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Art. 604 - Questioni di nullità

1. Il giudice di appello, nei casi previsti dall’articolo 522, dichiara la nullità in tutto o in parte della sentenza appellata e dispone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado, quando vi è stata condanna per un atto diverso o applicazione di una circostanza aggravante per la quale la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato o di una circostanza aggravante ad effetto speciale, sempre che non vengano ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti.

2. Quando sono state ritenute prevalenti o equivalenti circostanze attenuanti o sono state applicate circostanze aggravanti diverse da quelle previste dal comma 1, il giudice di appello esclude le circostanze aggravanti, effettua, se occorre, un nuovo giudizio di comparazione e ridetermina la pena.

3. Quando vi è stata condanna per un reato concorrente o per un fatto nuovo, il giudice di appello dichiara nullo il relativo CAPO della sentenza ed elimina la pena corrispondente, disponendo che del provvedimento sia data notizia al pubblico ministero per le sue determinazioni.

4. Il giudice di appello, se accerta una delle nullità indicate nell’articolo 179, da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado, la dichiara con sentenza e rinvia gli atti al giudice che procedeva quando si è verificata la nullità. Nello stesso modo il giudice provvede se accerta una delle nullità indicate nell’articolo 180 che non sia stata sanata e da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado.

5. Se si tratta di altre nullità che non sono state sanate, il giudice di appello può ordinare la rinnovazione degli atti nulli o anche, dichiarata la nullità, decidere nel merito, qualora riconosca che l’atto non fornisce elementi necessari al giudizio.

5-bis. Nei casi in cui si sia proceduto in assenza dell’imputato, se vi è la prova che si sarebbe dovuto provvedere ai sensi dell’articolo 420-ter o dell’articolo 420-quater, il giudice di appello dichiara la nullità della sentenza e dispone il rinvio degli atti al giudice di primo grado. Il giudice di appello annulla altresì la sentenza e dispone la restituzione degli atti al giudice di primo grado qualora l’imputato provi che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo di primo grado. Si applica l’articolo 489, comma 2.

6. Quando il giudice di primo grado ha dichiarato che il reato è estinto o che l’azione penale non poteva essere iniziata o proseguita, il giudice di appello, se riconosce erronea tale dichiarazione, ordina, occorrendo, la rinnovazione del dibattimento e decide nel merito.

7. Quando il giudice di primo grado ha respinto la domanda di oblazione, il giudice di appello, se riconosce erronea tale decisione, accoglie la domanda e sospende il dibattimento fissando un termine massimo non superiore a dieci giorni per il pagamento delle somme dovute. Se il pagamento avviene nel termine, il giudice di appello pronuncia sentenza di proscioglimento.

8. Nei casi previsti dal comma 1, se annulla una sentenza della corte di assise o del tribunale collegiale, il giudice di appello dispone la trasmissione degli atti ad altra sezione della stessa corte o dello stesso tribunale ovvero, in mancanza, alla corte o al tribunale più vicini. Se annulla una sentenza del tribunale monocratico o di un giudice per le indagini preliminari, dispone la trasmissione degli atti al medesimo tribunale; tuttavia il giudice deve essere diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata.

Rassegna giurisprudenziale

Questioni di nullità (art. 604)

Nullità della sentenza per difetto di contestazione

Secondo ius receptum in tema di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e oggetto della statuizione di sentenza perché, vedendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione (SU, 16/1996, SU, 36551/2010, SU, 31617/2015).

Ne consegue che l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato: la nozione strutturale di “fatto” contenuta negli artt. 516 e ss. va coniugata, infatti, con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice) risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez. 21226/2017).

La contestazione non va peraltro riferita soltanto al capo di imputazione in senso stretto, ma anche a tutti quegli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l’imputato in condizione di conoscere in modo ampio l’addebito (Sez. 5, 51248/2014). Un conto è il “fatto diverso” (artt. 516 e 604 comma 1), altro conto è il “fatto nuovo” (artt. 518 e 604 comma 3).

