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Art. 605 - Sentenza

1. Fuori dei casi previsti dall’articolo 604, il giudice di appello pronuncia sentenza con la quale conferma o riforma la sentenza appellata.

2. Le pronunce del giudice di appello sull’azione civile sono immediatamente esecutive.

3. Copia della sentenza di appello, con gli atti del procedimento, è trasmessa senza ritardo, a cura della cancelleria, al giudice di primo grado, quando questi è competente per l’esecuzione e non è stato proposto ricorso per cassazione.

 

 

Rassegna giurisprudenziale

Sentenza (art. 605)

In generale

Sebbene in linea di principio sia giustificato il procedimento di redazione della sentenza di appello nella forma per relationem con quella di primo grado, tuttavia il giudice del gravame deve dare dimostrazione di avere effettivamente verificato, alla luce dei motivi di ricorso devoluti alla sua cognizione, la tenuta della sentenza di primo grado, non potendo quello limitarsi a rivendicare la ineccepibilità logica e giuridica di essa, senza dare conto della disamina della sua resistenza ai motivi di appello formulati (Sez. 3, 5568/2022).

In tema di integrazione delle motivazioni tra le sentenze conformi di primo e di secondo grado, il giudice dell'appello può motivare per relazione se l'impugnazione si limita a riproporre questioni di fatto o di diritto già esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, mentre, qualora siano formulate censure specifiche o introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore, è affetta da vizio di motivazione la sentenza di appello che si limiti a respingere le deduzioni proposte con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici rispetto alle risultanze istruttorie: di fatto, deve considerarsi affetta da nullità per difetto di motivazione la sentenza di appello che, a fronte di motivi specifici di impugnazione con cui si propongono argomentate critiche alla ricostruzione del giudice di primo grado, si limiti a "ripetere" la motivazione di condanna senza rispondere a ciascuna delle contestazioni adeguatamente mosse dalla difesa con l'atto di appello (Sez. 3, 36767/2021).

Il giudice di appello che riformi totalmente la decisione posta al suo vaglio ha l'obbligo di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, non potendo egli limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perché preferibile a quella coltivata nel provvedimento impugnato; né può ritenersi assolto il correlativo obbligo motivazionale, laddove il giudice della riforma inserisca nella struttura argomentativa della decisione posta al suo vaglio, genericamente richiamata, delle mere notazioni critiche di dissenso, senza riesaminare, sia pure in sintesi, il materiale probatorio esaminato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo a quanto non sia condiviso, una nuova e compiuta struttura motivazionale (Sez. 6, 35586/2021).

A fronte di motivi di appello specifici e con i quali si propongono motivate argomentazioni critiche alla ricostruzione del giudice di primo grado in punto di affermazione di responsabilità, il giudice di appello non può limitarsi a “ripetere” la motivazione di condanna ma deve, pena il difetto di motivazione sul predetto punto, rispondere a ciascuna delle contestazioni adeguatamente mosse dalla difesa con l’atto di impugnazione. Tra specificità dei motivi di appello e specificità della motivazione di secondo grado vi è un evidente necessario parallelismo poiché alla adeguatezza dei primi a proporre censure alla sentenza di primo grado deve, necessariamente, corrispondere una motivata risposta da parte del giudice di appello che non può limitarsi a riprodurre le argomentazioni svolte dal giudice di primo grado e rispetto alle quali quelle critiche sono state svolte (Sez. 2, 14963/2020).

Riforma in appello di una sentenza di condanna

Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado. Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado (SU, 14800/2018).

In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello sia che riformi la decisione di condanna di primo grado, sia che riformi una decisione assolutoria, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (SU, 33748/2005).

 

Riforma in appello di una sentenza di assoluzione

La previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) CEDU implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del PM avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma 3, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado: principio, questo, valido anche in caso di riforma ai soli fini civili, come nel caso di specie; costituiscono prove decisive, ai fini in esame, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione (SU, 27620/2016).

Lo stesso principio è applicabile al caso in cui la Corte d’appello riformi la sentenza di assoluzione disposta all’esito del giudizio abbreviato non condizionato (SU, 18620/2017).

In senso contrario: il giudice di appello, qualora il primo grado si sia svolto con rito abbreviato non condizionato, non è tenuto alla rinnovazione dell’istruzione ai fini della riforma della sentenza di assoluzione (Sez. 3, 43242/2016).

Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio (Sez. 6, 52544/2016).

Si segnala la recentissima rimessione alle Sezioni unite della seguente questione: «se la dichiarazione resa dal perito o dal consulente tecnico costituisca o meno prova dichiarativa assimilabile a quella del testimone, rispetto alla quale, se decisiva, il giudice di appello avrebbe la necessità di procedere alla rinnovazione dibattimentale, nel caso di riforma della sentenza di assoluzione sulla base di un diverso apprezzamento di essa».

