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Art. 598 - Estensione delle norme sul giudizio di primo grado al giudizio di appello

1.In grado di appello si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni relative al giudizio di primo grado, salvo quanto previsto dagli articoli seguenti.

 

Rassegna giurisprudenziale

Estensione delle norme sul giudizio di primo grado al giudizio di appello (art. 598)

Nel giudizio di appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell'art. 469, in quanto il combinato disposto degli artt. 598, 599 e 601 non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, a tale disciplina, né la pronuncia predibattimentale può essere ammessa ai sensi dell'art. 129, poiché l'obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio (Sez. 4, 24904/2021).

Il procedimento relativo all’applicazione di misure cautelari a carico degli enti collettivi si fonda sulla previsione di un contraddittorio “anticipato” delle parti, poiché l’art. 47, comma 2, del D. Lgs. 231/2001 dispone che “se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’ente e ai difensori. L’ente e i difensori sono altresì avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli elementi sui quali la stessa si fonda”. L’adozione della misura, dunque, non è rimessa ad una decisione de plano, pronunciata dal giudice inaudita altera parte, ma si fonda sulla valorizzazione del contributo dialettico offerto dalle parti quale strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che può avere conseguenze particolarmente invasive sulla vita e sulle modalità di funzionamento della persona giuridica. Si richiede, in tal modo, un vaglio giurisdizionale penetrante sulle ragioni dell’intervento cautelare a carico dell’ente, la cui oggettiva praticabilità può richiedere un’approfondita analisi in ordine ad una serie di profili rilevanti, che investono, ad es., l’analisi dell’assetto organizzativo, la valutazione dell’adeguatezza del programma di attività riparatorie, ovvero la verifica della necessità di consentire la prosecuzione dell’attività dell’ente e disporre, in caso di accoglimento della richiesta, il commissariamento ai sensi dell’art. 45, comma 3, del citato decreto legislativo. Entro tale disegno normativo trova la sua razionale collocazione l’istanza – che la società può avanzare, per l’ipotesi in cui l’interdizione sia disposta, ai sensi dell’art. 49 – di sospensione della misura cautelare per porre in essere le attività riparatorie cui viene condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17. Se il giudice, infatti, ritiene di accogliere la richiesta dell’ente, determina una somma di denaro a titolo di cauzione e dispone la sospensione della misura, indicando il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui all’art. 17. La finalità dell’istituto è quella di incentivare il ravvedimento post factum dell’ente secondo una logica premiale che mira a privilegiare la compensazione dell’offesa rispetto alla mera punizione dell’illecito: se la società adempie tempestivamente ed in modo corretto, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell’ipoteca, mentre in caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata, o per la quale è stata data garanzia, viene devoluta alla cassa delle ammende (art. 49, comma 3). Se si realizzano le condizioni previste dall’art. 17 interviene la fattispecie estintiva della misura, sicchè il giudice ne dispone la revoca insieme alla restituzione della cauzione ovvero la cancellazione dell’ipoteca, mentre la fideiussione prestata si estingue. Nel momento in cui il giudice prende cognizione della vicenda per valutare la condotta dell’ente alla luce dei parametri dettati dall’art. 49, può disporre la revoca della misura cautelare anche a prescindere dalla valutazione positiva di idoneità e tempestività delle attività riparatorie, ogni qual volta ritenga siano venute meno, anche alla luce di fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità della cautela. L’art. 50, comma 1 consente, infatti, un’immediata decisione liberatoria, anche d’ufficio, nelle ipotesi in cui il quadro indiziario della responsabilità sia del tutto mancante, anche per fatti sopravvenuti, ovvero quando non risulti più attuale l’originaria individuazione delle esigenze cautelari, o, ancora, al verificarsi delle condizioni stabilite dall’art. 17. L’art. 49, comma 4, ripropone, a sua volta, all’interno del procedimento incidentale finalizzato alla sospensione della misura cautelare su richiesta