Per “fatto nuovo” si intende un fatto ulteriore ed autonomo rispetto a quello contestato, ossia un episodio storico che non si sostituisce ad esso, ma che eventualmente vi si aggiunge, affiancandolo quale autonomo “thema decidendum”, trattandosi di un accadimento naturalisticamente e giuridicamente autonomo; per “fatto diverso”, invece, deve intendersi non solo un fatto che integri una imputazione diversa, restando esso invariato, ma anche un fatto che presenti connotati materiali difformi da quelli descritti nella contestazione originaria, rendendo necessaria una puntualizzazione nella ricostruzione degli elementi essenziali del reato (Sez. 6, 26284/2013) (ricognizione sistematica a cura di Sez. 5, 34483/2018).

L’eventuale diversa ricostruzione di alcuni degli accadimenti non determina la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza purché il fatto storico sia il medesimo rispetto a quello descritto nella imputazione. La modifica del fatto di rilievo, infatti, è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l’elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l’azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall’imputato per discolparsene.

Mentre, non si ha mutamento del fatto allorché il fatto tipico sia rimasto identico a quello contestato nei suoi elementi essenziali e sia stato connotato dallo stesso contesto referenziale e storico ed in un ambito in cui l’imputato ha potuto per intero spendere, senza alcuna menomazione del suo diritto di difesa, tutti gli interventi utili a sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi stimati nel loro insieme.

Altra cosa rispetto al mutamento del fatto, è, come nel caso di specie, la “riqualificazione giuridica” dello stesso, che si realizza attribuendo l’esatto nomen juris ad un episodio che rimane invariato nei suoi tratti caratterizzanti.

Lo jus variandi in punto di diritto è potere tipico del giudice che, in ogni fase e grado del procedimento, ha il potere dovere di attribuire al fatto per cui si procede l’esatta qualificazione giuridica, senza che ciò incida sull’autonomo potere – riservato in via esclusiva al pubblico ministero – di modificare il fatto contestato e di procedere alla nuova contestazione, quando esso risulti diverso da come è descritto nell’imputazione (Sez. 6, 28262/2017).

In tema di contestazione dell’accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all’indicazione delle norme di legge violate, per cui, ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità, salvo che non si traduca in una compressione dell’esercizio del diritto di difesa (Sez. 2, 36880/2018).

In base al sistema accolto dal codice di rito, la contestazione delle circostanze aggravanti è appannaggio esclusivo del PM, il quale, una volta instaurato il giudizio può provvedere ai sensi dell’art. 517, che l’autorizza appunto alle contestazioni suppletive.

A fronte della omessa contestazione di un’aggravante ad opera dell’organo dell’accusa, il giudice chiamato a decidere non ha invece alcun autonomo potere: né di ritenere in base agli atti esistente la circostanza non contestata, tanto essendogli impedito dall’art. 521, comma 1, e art. 522 comma 2, né di restituire gli atti al PM, ai sensi dell’art. 521, che riguarda soltanto la “diversità” del fatto (Sez. 5, 32682/2018).

La violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, si realizza e si manifesta solo attraverso un’alterazione radicale della fattispecie ritenuta in sentenza nel senso di una radicale trasformazione della fattispecie concreta rispetto a quella contestata. Solo qualora non si rivenga nella fattispecie ritenuta in sentenza un nucleo comune, identificativo della condotta capace di determinare uno stravolgimento dei termini dell’accusa, si determina la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza e la conseguente nullità della sentenza (Sez. 3, 39248/2018).

La mancanza di correlazione tra fatto enunciato nell’ordinanza di rinvio a giudizio, nella richiesta o nel decreto di citazione e fatto risultato nel dibattimento deve essere rilevata dal giudice di appello sia quando tale diversità non sia stata rilevata dal giudice di primo grado, sia quando la diversità del fatto risulti nel giudizio di appello.

Nell’ipotesi in cui il giudice di appello accerti che la regiudicanda è diversa da quella dedotta in accusa e che perciò essa esula dai suoi poteri di cognizione, in virtù degli artt. 477 e 519 ed in applicazione analogica dell’art. 522, comma 1, egli deve annullare la sentenza di primo grado ed ordinare la trasmissione degli atti al pubblico ministero con sentenza (Sez. 6, 34954/2018).

È insussistente la violazione del principio di correlazione, ex art. 521, qualora, ancorché non formalmente contestata nel capo di imputazione, sia ritenuta in sentenza l’ipotesi aggravata del reato di falso in atto pubblico, ex art. 476 comma 2 Cod. pen., purché la natura fidefacente dell’atto considerato falso sia stata chiaramente indicata “in fatto” ed emerga inequivocamente dalla tipologia dell’atto oggetto del falso (Sez. 5, 2712/2017).

