente deve, ai fini del decidere, assumere le necessarie informazioni presso l’amministrazione penitenziaria e l’autorità di pubblica sicurezza. Se la pericolosità sociale è cessata, il tribunale emette decreto con cui revoca il provvedimento di applicazione della misura di prevenzione; se, invece, persiste, il tribunale ordina l’esecuzione della misura di prevenzione, il cui termine di durata continua a decorrere dal giorno in cui il decreto stesso è comunicato all’interessato. La riforma, pertanto, nel recepire l’indirizzo giurisprudenziale consolidato, secondo cui la sorveglianza speciale può essere deliberata anche nei confronti di soggetto ristretto in carcere, avalla l’interpretazione delle disposizioni in materia secondo cui la detenzione di lunga durata determina una sospensione dell’esecuzione della misura che non cessa con la fine della detenzione, ma permane fino a quando il tribunale competente non accerti la persistenza delle pericolosità dell’interessato. La norma inoltre positivizza il concetto di «consistente lasso di tempo» tra deliberazione della misura e sua applicazione, che la legge determina in due anni. Il comma 2–bis prevede, anche, che l’esecuzione della sorveglianza speciale resti sospesa durante il tempo in cui l’interessato è sottoposto alla misura della custodia cautelare. Ma in tale caso, il termine di durata della misura di prevenzione continua a decorrere dal giorno nel quale è cessata la misura cautelare, con redazione di verbale di sottoposizione agli obblighi. Le nuove norme, nel dare attuazione al contenuto della sentenza della Corte costituzionale 291/2013, completano quindi il disegno normativo, sciogliendo i residui dubbi interpretativi posti dalla giurisprudenza. 11. Alla luce di quanto fin qui esposto possono trarsi le seguenti considerazioni. L’art. 15, nel disciplinare il rapporto tra stato di detenzione (per espiazione pena) ed esecuzione di una misura di prevenzione personale, alla luce dell’intervento additivo della Corte costituzionale 291/2013, prevede che in caso di detenzione di lunga durata, lo stato di sospensione della misura non cessi all’atto della fine dell’esecuzione della pena, ma permanga fino a quando il giudice competente non verifichi nuovamente la pericolosità sociale della persona sottoposta alla misura e quest’ultima non gli sia stata notificata. Pertanto, in tali ipotesi, la nuova verifica da parte del giudice competente, attestante la pericolosità della persona, costituisce una condizione di efficacia della misura di prevenzione. In difetto di tale accertamento, non sussiste il reato di cui all’art. 75, comma 2, in quanto non avendo efficacia il provvedimento genetico della misura di prevenzione, non può configurarsi il fatto penalmente rilevante della sua violazione. Tale interpretazione trova ora sostegno normativo nel nuovo art. 14, comma 2–ter, introdotto dalla L. 161/2017. La disposizione prevede che, dopo la cessazione dello stato di detenzione per espiazione di pena, la verifica della pericolosità avviene ad opera del tribunale, anche d’ufficio, dopo la cessazione della detenzione che si è protratta per almeno due anni, attraverso un procedimento, nel corso del quale sono assunte le necessarie informazioni. Si valorizza in tal modo l’esigenza di un accertamento dell’attualità della pericolosità sociale, necessario presupposto sul piano costituzionale e convenzionale, dell’applicazione di una misura di prevenzione. A tale prospettiva interpretativa, fornisce continuità la recente pronuncia delle Sezioni Unite secondo cui, l’accertamento della “attualità” della pericolosità è necessario persino per coloro che sono indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso (SU, 111/2018). In considerazione di quanto detto va affermato il seguente principio di diritto: “Nei confronti di un soggetto destinatario di una misura di sorveglianza speciale, la cui esecuzione sia stata sospesa per effetto di una detenzione di lunga durata, in assenza di una rivalutazione dell’attualità e persistenza della sua pericolosità sociale ad opera del giudice della prevenzione, al momento della nuova sottoposizione alla misura, non è configurabile il reato di reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, previsto dall’art. 75 (SU, 51407/2018).

Nel procedimento applicativo delle misure di prevenzione personali agli indiziati di appartenere ad una associazione di tipo mafioso, è necessario accertare il requisito della “attualità” della pericolosità del proposto. La valutazione sull’attualità della pericolosità deve rapportarsi alla “intensità” dei sintomi di deviazione riscontrati ed alla loro “prossimità temporale” rispetto al momento della decisione anche nelle ipotesi di constatato inserimento in gruppi organizzati aventi caratteristiche di mafiosità stante la portata generale del principio qui illustrato e la estrema mutevolezza delle forme partecipative e/o di contiguità a simili organismi (SU, 111/2018).