dell’ente, la medesima regola fissata dalla norma generale dell’art. 50, comma 1, secondo cui s’impone la revoca della misura allorché intervengano gli adempimenti di cui al citato art. 17, ossia il risarcimento del danno, la messa a disposizione del profitto, l’adozione e l’efficace attuazione dei cd. compliance programsLa revoca, pertanto, può costituire il risultato di una valutazione ex ante, nel senso che il giudice ritenga insussistenti ab origine i presupposti legittimanti il provvedimento cautelare, ovvero ex post, nel caso in cui questi ultimi, ancorché sussistenti al momento della disposizione della cautela, siano successivamente venuti meno: interpretazione, questa, esplicitamente desumibile dal disposto normativo, ove si specifica che la mancanza delle condizioni applicative possa derivare anche da fatti sopravvenuti. In tal senso, ad es., assumono rilievo una eventuale evoluzione del quadro probatorio in senso favorevole all’indagato, oppure un miglioramento dello stato organizzativo aziendale, suscettibile di escludere la permanenza del periculum. Quest’ultimo profilo risulta solo in parte assorbito dalla seconda condizione legittimante un provvedimento di revoca, ovvero dall’adempimento delle condotte di cui all’art. 17: nonostante lo stretto collegamento con l’art. 49, infatti, la revoca disciplinata nell’art. 50, comma 1, rappresenta un istituto a sé, operante anche in conseguenza dell’adempimento delle condotte riparatorie prescritte dall’art. 17, avuto riguardo al fatto che le stesse possono maturare durante tutto il periodo di applicazione della misura, anche a prescindere dalla richiesta di sospensione formulata ai sensi dell’art. 49, comma 1.  Si pone, dunque, la questione del rapporto – di concorrenza o di alternatività – fra le ipotesi di revoca delle misure cautelari applicate agli enti collettivi cui fa riferimento l’art. 50: da un lato, la revoca per mancanza, anche sopravvenuta, delle condizioni di applicabilità di cui all’art. 45, dall’altro lato la revoca disposta in presenza delle condizioni disciplinate dal combinato disposto degli artt. 17 e 49 (sospensione delle misure cautelari su richiesta dell’ente di realizzare gli adempimenti di tipo riparatorio cui può essere condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17, con la successiva revoca della misura cautelare, in presenza dell’accertata verificazione della condizione sospensiva). Non pertinente, in primo luogo, deve ritenersi il richiamo ad un precedente giurisprudenziale di questa Corte (Sez. 6, 32627/2006), che ha ravvisato l’interesse dell’ente ad impugnare l’ordinanza con la quale era stata applicata nei suoi confronti la misura cautelare interdittiva di cui all’art. 45, ancorché la stessa fosse stata revocata nelle more del procedimento di impugnazione. Con tale pronuncia, infatti, questa Corte ha affermato che non è consentito al giudice, nel revocare la misura cautelare interdittiva, imporre all’ente l’adozione coattiva di modelli organizzativi. Dall’annullamento dell’ordinanza, invero, poteva derivare, quale sua diretta conseguenza, l’immediata inefficacia degli adempimenti coattivamente imposti con il provvedimento di revoca. Nella specifica evenienza ivi esaminata, infatti, il giudice non si era limitato a revocare la misura cautelare interdittiva, ma aveva “ordinato” alla società di adottare i modelli organizzativi predisposti dal commissario giudiziario e di risarcire il danno arrecato alle pubbliche amministrazioni appaltanti, con la restituzione del profitto illecito, dando incarico al commissario di accertare l’avvenuta ed effettiva adozione dei modelli organizzativi. Nel caso ora menzionato, dunque, il giudice cautelare aveva sostanzialmente imposto l’adozione di un modello organizzativo alla società, secondo una procedura che, come evidenziato dalla Corte, non trova appiglio nella normativa in materia di responsabilità degli enti collettivi, ove non si prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare, nella fase cautelare, la sospensione o la non applicazione delle misure interdittive (ex art. 49). Da tale precedente, pertanto, non può logicamente inferirsi la conseguenza che il ricorrente prospetta riguardo alla permanenza dell’interesse all’impugnazione qualora la misura cautelare interdittiva sia stata revocata nelle more del relativo procedimento, così imponendosi la forma del contraddittorio camerale partecipato, ostativa all’operatività della disposizione di cui all’art. 127, comma 9. Dal tenore