L’omessa indicazione del capo di imputazione in merito alla finalità dell’azione delittuosa contestata - il fine di procurare a sé o ad altri un profitto- non ha alcuna rilevanza ai fini della dedotta nullità della sentenza ex art. 522, purché il fatto contestato sia individuato con estrema precisione, sicchè l’elemento del profitto sia ricavabile in via induttiva dal contesto.

Soddisfatte queste condizioni, nessuna violazione del diritto di difesa può dirsi avvenuta. In ogni caso, un’eventuale doglianza difensiva in merito al contenuto del capo di imputazione, riguardando la completezza della contestazione, deve essere eccepita in primo grado nell’ambito delle questioni preliminari e riproposta in appello, a pena di decadenza (Sez. 2, 16063/2018).

La diversità fra la data del fatto indicata nella imputazione e quella ritenuta nella sentenza di condanna non integra la nullità ai sensi dell’art. 522 qualora non abbia concretamente comportato una reale compromissione dei diritti difensivi (Sez. 2, 17879/2014).

In tema di reati colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell’evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un’ipotesi differente.

Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste. È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Sez. 4, 35666/2007).

In tema di reati colposi, non sussiste la violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità degli imputati per lesioni colpose conseguenti ad infortunio sul lavoro non solo per la contestata mancata dotazione di scarpe, caschi ed imbracature di protezione ma anche per l’omessa adeguata informazione e formazione dei lavoratori) (Sez. 4, 51516/2013).

La violazione del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza non sussiste se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (se si fa, in altre parole, riferimento alla colpa generica). È consentito, dunque, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa.

Non sussiste violazione del principio anzidetto neppure qualora, nel capo di imputazione, siano stati contestati, come nel caso di specie, elementi generici e specifici di colpa ed il giudice abbia affermato la responsabilità dell’imputato per un’ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata ma rientrante nella colpa generica.

Anche in tal caso, infatti, il riferimento alla colpa generica, anche se seguito dall’indicazione di un determinato e specifico profilo di colpa, pone in risalto che la contestazione riguarda la condotta dell’imputato globalmente considerata sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti del comportamento tenuto in occasione del fatto di cui è chiamato a rispondere, indipendentemente dalla specifica norma che si assume violata (Sez. 4, 38819/2008).

In tema di reati colposi può ritenersi violato il principio di correlazione tra accusa e sentenza solo quando la causazione dell’evento venga contestata in riferimento ad una singola specifica ipotesi colposa e la responsabilità venga invece affermata in riferimento ad un’ipotesi differente.

Se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa (e cioè si faccia riferimento alla colpa generica), la violazione suddetta non sussiste.

È consentito, infatti, al giudice aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e quindi non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa, a tutela del quale la normativa è dettata (Sez. 4, 35666/2007).

Nella giurisprudenza di legittimità è del tutto consolidata una interpretazione teleologica del principio di correlazione tra accusa e sentenza (art. 521), per la quale questo non impone una conformità formale tra i termini in comparazione ma implica la necessità che il diritto di difesa dell’imputato abbia avuto modo di dispiegarsi effettivamente, risultando quindi preclusi dal divieto di immutazione quegli interventi sull’addebito che gli attribuiscano contenuti in ordine ai quali le parti – e in particolare l’imputato – non abbiano avuto modo di dare vita al contraddittorio, anche solo dialettico.

Sia pure a mero titolo di esempio può citarsi la massima per la quale “ai fini della valutazione di corrispondenza tra pronuncia e contestazione di cui all’art. 521 deve tenersi conto non solo del fatto descritto in imputazione, ma anche di tutte le ulteriori risultanze probatorie portate a conoscenza dell’imputato e che hanno formato oggetto di sostanziale contestazione, sicché questi abbia avuto modo di esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione” (Sez. 6, 47527/2013).

Nella specifica materia dei reati colposi la concreta applicazione delle indicazioni giurisprudenziali incorre in alcune peculiari difficoltà, derivanti dal fatto che la condotta colposa - in specie omissiva e massimamente se commissiva mediante omissione - può essere identificata solo attraverso la integrazione del dato fattuale e di quello normativo, con un continuo trascorrere dal primo al secondo e viceversa.