Solo nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una “partecipazione” del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità) (SU, 111/2018).

La valutazione sull’attualità della pericolosità, sempre in presenza di un apprezzabile intervallo temporale tra la condotta accertata in sede penale e il giudizio di pericolosità attuale, va operata – quantomeno – in rapporto a tre indicatori fondamentali: a) il livello di coinvolgimento dell’attuale proposto nelle pregresse attività del gruppo criminoso, essendo ben diversa la potenzialità criminale espressa da un soggetto “di vertice” rispetto a quella di chi ha posto in essere condotte di mero ausilio operativo o di episodica contiguità finalistica; b) la tendenza del gruppo di riferimento a mantenere intatta la sua capacità operativa nonostante le mutevoli composizioni soggettive correlate ad azioni repressive da parte dell’AG, posto che solo in detta ipotesi può ragionevolmente ipotizzarsi una nuova “attrazione” del soggetto nel circuito relazionale illecito; c) l’avvenuta o meno manifestazione, in tale intervallo temporale, da parte del proposto di comportamenti denotanti l’abbandono delle logiche criminali in precedenza condiviseOccorre, dunque, al fine della valutazione di persistente pericolosità, rapportarsi non più solo alla tendenziale stabilità del vincolo associativo mafioso ma occorre confrontarsi con qualsiasi elemento di fatto suscettibile, anche sul piano logico, di mutare la valutazione di partecipazione al gruppo associativo, al di là della dimostrazione di un dato formale di recesso dalla medesima, quale può ravvisarsi nel decorso di un rilevante periodo temporale o nel mutamento delle condizioni di vita, tali da renderle incompatibili con la persistenza del vincolo. La valutazione di attualità della pericolosità va condotta quindi caso per caso tenendo conto di plurimi elementi, quali la natura dei reati contestati, il grado di inserimento del condannato nella compagine mafiosa, il contesto in cui si è sviluppata l’attività del proposto, il radicamento dell’associazione mafiosa sul territorio e l’eventuale operatività della stessa; a questi elementi devono contrapporsi segni di senso contrario, quali il decorso di un rilevante periodo temporale o nel mutamento delle condizioni di vita, tali da renderle incompatibili con la persistenza del vincolo. Orbene, tra gli elementi utili per la validazione della presunzione di perdurante attualità della pericolosità, le Sezioni unite hanno espressamente indicato, come detto, la tipologia della partecipazione, con particolare riferimento all’apporto del singolo proposto, la sua particolare valenza nella vita del gruppo, per effetto, ad esempio, del ruolo verticistico rivestito dall’interessato; nonché, con specifico riferimento all’appartenenza, la natura storica del gruppo illecito a cui tale appartenenza si riconduce. Si è condivisibilmente ritenuto al riguardo che gli oneri probatori e motivazionali in ordine alla dimostrazione della attualità della pericolosità qualificata hanno una diversa intensità nei casi in cui il proposto sia indicato come “partecipe”, rispetto ai casi in cui sia un semplice “appartenente” al sodalizio mafioso (Sez. 6, 37512/2019).