letterale dell’art. 50 sembra evincersi, di contro, che il legislatore ha inteso porre in alternativa, quali fattori di revoca della misura cautelare applicata, l’effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza sopravvenuta delle condizioni indicate dal precedente art. 45, tra le quali è compreso anche il rischio di recidiva. Muovendo da tale opzione ermeneutica (Sez. 6, 18635/2015) questa Corte ha conseguentemente affermato il principio secondo cui la revoca della misura interdittiva può essere disposta, nel caso di sospensione della misura cautelare concessa ai sensi dell’art. 49, anche qualora il rischio di recidiva cessi per fattori sopravvenuti e diversi dall’attuazione delle misure riparatorie volte all’eliminazione delle carenze organizzative. L’alternatività delle ipotesi di revoca previste dall’art. 50 potrebbe indurre a ritenere, unitamente al rilievo dell’effetto immediato della vicenda estintiva della cautela, che il provvedimento debba adottarsi de plano, risultando difficile configurare, prima facie, un contraddittorio orale anticipato alla stregua di quanto previsto dall’art. 47 in sede di applicazione della misura. È pur vero, tuttavia, che il vaglio delibativo in ordine alla ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 17 potrebbe esigere una puntuale verifica circa l’effettivo adempimento delle condotte riparatorie da parte dell’ente e che il giudice, attraverso il richiamo alla possibilità prevista nell’ordinamento processuale dall’art. 299, comma 4-ter – ove tale norma sia ritenuta compatibile con la disciplina degli enti collettivi ai sensi dell’art. 34 – potrebbe disporre tutti gli accertamenti necessari al fine di valutare il rispetto delle condizioni sottostanti alla realizzazione delle condotte di cui all’art. 17. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi, infatti, che il procedimento di applicazione delle misure cautelari a carico degli enti collettivi mostra connotati tipicamente “dialogici” e si fonda sulla esigenza di un contraddittorio anticipato rispetto all’adozione della cautela, senza alcuna manifestazione di rinuncia preventiva dell’ente alla contestazione dei presupposti di legittimità della misura nel caso in cui venga avanzata la richiesta di realizzazione degli adempimenti riparatori al cui perfezionamento la legge condiziona l’esclusione delle sanzioni interdittive. In tal senso, dunque, potrebbe ritenersi la permanenza dell’interesse ad impugnare, al fine di ottenere una decisione sulla legittimità della misura interdittiva anche in presenza della sua intervenuta revoca, allorché ad una eventuale pronuncia in sede di gravame possa ricollegarsi, come si è già osservato, una situazione di vantaggio, ovvero una concreta ed attuale incidenza sulla posizione complessiva del ricorrente, con effetti significativi, ad es., sul mantenimento o meno di cauzioni provvisorie prestate a mezzo di fideiussioni per la partecipazione a gare d’appalto, sulla eventuale restituzione di cospicue somme di denaro già versate per ottenere la sospensione della misura interdittiva, ovvero per dimostrare l’insussistenza del profitto, o, infine, sulla rimozione di tutte le possibili conseguenze dannose derivanti per la società dall’applicazione della cautela. Il sopravvenire della fattispecie estintiva della misura cautelare potrebbe richiedere inoltre, quale causa non originaria di inammissibilità del ricorso, lo svolgimento di una puntuale opera di verifica in ordine alla realizzazione delle condizioni previste dalla connessa disposizione di cui all’art. 17, sì da imporre un approfondito accertamento sulla persistenza o meno dell’interesse ad impugnare, che solo un contraddittorio camerale in forma partecipata consentirebbe di realizzare nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie della difesa. Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, dunque, in ragione del contrasto giurisprudenziale formatosi riguardo alle forme procedimentali prodromiche alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, la rimessione degli atti alle Sezioni unite di questa Corte ai sensi dell’art. 618, in relazione al seguente quesito: «se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura cautelare - nella specie, una misura interdittiva disposta a carico di una società - possa essere dichiarato inammissibile “anche senza formalità”, ex art. 127, comma 9, dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa» (ordinanza di rimessione alle SU emessa da Sez. 6, 26032/2018).