Mentre nei reati dolosi – in specie commissivi – la condotta tipica risulta identificabile per la sua corrispondenza alla descrizione fattane dalla fattispecie incriminatrice (reati di pura condotta) o per la sua valenza eziologica (reati di evento), nei reati omissivi impropri colposi la condotta tipica può essere individuata solo a patto di identificare la norma dalla quale scaturisce l’obbligo di facere e la regola cautelare che avrebbe dovuto essere osservata.

Quest’ultima, in particolare, può rinvenirsi in leggi, ordini e discipline (colpa specifica), oppure in regole sociali generalmente osservate o prodotte da giudizi di prevedibilità ed evitabilità (colpa generica). Com’è evidente, l’una e l’altra operazione sono fortemente tributarie della precisa identificazione del quadro fattuale determinatosi e nel quale si è trovato inserito l’agente/omittente; tanto che una modifica anche marginale dello scenario fattuale può importare lo stravolgimento del quadro nomologico da considerare.

Di qui il ricorrente richiamo da parte della giurisprudenza di legittimità alla necessità di tener conto della complessiva condotta addebitata come colposa e di quanto è emerso dagli atti processuali; ove risulti corrispondenza tra tali termini, al giudice è consentito di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, perché sostanzialmente non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, 51516/2013).

L’accento posto sul concreto svolgimento del giudizio marginalizza  nella ricerca di criteri guida nella verifica del rispetto del principio di correlazione  un approccio fondato sulla tipologia dell’intervento dispiegato dal giudice (ad esempio, quello che si rifà alla presenza di una contestazione di colpa generica per affermare l’ammissibilità di una dichiarazione di responsabilità a titolo di colpa specifica).

Si può aggiungere, in questa sede, che la centralità della proiezione teleologica del principio in parola conduce a ritenere che, ai fini della verifica del rispetto da parte del giudice del principio di correlazione tra l’accusa e la sentenza, è decisivo che la ricostruzione fatta propria dal giudice sia annoverabile tra le (solitamente) molteplici narrazioni emerse sul proscenio processuale (ferma restando l’estraneità al tema in esame della qualificazione giuridica del fatto).

La principale implicazione di tale assunto è che, dando conto del proprio giudizio con la motivazione, il giudice è chiamato ad esplicare i dati processuali che manifestano la presenza della “narrazione” prescelta tra quelle con le quali si sono confrontate le parti, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente (Sez. 4, 35943/2014).

Il riconoscimento di una circostanza aggravante che non poteva essere oggetto di contestazione suppletiva determina, in applicazione dei principi desumibili dall’art. 522, comma 1, la parziale nullità della sentenza di condanna (Sez. 4, 45535/2013).

La circostanza che, pur a fronte di un formale richiamo nella contestazione alle operazioni oggettivamente inesistenti, la condotta ascritta all’imputate si sia in realtà sostanziata nel compimento di operazioni soggettivamente inesistenti, non costituisce di per sé una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, dovendosi tener conto sia del tenore dell’imputazione, che ha fornito una minuziosa descrizione dei singoli fatti addebitati, peraltro adeguatamente collocati nella loro dimensione spaziotemporale, sia della latitudine applicativa della norma incriminatrice, che attribuisce rilevanza penale al solo compimento di “operazioni inesistenti”, a prescindere dal fatto che lo siano oggettivamente o soggettivamente, sia infine della facilità per l’imputato di comprendere il significato esatto dell’accusa elevata a suo carico, e ciò anche alla luce della sua opzione di definire il processo a suo carico allo stato degli atti, avendo cioè piena cognizione delle risultanze investigative acquisite, idonee a circoscrivere la sfera di rilevanza del proprio comportamento illecito nell’ambito della specifica e unitaria fattispecie ascrittagli (Sez. 3, 30874/2018).

Il mutamento della veste giuridica, da amministratore di fatto a concorrente esterno nel delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione, del soggetto condannato, non implica alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, in quanto la sostanza degli addebiti mossi all’imputato in tali ipotesi in alcun modo cambia (Sez. 5, 18770/2015).