La necessità di un intervento delle Sezioni unite è nata dalla constatazione dell’esistenza di due contrastanti indirizzi.

Secondo il primo (Sez. 2, 34843/2015, Sez. 4, 6366/2017, Sez. 4, 9400/2017, Sez. 4, 14654/2018),  il giudice d’appello, qualora, ribaltando la pronuncia assolutoria di primo grado, intenda pervenire all’affermazione di responsabilità dell’imputato, non solo deve confutare specificamente i più rilevanti argomenti, sui quali era fondata la prima sentenza, ma deve anche provvedere, in ossequio al principio affermato dalla Corte EDU (sentenza del 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia), a rinnovare l’assunzione delle prove orali, ove il giudizio di condanna debba fondarsi su di un diverso apprezzamento dell’attendibilità delle relative fonti: la funzione svolta dal perito nel processo e l’acquisizione dei risultati a cui l’esperto è giunto nello svolgimento dell’incarico peritale – ossia l’esame in dibattimento secondo le disposizioni sull’esame dei testimoni – impongono che la rivalutazione della prova sia preceduta dal riascolto dello stesso. Il secondo indirizzo (Sez. 5, 1691/2017, Sez. 3, 57863/2017) ritiene invece che la prova scientifica non sia equiparabile a quella dichiarativa, sicché non sussisterebbe l’obbligo per il giudice di procedere alla rinnovazione dibattimentale in caso di overturning accusatorio; pur se il perito ed i consulenti tecnici, sentiti in dibattimento, assumono la veste di testimoni, la loro relazione forma parte integrante della deposizione; essi, inoltre, sono chiamati a formulare un parere tecnico rispetto al quale il giudice può discostarsi, purché argomenti congruamente la propria diversa opinione.

La loro posizione non è, quindi, totalmente assimilabile al concetto di “prova dichiarativa”, espresso nella sentenza Dasgupta (SU, 27620/2016), tanto è vero che nella motivazione delle Sezioni unite, laddove si elencano i casi in cui è necessaria la rinnovazione della prova dichiarativa, non si menzionano periti e consulenti (Sez. 2, 41737/2018).

Le Sezioni unite, in esito all’udienza del 18 gennaio 2019, hanno affermato il seguente principio di diritto: Il giudice di appello è tenuto a rinnovare l’istruzione dibattimentale procedendo all’esame del perito (o del consulente tecnico) se questi sia stato già esaminato e la sua dichiarazione sia ritenuta decisiva. Allo stato è stata diffusa solo l’informazione provvisoria.

Il giudice di appello che pronunci sentenza di assoluzione riformando quella di condanna di primo grado, ha l’obbligo di offrire una motivazione puntuale e adeguata, che contenga una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata, anche riassumendo, se necessario, la prova dichiarativa decisiva (SU, 14800/2018).

Il giudice di appello che, riformando integralmente la sentenza di condanna di primo grado, assolve l’imputato sulla base di una diversa valutazione del medesimo compendio probatorio, ha un dovere di motivazione “rafforzata”, consistente nell’obbligo di offrire un autonomo ragionamento che dia puntuale ragione delle difformi conclusioni assunte e che non si limiti ad una valutazione degli elementi di prova contrapposti, ma ne consideri anche il peso, inteso come capacità dimostrativa, degli stessi (Sez. 2, 1692/2019).

Assunta come dato normativo di riferimento la previsione contenuta nell’art.6, § 3, lett. d) CEDU, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU (nel cui ambito la decisione guida è costituita dalla sentenza Dan c. Moldavia del 5/11/2011) costituente parametro interpretativo delle norme processuali interne (SU, 27620/2016), la giurisprudenza di legittimità ha progressivamente affermato l’orientamento secondo cui il giudice di appello non può pervenire a condanna in riforma della sentenza assolutoria di primo grado basandosi esclusivamente, o in modo determinante, su una diversa valutazione delle fonti dichiarative delle quali non abbia proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, a una rinnovata assunzione di tali fonti.

Le Sezioni Unite hanno inoltre puntualizzato che gli stessi principi trovano applicazione nel caso di riforma della sentenza di proscioglimento di primo grado, ai fini delle statuizioni civili, sull’appello proposto dalla parte civile.

Tali principi sono stati poi ulteriormente ribaditi dalle Sezioni Unite (SU, 18620/2017, Patalano), che li hanno ritenuti applicabili anche nel caso in cui il giudizio di primo grado sia stato celebrato secondo il rito abbreviato, ravvisando il vizio di motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio «al di là di ogni ragionevole dubbio», di cui all’art. 533, comma 1, nella sentenza di appello che, su impugnazione del PM, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni. In relazione a tale orientamento occorre però mettere a fuoco il concetto di «prova decisiva».