Il predetto conflitto è stato risolto dalle Sezioni unite le quali hanno osservato che l’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 D. Lgs. 231/2001 poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, cod. proc. pen., ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio tra le parti, previamente avvisateDifatti, la revoca della misura interdittiva disposta a seguito delle condotte riparatorie poste in essere ex art. 17 D. Lgs. 231/2001, intervenuta nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata, non determina autonomamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione (SU, 51515/2018).

Nel giudizio d’appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell’art. 469, in quanto il combinato disposto degli artt. 598, 599 e 601 non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, a tale disciplina, né la pronuncia predibattimentale può essere ammessa ai sensi dell’art. 129, poiché l’obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio (SU, 28954/2017).

La sentenza predibattimentale di appello, di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione, emessa de plano, è viziata da nullità assoluta ed insanabile, ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. b) e c), 179, comma 1 (SU, 3027/2002 e, più di recente, Sez. 6, 50013/2015).

Nell’ipotesi di sentenza d’appello pronunciata “de plano” in violazione del contradditorio tra le parti, che, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, dichiari l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2 (SU, 28954/2017).

Il giudice di appello, nel caso in cui dichiari non doversi procedere per intervenuta prescrizione non può sottrarsi alla verifica della responsabilità dell’imputato per poter decidere sugli effetti dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Ove ometta di motivare in ordine alla responsabilità dell’imputato ai fini delle statuizioni civili, si impone l’annullamento della sentenza agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a norma dell’art. 622 (Sez. 6, 44685/2015).

È illegittima la decisione del giudice di appello che rigetti l’eccezione di nullità del giudizio in ragione dell’anticipazione dell’udienza di discussione senza alcun avviso agli imputati che non poterono parteciparvi, in quanto l’ordinanza di anticipazione dell’udienza adottata fuori udienza, a differenza di quella adottata nel corso dell’udienza e comunicata oralmente ex art. 477, deve essere ex art. 465 notificata a tutti gli imputati, oltre che ai difensori e l’omissione di tale incombente comporta la nullità del giudizio, nella specie d’appello (Sez. 5, 7943/2007).

La mancata notifica all’imputato assente (ovvero, in precedenza, anche contumace) del verbale contenente la contestazione “suppletiva” della recidiva, dà luogo ad una nullità “intermedia” che può pertanto essere validamente ed efficacemente sollevata con l’atto di impugnazione della sentenza che ha definito il relativo grado di giudizio (Sez. 2, 25728/2011).

L’articolo 9 della L. 67/2014, che ha novellato gli artt. 420-bis, 420-quater e 420-quinquies, introducendo la nuova disciplina del procedimento in assenza dell’imputato, in sostituzione di quella precedente del procedimento in contumacia, riguarda l’udienza preliminare e, per effetto dei rinvii operati dagli artt. 484, comma 2-bis, e 598, si estende ai giudizi di primo grado e di appello (Sez. 4, 22823/2018).

Non viola il principio devolutivo né il divieto di “reformatio in peius” la sentenza di appello che accolga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante (SU, 53153/2016).

Correttamente la possibilità di pronunciare una condanna al pagamento di una provvisionale, in assenza di richiesta della parte civile, è stata esclusa anche per il giudice di appello, posto che l’art. 598 stabilisce che in grado di appello si osservano in quanto applicabili le disposizioni relative al giudizio di primo grado, tra le quali è ricompresa la disciplina dell’art. 539; la condanna al pagamento di una provvisionale può essere pronunciata, ai sensi dell’art. 539 comma 2, soltanto a fronte di una richiesta proposta dalla parte civile, posto che la vigente legge processuale non prevede, al riguardo, poteri esercitabili ex officio (SU, 53153/2016).

L’art. 134 Att. prevede espressamente: «La sentenza, emessa nel giudizio abbreviato, è notificata per estratto all’imputato non comparso, unitamente all’avviso di deposito». Tale disposizione è applicabile anche alla sentenza emessa nel giudizio abbreviato in grado di appello.

Da un lato, infatti, l’art. 168 Att. dispone: «Nei giudizi di impugnazione si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni di attuazione relative al giudizio di primo grado». Dall’altro, la regola fissata dall’art. 134 Att. è tutt’altro che eccentrica rispetto al sistema: si consideri semplicemente che, in caso di giudizio ordinario, a norma dell’art. 548, la sentenza depositata fuori termine non deve essere notificata nemmeno per estratto alle parti private, e quindi anche all’imputato, ma è sufficiente la notificazione del solo avviso di deposito ad essa relativo (Sez. 6, 5221/2018).

In tema di celebrazione del giudizio abbreviato, la disciplina normativa che limita la facoltà dell’imputato di richiedere la celebrazione dell’udienza in forma pubblica, al solo giudizio di primo grado e non anche a quello di appello è conforme all’art. 6 § 1 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, che ha ritenuto sussistente il contrasto solo in ipotesi di mancato riconoscimento di possibilità di sollecitare l’udienza pubblica in entrambi i gradi di giudizio (Sez. 1, 8163/2015).

Nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento del giudizio di primo grado nelle forme del rito abbreviato le parti non possono far valere un autonomo diritto alla rinnovazione dell’istruzione per l’assunzione di prove nuove sopravvenute o scoperte successivamente, spettando in ogni caso al giudice la valutazione se sia assolutamente necessaria la loro acquisizione (Sez. 1, 35846/2012).

Il giudice di appello può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto nel rispetto del principio del giusto processo previsto dall’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, anche senza disporre una rinnovazione totale o parziale dell’istruttoria dibattimentale, sempre che sia sufficientemente prevedibile la ridefinizione dell’accusa inizialmente formulata, che il condannato sia in condizione di far valere le proprie ragioni in merito alla nuova definizione giuridica del fatto e che questa non comporti una modifica “in peius” del trattamento sanzionatorio e del computo della prescrizione (Sez. 2, 38049/2014).

La pena non è il risultato di una sommatoria di elementi” neutri (cosicché, venuto meno uno di essi, l’equilibrio può essere ristabilito con una semplice operazione matematica), ma (è il risultato) della combinazione delle diverse componenti sanzionatorie (pena base, pena per i reati satellite, aumenti o diminuzioni di pena per circostanze aggravanti e attenuanti).

Di conseguenza, per giudicare di reformatio in peius occorre, in primo luogo, tener conto degli elementi che concorrono alla determinazione della pena, ma anche del rapporto in cui - per effetto dell’accoglimento del gravame - vengono a trovarsi tra loro, sicché solo allorché non muti la relazione tra gli stessi il giudice dell’appello è obbligato - per non incorrere nella violazione dell’art. 597 - a sussumere ogni elemento nella misura determinata dal primo giudice, ovvero a conservare il rapporto proporzionale tra gli elementi della pena (ove sia venuto meno, per effetto dell’impugnativa, uno di essi), mentre, in caso contrario, il giudice d’appello rimane libero di valutare le varie componenti secondo il suo prudente apprezzamento, purché, ovviamente, la pena complessivamente inflitta con la sentenza gravata non sia superiore a quella inflitta nei gradi precedenti (Sez. 5, 45346/2018).

Il giudice di appello, investito su impugnazione della sola parte civile della cognizione della sentenza di primo grado, ove l’imputato sia stato assolto, non può dichiarare estinto per prescrizione il reato, perché si tratta di una decisione legata ad un previo giudizio di colpevolezza, che si connota come un peggioramento della predetta pronuncia: peggioramento non consentito in mancanza di gravame del PM (Sez. 5, 45343/2018).

Il giudice di appello che pronunci assoluzione del reato più grave deve rideterminare la pena previa individuazione del reato più grave e nuovo giudizio sulla commisurazione della pena, con il limite che la nuova pena, nelle diverse componenti, non superi quella inflitta in primo grado. Inevitabilmente, la “nuova” pena base per il “nuovo” reato più grave potrà essere superiore al quantum di pena individuato dal primo giudice per quel reato, ritenuto “satellite”, e lo dovrà essere qualora il minimo edittale sia maggiore della pena-aumento inflitta in primo grado (Sez. 1, 43269/2018).

Il giudice d’appello può legittimamente riconoscere le attenuanti generiche anche “ex officio”, ma il mancato esercizio di tale potere, eccezionalmente riconosciuto dall’art. 597, comma 5, non è censurabile in cassazione, né è configurabile in proposito un obbligo di motivazione, in assenza di specifica richiesta nei motivi di appello, o nel corso del giudizio di secondo grado (Sez. 3, 45259/2018).

Il giudice di appello deve, sia pure sinteticamente, dare ragione del concreto esercizio, positivo o negativo, del potere-dovere, attribuitogli dall’art. 597, comma 5, di applicazione della sospensione condizionale della pena qualora ne ricorrano le condizioni di legge (Sez. 5, 2094/2010).