Il giudice d'appello, a cui sia devoluta esclusivamente la cognizione della nullità della sentenza del giudice monocratico del tutto priva di motivazione e composta soltanto del dispositivo letto in udienza, non può sostituirsi al primo giudice redigendo la motivazione del tutto omessa, dovendo trasmettere a quest'ultimo gli atti per non privare l'imputato di un grado del giudizio (Sez. 3, 34943/2020).

Nullità ex artt. 179 e 180

Il divieto di infliggere una pena più grave, di cui all’art. 597, comma 3, non opera nel nuovo giudizio conseguente all’annullamento della sentenza di primo grado – impugnata dal solo imputato – disposto dal giudice di appello o dalla Corte di cassazione per nullità dell’atto introduttivo ovvero per altra nullità assoluta o di carattere intermedio non sanata (nella specie si è ritenuto che il divieto di “reformatio in peius” non possa trovare applicazione a seguito dell’annullamento della precedente condanna ai sensi dell’art. 604, comma 4 (Sez. 3, 6710/2018).

Nel caso di rinuncia parziale ai motivi d’appello, il giudice, in riferimento ai capi della sentenza oggetto dei motivi rinunciati, non è tenuto a motivare eventuali cause di improcedibilità o nullità anche assolute, eccepite con l’impugnazione, né può a rilevarle d’ufficio (Sez. 5, 40278/2016).

L’accoglimento della dichiarazione di astensione del giudice comporta il divieto per il medesimo di compiere qualsiasi atto del procedimento, in quanto l’art. 42, comma 1, al fine di evitare ogni concreta influenza nel procedimento, lo priva del potere di esercitare qualunque potestà giurisdizionale, con la conseguenza che ogni sua decisione, quale che ne sia il contenuto, risulta inficiata dal vizio di capacità del giudice, integrante la nullità assoluta di ordine generale prevista dagli artt. 178, comma 1, lett. a) e 179, comma 1 (fattispecie in cui la Corte ha annullato la sentenza di appello emessa da collegio composto anche da un consigliere già autorizzato ad astenersi) (Sez. 6, 34560/2014).

 

Nullità attinenti all’assenza dell’imputato

La mera assenza di indicazione dei luoghi in cui le ricerche dell’imputato sono state effettuate non comporta l’insufficienza delle stesse se non si afferma, nel contempo, che il ricorrente avrebbe potuto essere reperito in uno dei luoghi che doveva essere a conoscenza di chi lo stava attivamente ricercando (Sez. 5, 47390/2017).

Sul piano generale, la nuova disciplina introdotta con la L. 67/2014 che ha ridisegnato i presupposti, in presenza dei quali, il processo può essere celebrato in assenza dell’imputato, prevede tre situazioni che possono presentarsi, in sede di udienza preliminare o dibattimentale, al momento della costituzione delle parti: 1) vi è la prova certa della conoscenza da parte dell’imputato della data della udienza e questi ha espressamente rinunciato a parteciparvi; 2) non vi è la prova certa della conoscenza dell’imputato della data della udienza, ma vi sono una serie di “fatti o atti” da cui far discendere, direttamente o indirettamente, la prova che l’imputato è a conoscenza della esistenza del procedimento penale nei suoi riguardi; 3) non vi è la prova certa della conoscenza da parte dell’imputato né della data dell’udienza, né della esistenza del procedimento penale.

Con riferimento alla situazione sub 1), ove si abbia la prova certa della conoscenza da parte dell’imputato della data della udienza e vi sia rinuncia ad assistervi, il processo potrà essere celebrato in assenza.

Quando, invece, in relazione alla situazione sub 2), si abbia la prova della sola conoscenza da parte dell’imputato della esistenza del procedimento penale, il novellato art. 420-bis, fa conseguire la possibilità di celebrare il processo in assenza, ma, al contempo, prevede rimedi restitutori ove si dimostri la incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo (art. 420-bis, comma 4).

Alla terza situazione consegue la sospensione del processo (art. 420-quater). In particolare, il processo deve essere celebrato in “assenza” se: 1) nel corso del procedimento l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio. 2) l’imputato sia stato, nell’ambito del procedimento, arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare. 3) se l’imputato abbia nominato un difensore di fiducia. 4) se risulti “comunque” con certezza che l’imputato sia a conoscenza del procedimento o che l’imputato si sia sottratto volontariamente alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo (Sez. 2, 36166/2017).