Vanno ricordati gli approdi ermeneutici raggiunti dalle Sezioni unite con la sentenza 111/2018 e con le precedenti sentenze 40076/2017 e 4880/2015 che, ripercorrendo compiutamente l’evoluzione normativa, come interpretata anche alla luce degli interventi della Corte costituzionale e della giurisprudenza sovranazionale della Corte EDU, hanno escluso che dalla sola individuazione di appartenenza ad un’associazione mafiosa, pur se riferibile a compagini storiche, possa automaticamente discendere l’attualità della pericolosità, a prescindere da ogni analisi rapportata ai tempi dell’intervento di prevenzione, come richiesto da tempo dalla stessa Corte costituzionale che, già con la sentenza 23/1964, aveva escluso la rilevanza dei semplici sospetti. In tal senso le SU hanno sottolineato come sia possibile “valorizzare, al fine dell’accertamento di pericolosità, specifiche circostanze di fatto che emergano da pronunce liberatorie, condizione che risulta fisiologicamente connessa alla mancanza di correlazione tra le misure di prevenzione e la consumazione di reati, posto che proprio la finalità preventiva consente l’intervento in presenza di fatti espressivi di una elevata pericolosità, sui quali è dato intervenire previamente per evitare la commissione di reati, ma risulta solo correttamente porre in evidenza che l’onere argomentativo in tali condizioni non può che uscirne rafforzato.” Ciò discende da fatto che, nel caso di applicazione di misura di prevenzione “si richiede quale presupposto applicativo, in luogo dell’esistenza di gravi indizi di consumazione del reato, l’accertamento di elementi sull’appartenenza alla compagine mafiosa, che costituiscono un minus rispetto a quanto legittima l’applicazione della misura cautelare, in quanto si attribuisce rilievo giuridico all’esistenza di un regime di vita non necessariamente connesso a fattispecie di reato attribuibili all’interessato, ma a fatti, anche privi di rilievo penale, che generino elementi indicativi di tale collegamento. Come già rilevato, il concetto di appartenenza, evocato dalla norma, è più ampio di quello di partecipazione, con il conseguente rilievo attribuito in tema di misure di prevenzione a condotte che non integrano neppure in ipotesi di accusa la presenza del vincolo stabile tra il proposto e la compagine, ma rivelano una attività di collaborazione, anche non continuativa. La differente struttura risulta essenziale nel senso di impedire, anche sul piano logico ricostruttivo, la piena equiparazione tra situazioni radicalmente diverse. Ne consegue che, nell’ipotesi in cui non siano apprezzati elementi indicativi di tale partecipazione, individuabile nella collaborazione strutturale con il gruppo illecito, nella consapevolezza della funzione del proprio apporto stabile e riconoscibile dai consociati, la collaborazione occasionalmente prestata, pur nel previo riconoscimento della funzione della stessa ai fini del raggiungimento degli scopi propri del gruppo, per la mancanza di stabilità connessa alla natura di tale cooperazione, non può legittimare l’applicazione di presunzioni semplici, la cui valenza è radicata nelle caratteristiche del patto sociale, la cui ideale sottoscrizione, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, costituisce il substrato giustificativo (sul punto Corte costituzionale, 231/2010) che l’apporto occasionale non possiede per definizione. In tal caso l’accertamento di attualità dovrà logicamente essere ancorato a valutazioni specifiche sulla ripetitività dell’apporto, sulla permanenza di determinate condizioni di vita ed interessi in comune.” Inoltre, e ad integrazione del principio appena riassunto, va ricordato che, senza alcun dubbio, “Nel procedimento di prevenzione di appello, con riferimento alle misure personali “di prevenzione, la valutazione di attualità della pericolosità sociale del proposto deve essere riferita a quello di primo grado, ma la motivazione deve tenere conto dell’eventuale anomala distanza temporale tra i due gradi di giudizio e della datazione risalente dei fatti posti a fondamento dello stesso giudizio di pericolosità” (Sez. 5, 43405/2019).

Il giudizio sulla attuale pericolosità sociale è passaggio necessario anche ai fini dell’applicazione delle misure di prevenzione personali nei confronti degli «appartenenti ad associazioni di tipo mafioso». È possibile, tuttavia, là dove ricorra la figura prevista dall’art. 4, comma 1 lett. a), valorizzare, a certe condizioni, anche la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, purché la sua validità sia verificata alla luce degli specifici elementi di fatto desumibili dal caso concreto e la stessa non sia posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità. Ciò implica la necessità di una puntuale motivazione in punto di attualità della pericolosità sociale, quanto più gli elementi rivelatori dell’inserimento nel sodalizio siano lontani nel tempo rispetto al momento del giudizio. In questa logica occorre in primo luogo un’appartenenza che si traduca in una forma di partecipazione, intesa come stabile compenetrazione nella struttura associativa, compenetrazione in discussione già al cospetto delle forme di cd. concorso esterno. Interventi rilevanti erano stati già quelli che, in diverse occasioni, aveva avuto modo di esprimere la Corte costituzionale (sentenza 291/2013, in tema di misure di prevenzione, sia la decisione in tema delle esigenze cautelari e del regime di presunzioni previste dall’art. 275, comma 3, CPP). Occorre, dunque, una ripetitività del contributo con permanenza di determinate condizioni di vita e di interessi in comune. Né, a fronte della condotta di partecipazione, il richiamo a forme di presunzione semplice può costituire l’unico dato fondante l’accertamento dell’attualità della pericolosità, dovendosi selezionare elementi di fatto che ne convalidino la sussistenza e, soprattutto, fondino la valenza strutturale del rapporto tra singolo e gruppo. In questa logica anche il decorso di un rilevante arco temporale, in difetto di ogni elemento di segno contrario o il mutamento delle condizioni di vita del singolo, possono risultare elementi o indicatori che rendono incompatibile una conclusione di persistenza del vincolo stesso, da cui inferire l’attualità del profilo di pericolosità personale. Ciò per evitare automatismi applicativi essendo le stesse misure caratterizzate da evidenti profili di afflittività e dovendo esse essere conformi a regole di tassatività tipizzazione irrinunciabili (Sez. 1, 24658/2019).

Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di appartenenti ad associazione di tipo mafioso, non è necessaria alcuna particolare motivazione in ordine all’attualità della pericolosità, una volta che l’appartenenza risulti adeguatamente dimostrata e non sussistano elementi dai quali desumere che essa sia venuta meno per effetto del recesso personale ovvero della disintegrazione del sodalizio stesso, tuttavia, la presunzione della pericolosità non è assoluta ed è destinata ad attenuarsi, facendo risorgere la necessità di una specifica motivazione, quando più gli elementi rilevatori dell’inserimento nel sodalizio siano lontani nel tempo rispetto al momento del giudizio (Sez. 6, 33923/2017).

Ai fini dell’applicazione di misure di prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, è necessario accertare il requisito della attualità della pericolosità del proposto. Solo nel caso in cui sussistano elementi sintomatici di una partecipazione del proposto al sodalizio mafioso, è possibile applicare la presunzione semplice relativa alla stabilità del vincolo associativo, che tuttavia non può essere posta quale unico fondamento dell’accertamento di attualità della pericolosità. Il decorso del tempo, quando assume dimensione notevole, e un eventuale mutamento delle condizioni di vita, tale da renderle incompatibili con la persistenza del vincolo associativo, sono altresì dati con i quali occorre che il giudice della prevenzione si confronti al fine della valutazione di persistente pericolosità (Sez. 5, 11437/2021)

Finalità di terrorismo

La condotta consistita nella condivisione e postazione sul profilo “Facebook” di una serie di dati, lungi dal rappresentare l’esercizio del fondamentale diritto della libertà di manifestazione del pensiero, sia riconducibile alla previsione di cui all’art. 4, lett. d), sub specie di atti preparatori, obiettivamente rilevanti, diretti alla commissione di reati, con finalità di terrorismo internazionale, risolvendosi essi, complessivamente valutati, in una vera e propria apologia del terrorismo internazionale, nella forma assunta attraverso le attività dell’organizzazione terroristica nota come “ISIS” o “DAESH”, di cui egli ha esaltato le gesta, al punto tale da dimostrare di essere pronto a seguirne gli insegnamenti.

Tale condotta va qualificata in termini di elevata pericolosità sociale il proposto, posto che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità in un condivisibile arresto, in tema di reato di apologia riguardante delitti di terrorismo, previsto dall’art. 414, comma 4, CP, il pericolo concreto, derivante dalla condotta dell’agente di consumazione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal reato esaltato, può concernere non solo la commissione di specifici atti di terrorismo ma anche la adesione di taluno ad un’associazione terroristica (Sez. 5, 13422/2018).

 

Necessità della constatazione della categoria della pericolosità contestata

Anche dopo l’entrata in vigore del D. Lgs. 159/2011, l’invito a comparire deve contenere, a pena di nullità, l’indicazione della misura di cui si chiede l’applicazione e della forma di pericolosità. Tuttavia, questo non comporta necessariamente che, nell’invito a comparire, sia tassativamente imposta l’indicazione della categoria di appartenenza del proposto: ciò che è richiesto, infatti, è l’indicazione del tipo di pericolosità posto a fondamento della richiesta e degli elementi di fatto dai quali la si ritiene.

Si tratta, quindi, non tanto dì un requisito formale, ma sostanziale: cosicché, ad esempio, si è ritenuto che non si ha violazione del principio di correlazione tra contestazione e pronuncia qualora gli elementi fattuali posti a fondamento della prognosi di pericolosità, pur non essendo stati espressamente enunciati nella proposta, siano stati acquisiti nel contraddittorio con l’interessato; e nemmeno se, proposta l’applicazione di una misura di prevenzione con riferimento alla pericolosità sociale qualificata dagli indizi di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il provvedimento applicativo della misura risulti fondato sulla pericolosità generica del soggetto con riferimento a elementi di fatto sui quali l’interessato abbia avuto modo di difendersi (Sez. 1, 12174/2019).

 

Linee guida, circolari e prassi

Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, “Nuova disciplina delle misure di prevenzione: problematiche organizzative e operative”, nota n. 6815 del 10 novembre 2017, reperibile al seguente link: http://www.procura.bologna.giustizia.it/allegatinews/A_16709.pdf

Procura della Repubblica presso il tribunale di Torino, “Quinta lettera di prevenzione”, novembre 2018, reperibile al seguente link: http://www.osservatoriomisurediprevenzione.it/prassi–e–documenti/