Sussiste quindi la legittimazione dell’imputato a ricorrere per cassazione, pur in assenza di specifica richiesta nel giudizio d’appello, non solo nel caso in cui il giudice dell’impugnazione, nell’espletare l’intervento officioso, sia incorso in violazione di legge, ma anche nell’ipotesi di mancato esercizio di tale potere-dovere, a condizione, tuttavia, che dal ricorrente siano indicati gli elementi di fatto in base ai quali il giudice avrebbe potuto ragionevolmente esercitarlo (Sez. 3, 47828/2017) (la riassunzione è dovuta a Sez. 6, 40262/2018).

È legittima la revoca della sospensione condizionale della pena in grado di appello, in presenza di cause ostative (Sez. 3, 56279/2017).

La riunione, in sede di giudizio d’appello, di più procedimenti di prime cure a carico dei medesimi imputati, non è sindacabile (Sez. 3 37378/2015).

Non è affetto da alcuna nullità il decreto di citazione per il giudizio di appello che contenga una enunciazione imprecisa e non chiara dei fatti o delle norme violate, atteso che l’art. 601, con riferimento ai requisiti dell’atto fa esclusivamente rinvio alle disposizioni di cui all’art. 429, comma primo lett. a), b) e g) (Sez. 6, 33034/2018).

Requisito di validità del decreto di citazione per il giudizio di appello è la indicazione del provvedimento impugnato, e non quella del dispositivo di esso. Non sussiste pertanto nullità del decreto qualora, per errore, sia stato trascritto un dispositivo non pertinente, sempre che da ciò non derivi una incertezza invincibile in ordine al processo da trattare (Sez. 5, 27464/2018).

Sono valide le notifiche effettuate all’imputato presso il difensore di fiducia dopo la prima eseguita personalmente, salvo espressa dichiarazione di non accettazione del difensore, non allegata nel caso di specie, o di dichiarazione o elezione di domicilio (SU, 58120/2017).

La nullità a regime intermedio determinata dalla notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto può ritenersi sanata avendo riguardo a circostanze obiettive di fatto da valutare secondo il parametro dell’esercizio effettivo del diritto di difesa (SU, 58120/2017).

L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma 1, lett. c) e 179, comma 1, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma 4 (SU, 24630/2015).

L’onere della prova dell’avvenuta elezione o dichiarazione di domicilio dell’imputato ai fini della non applicazione della regola “ordinaria” di cui all’art. 157, comma 8-bis, siccome fatto impeditivo di tale disciplina ordinaria, grava su chi lo deduce. La circostanza in questione, invero, costituisce fatto rilevante ai fini dell’applicazione di disposizioni di diritto processuale, e, quindi, a differenza dei fatti attinenti all’applicazione del diritto penale sostanziale, è soggetta all’ordinario regime dell’onere della prova, il quale incombe su chi afferma (Sez. 6, 29264/2018).

In tema di giudizio di appello, la violazione del termine a comparire di venti giorni stabilita dall’art. 601, comma 3 – che non può essere integrato da quello irritualmente concesso – non risolvendosi in una omessa citazione dell’imputato, costituisce una nullità a regime intermedio che risulta sanata nel caso in cui non sia eccepita entro i termini previsti dall’art. 180, richiamato dall’art. 182 (Sez. 2 30019/2014).

In senso contrario: L’inosservanza del termine di comparizione dell’imputato previsto dall’art. 601, comma 3, costituisce una ipotesi di nullità relativa che è sanata se non è eccepita nei termini di cui all’art. 181, comma 3, e precisamente dopo l’accertamento della costituzione delle parti (Sez. 6, 46789/2017).

L’art. 601, concernente gli atti preliminari al giudizio di appello, è disposizione di carattere generale e, pertanto, il termine dilatorio di venti giorni stabilito per la comparizione in giudizio (art. 601, comma 3) si applica anche al procedimento camerale regolato dal precedente art. 599, non essendo sufficiente a rendere applicabile il più breve termine di cui all’art. 127 stesso codice (dieci giorni) il richiamo alle forme previste da tale disposizione operato dal predetto art. 599 (Sez. 4, 9536/1993 e, più di recente, Sez. 6, 7425/2018).

In senso contrario: nel giudizio di appello in camera di consiglio si applica il più breve termine di comparizione (non inferiore a dieci giorni) previsto in via generale dall’art. 127 e non quello di cui all’art. 601, comma 3, dello stesso codice, essendo la camera di consiglio riservata ai giudizi di appello che non coinvolgono complesse questioni di fatto o di diritto (Sez. 6, 44413/2015).