L’art. 15-bis della L. 67/2014 è intervenuto sulla disciplina del giudizio in absentia statuendo che le nuove disposizioni si applicano ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della citata legge 67 (17 maggio 2014) a condizione che nei medesimi procedimenti non sia stato pronunciato il dispositivo della sentenza di primo grado.

Lo stesso art. 15-bis prevede una deroga a tale regime transitorio laddove stabilisce che le disposizioni vigenti prima della data di entrata in vigore della citata L. 67/2014 continuano ad applicarsi ai procedimenti in corso a quella data quando l’imputato è stato dichiarato contumace e non è stato emesso il decreto di irreperibilità (Sez. 6, 50125/2016).

 

Nullità attinenti a pronunce di proscioglimento per estinzione del reato o improcedibilità dell’azione penale

Nel procedimento davanti al giudice di pace, l’art. 35, comma 1 del D.Lgs. 274/2000, nel correlare l’estinzione del reato alla valutazione di congruità del giudice, presuppone che siano state sentite le parti ma non che sia stato acquisito il consenso della persona offesa; con la conseguenza che è legittima la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno solo qualora, pur nel dichiarato dissenso della persona offesa per l’inadeguatezza della somma di denaro posta a sua disposizione dall’imputato quale risarcimento, il giudice esprima una “motivata valutazione di congruità” della stessa con riferimento alla soddisfazione tanto delle esigenze compensative quanto di quelle retributive e preventive.

Ove questa valutazione manchi, la sentenza deve essere annullata con rinvio (SU, 33864/2015).

In presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva.

Il disposto di cui all’art. 129, laddove impone di dichiarare la causa estintiva quando non risulti evidente che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso, ecc., deve coordinarsi con la presenza della parte civile e di una condanna in primo grado che impone ai sensi dell’art. 578 di pronunciarsi sulla azione civile; in tali ipotesi, la valutazione della regiudicanda non deve avvenire secondo i canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova della innocenza non risulti ictu oculi. La pronuncia ex art. 578 impone, cioè, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto il compendio probatorio, ai fini della responsabilità civile (SU, 35490/2009).

La sentenza di non luogo a procedere non acquisisce mai autorità di cosa giudicata e ha natura squisitamente processuale (Sez. 4, 47279/2017).

L’inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell’art. 129 (Sez. 7, 39653/2018).

In presenza di una causa estintiva del reato, l’obbligo del giudice di pronunciare l’assoluzione dell’imputato per motivi attinenti al merito si riscontra nel solo caso in cui gli elementi rilevatori dell’insussistenza del fatto, ovvero della sua non attribuibilità penale all’imputato, emergano in modo incontrovertibile, tanto che la relativa valutazione, da parte del giudice, sia assimilabile più al compimento di una ‘constatazione’, che a un atto di ‘apprezzamento’ e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.

E invero il concetto di ‘evidenza’, richiesto dal secondo comma dell’art. 129, presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara e obiettiva, da rendere superflua ogni dimostrazione, concretizzandosi così in qualcosa di più di quanto la legge richieda per l’assoluzione ampia, oltre la correlazione a un accertamento immediato.

Da ciò discende che, una volta sopraggiunta la prescrizione del reato, al fine di pervenire al proscioglimento nel merito dell’imputato occorre applicare il principio di diritto secondo cui ‘positivamente’ deve emergere dagli atti processuali, senza necessità di ulteriore accertamento, l’estraneità dell’imputato a quanto allo stesso contestato, e ciò nel senso che si evidenzi l’assoluta assenza della prova di colpevolezza di quello, ovvero la prova positiva della sua innocenza, non rilevando l’eventuale mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede il compimento di un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (Sez. 4, 34838/2018).

A seguito della reintroduzione del c.d. patteggiamento in appello ad opera dell’art. 1, comma 56, della L. 103/2017, il giudice di secondo grado, nell’accogliere la richiesta formulata a norma del nuovo art. 599-bis, non deve motivare sul mancato proscioglimento dell’imputato per una delle cause previste dall’art. 129 né sull’insussistenza di cause di nullità assoluta o di inutilizzabilità delle prove, in quanto, a causa dell’effetto devolutivo proprio dell’impugnazione, una volta che l’imputato abbia rinunciato ai motivi di appello, la cognizione del giudice è limitata ai motivi non oggetto di rinuncia (Sez. 2, 35480/2018).