La sentenza Dasgupta delle Sezioni Unite puntualizza che «devono ritenersi prove dichiarative decisive quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato o anche soltanto contribuito a determinare un esito liberatorio, e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complesso del materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee a incidere sull’esito del giudizio di appello, nell’alternativa proscioglimento-condanna» e che sono «parimenti decisive quelle prove dichiarative che, ritenute di scarso o nullo valore probatorio dal primo giudice, siano, nella prospettiva dell’appellante, rilevanti, da sole o insieme ad altri elementi di prova, ai fini dell’esito di condanna».

Sempre secondo le Sezioni Unite, non potrebbe invece ritenersi «decisivo» un apporto dichiarativo il cui valore probatorio, che, in sé considerato, non possa formare oggetto di diversificate valutazioni tra primo e secondo grado e si combini con fonti di prova di diversa natura non adeguatamente valorizzate o erroneamente considerate o addirittura pretermesse dal primo giudice, ricevendo soltanto da queste, nella valutazione del giudice di appello, un significato risolutivo ai fini dell’affermazione della responsabilità (Sez. 6, 47722/2015).

Neppure può ravvisarsi la necessità della rinnovazione della istruzione dibattimentale qualora della prova dichiarativa non si discuta il contenuto probatorio, ma la sua qualificazione giuridica, come nel caso di dichiarazioni ritenute dal primo giudice come necessitanti di riscontri ex art. 192, commi 3 e 4, e inquadrabili dall’appellante in una ipotesi di testimonianza pura (Sez. 3, 44006/2015).

Per contro, non rileva, ai fini della esclusione della doverosità della riassunzione della prova dichiarativa, che il contenuto di essa, come raccolto in primo grado, non presenti «ambiguità» o non necessiti di «chiarimenti» o «integrazioni», proprio in quanto una simile valutazione compiuta dal giudice di appello si fonderebbe non su un apprezzamento diretto della fonte dichiarativa ma sul resoconto documentale di quanto registrato in primo grado, e così verrebbe a riprodursi il vizio di un apprezzamento meramente cartolare degli elementi di prova su cui il giudice di appello è chiamato dall’appellante a trarre il convincimento di un esito di condanna.

Tale disciplina anteriore all’intervento legislativo, elaborata dall’orientamento interpretativo illustrato, attinente alla ammissibilità di un ribaltamento della sentenza assolutoria basata sulla rivalutazione di prove dichiarative decisive non oggetto di rinnovata assunzione da parte del giudice di appello, non ha subito una radicale modifica ad opera della L. 103/2017.

La nuova disciplina, per vero circoscritta all’impugnazione del PM e non riferibile all’impugnazione della parte civile, impone al giudice di secondo grado (con il ricorso al presente d’obbligo) la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel caso di appello del PM contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa.

Deve peraltro ritenersi che il legislatore si sia implicitamente riferito a prove decisive, sia perché la relazione illustrativa dichiara espressamente l’intento di conformare il nostro ordinamento processuale alla CEDU, così come interpretata dalla Corte EDU, sia perché il criterio ermeneutico del «legislatore consapevole» induce a presumere che la norma sia stata dettata nel solco dell’orientamento giurisprudenziale segnato dalla doppia recente pronuncia delle Sezioni Unite.

Per altro verso, la tesi che l’obbligo di rinnovazione operi già in sede di emissione dei provvedimenti istruttori e debba estendersi a tutte le prove dichiarative assunte in primo grado o, perlomeno, a tutte quelle poste a sostegno della decisione di primo grado e oggetto dell’appello della pubblica accusa, a prescindere dal carattere decisivo della prova e dalla struttura motivazionale della sentenza di secondo grado, non appare logica e persuasiva.

Essa, inoltre, si pone in linea di collisione con i principi di ragionevolezza e buona amministrazione (poiché vorrebbe imporre la rinnovazione di prove del tutto inutili ai fini della decisione) e con lo stesso principio di eguaglianza fra le parti processuali: infatti la giustificazione che presiede alla rinnovazione delle prove in caso di appello del PM avverso sentenza assolutoria di primo grado affonda le sue radici nell’esigenza di rafforzamento della sentenza di condanna, oltre ogni ragionevole dubbio, e non può quindi riguardare prove ininfluenti in tal prospettiva  (la ricostruzione sistematica si deve a Sez. F, 44301/2018).

Secondo gli orientamenti giurisprudenziali ormai costanti, il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio.

Si tratta di una regola generale, valevole tanto più in caso di affermazione di responsabilità penale, cui fa eccezione il principio secondo cui il giudice di appello che intenda procedere alla reformatio in peius di una sentenza assolutoria di primo grado, emessa all’esito di giudizio ordinario o abbreviato, deve procedere all’indispensabile rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale esclusivamente nel caso di valutazione “differente” della prova dichiarativa e non di mero “travisamento” di essa, caso quest’ultimo in cui si può pervenire al giudizio di colpevolezza senza necessità di rinnovazione della prova dichiarativa (Sez. 5, 50504/2018).