La pronuncia di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato comporta la revoca delle statuizioni civili, con la conseguenza che dei fatti depenalizzati dovrà occuparsi in via esclusiva il giudice civile, e ciò non diversamente di quanto può avvenire a seguito del proscioglimento ex art. 529.

Posto che, a norma dell’art. 652, solo la pronuncia di una sentenza di assoluzione nel giudizio penale, ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, nel giudizio civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno promosso dal danneggiato, la pronuncia di non doversi procedere per difetto di querela non impedisce – come quella di assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato – alla già costituita parte civile di promuovere una controversia civilistica allo scopo di far accertare la natura di “illecito civile” del fatto (già integrante gli estremi del delitto di danneggiamento prima della depenalizzazione), con la conseguenza che il giudice civile, ove accolga la domanda di risarcimento del danno, può, a norma dell’art. 8 D. Lgs. 7/2017, parimenti applicare la sanzione civile pecuniaria. Il giudice civile, indipendentemente dal fatto che venga adito a seguito della definizione del giudizio di penale con la formula assolutoria “il fatto non è previsto dalla legge come” o con quella “non doversi procedere per difetto di valida querela”, può in entrambi i casi utilizzare gli elementi di prova acquisiti nel giudizio penale, che potrà liberamente valutare unitamente agli altri elementi di prova (SU, 46688/2016).

Il proscioglimento per mancanza di querela, è formula più favorevole rispetto alla declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione (Sez. 4, 4123/2018).

L’avvenuta espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, se provata in modo concreto ed affidabile, consente, ai sensi dell’art. 13, comma 3-quater, del D. Lgs. 286/1998, la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, a condizione, però, che non sia stato emesso decreto che dispone il giudizio o altro provvedimento equipollente (Sez. 4, 47279/2017).

La sentenza di proscioglimento predibattimentale di cui all’art. 469, può essere pronunciata solo nelle ipotesi ivi previste (mancanza di una condizione di procedibilità o proseguibilità dell’azione penale ovvero presenza di una causa di estinzione del reato) e sempre che le parti, interpellate in proposito, non si siano opposte, non potendo, in detta fase, trovare applicazione la disposizione dell’art. 129, da riferire esclusivamente al giudizio in senso tecnico.

Tale principio va affermato anche con riferimento alla nuova disposizione prevista dall’art. 469, comma 1-bis, introdotto dall’art. 3, comma 1, lett. a), D. Lgs. 28/2015, in quanto l’effetto della novella, sul punto, è stato quello di inserire tra le cause che legittimano il proscioglimento prima del dibattimento previste dal comma 1 del menzionato art. 469, la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis Cod. pen., che, dunque, il giudice procedente potrà applicare nella fase predibattimentale solo dopo avere messo il PM, l’imputato e la persona offesa, in condizione di esprimere le proprie osservazioni al riguardo e sempre che il PM e l’imputato non si oppongano, dovendosi altrimenti procedere al dibattimento (Sez. 3, 45941/2017).

Nel giudizio d’appello non è consentito pronunciare sentenza predibattimentale di proscioglimento ai sensi dell’art. 469, in quanto il combinato disposto degli artt. 598, 599 e 601 non effettua alcun rinvio, esplicito o implicito, a tale disciplina, né la pronuncia predibattimentale può essere ammessa ai sensi dell’art. 129, poiché l’obbligo del giudice di dichiarare immediatamente la sussistenza di una causa di non punibilità presuppone un esercizio della giurisdizione con effettiva pienezza del contraddittorio (SU, 28954/2017).

Nell’ipotesi di sentenza d’appello pronunciata de plano in violazione del contraddittorio tra le parti, che, in riforma della sentenza dì condanna di primo grado, dichiari l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di Cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2, (SU, 28954/2017).

La sentenza con cui il giudice di primo grado, dopo la costituzione delle parti e prima di dichiarare formalmente aperto il dibattimento, assolve, ai sensi dell’art. 129, l’imputato con la formula perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, ancorché pronunciata al di fuori dei casi previsti dall’art. 469, deve essere qualificata come sentenza predibattimentale, sicché, trattandosi di sentenza inappellabile, il suo annullamento con rinvio da parte della Corte di cassazione impone la trasmissione degli atti al giudice di primo grado (Sez. 6, 28151/2014).

 

Nullità attinenti al mancato accoglimento della domanda di oblazione

Ove l’imputato, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, abbia presentato istanza di oblazione subordinata ad una diversa e più favorevole qualificazione giuridica del fatto, dalla quale discenda la possibilità di essere ammesso all’oblazione stessa, il giudice, se effettivamente procede a tale modifica, deve attivare il meccanismo di cui all’art. 141 comma 4-bis Att. anche all’esito dell’istruttoria dibattimentale; nel caso in cui il giudice ometta di pronunciarsi sull’istanza o si pronunci applicando erroneamente la legge penale, tale omissione può essere fatta rilevare in appello, attraverso il meccanismo di cui all’art. 604, comma 7, ovvero, in caso di sentenza inappellabile, con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) (SU, 7645/2006).

Incombe sull’imputato che ritenga che il fatto possa essere diversamente qualificato in un reato che ammetta l’oblazione, l’onere di sollecitare il giudice alla riqualificazione del fatto e, contestualmente, a formulare istanza di oblazione, con la conseguenza che, in mancanza di tale espressa richiesta, il diritto a fruire dell’ oblazione stessa resta precluso ove il giudice provveda di ufficio ex art. 521, con la sentenza che definisce il giudizio, ad assegnare al fatto la diversa qualificazione che consentirebbe l’applicazione del beneficio (SU, 32351/2014).

Disposta la restituzione nel termine per appellare la sentenza contumaciale di primo grado, ai sensi dell’art. 175, comma 2, nel testo vigente prima della entrata in vigore della L. 67/2014, applicabile ai procedimenti in corso a norma dell’art. 15-bis della legge citata, l’imputato, il quale non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento, può chiedere al giudice di appello di essere ammesso a un rito alternativo (nella specie: giudizio abbreviato) (SU, 52274/2016).

 

Trasmissione degli atti a seguito della dichiarazione di nullità

La mancanza assoluta di motivazione della sentenza non rientra tra i casi, tassativamente previsti dall’art. 604, per i quali il giudice di appello deve dichiarare la nullità della sentenza appellata e trasmettere gli atti al giudice di primo grado, ben potendo lo stesso provvedere, in forza dei poteri di piena cognizione e valutazione del fatto, a redigere, anche integralmente, la motivazione mancante (SU, 3287/2009 e, più di recente, Sez. 6, 58094/2017).

In caso di difetto di motivazione della decisione di primo grado, il giudice di secondo grado non può dichiarare la nullità della prima pronuncia ma deve decidere, sanandone i difetti e le mancanze, in quanto la carenza di motivazione della sentenza di primo grado non integra uno dei casi di nullità del giudizio espressamente sanciti dall’art. 604 (Sez. 2, 19246/2017).

Non sono consentiti in sede di legittimità i ricorsi che propongono una rivalutazione degli elementi di prova acquisiti al giudizio, pervenendo a ricostruzioni alternative rispetto a quella fatta propria dalla decisione impugnata. Si tratta di rilievi non consentiti, non rappresentando taluno dei vizi di cui all’art. 606 ma piuttosto sollecitazioni affinché la Corte di Cassazione adotti la versione dei fatti auspicata dai ricorrenti.

Compito del giudice di legittimità non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della corte di merito; incompiutezza che derivi dalla presenza di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro ovvero dal non aver il decidente tenuto presente fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata, oppure dall’aver assunto dati inconciliabili con “atti del processo”, specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione (Sez. 4, 41348/2018).

La dichiarazione di nullità della costituzione di parte civile travolge, evidentemente, l’azione civile proposta e inserita nel processo penale, ma nessun riflesso deriva circa la legittimità del corso del giudizio, sicché è evidentemente insussistente il dovere della corte di dichiarare la nullità con rinvio degli atti al giudice di primo grado, ai sensi dell’art. 604 (norma che opera in relazione alle nullità ex art. 179 e 180 “da cui sia derivata la nullità del provvedimento che dispone il giudizio o della sentenza di primo grado” (Sez. 7, 31096/2018).