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Art. 606 - Casi di ricorso

1. Il ricorso per cassazione può essere proposto per i seguenti motivi:

a) esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentita ai pubblici poteri;

b) inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale;

c) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza;

d) mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’articolo 495, comma 2;

e) mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame.

2. Il ricorso, oltre che nei casi e con gli effetti determinati da particolari disposizioni, può essere proposto contro le sentenze pronunciate in grado di appello o inappellabili.

2-bis. Contro le sentenze di appello pronunciate per reati di competenza del giudice di pace, il ricorso può essere proposto soltanto per i motivi di cui al comma 1, lettere a), b) e c).

3. Il ricorso è inammissibile se è proposto per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati ovvero, fuori dei casi previsti dagli articoli 569 e 609 comma 2, per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello.

Rassegna giurisprudenziale

Casi di ricorso (art. 606)

Esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero non consentiti ai pubblici poteri

Il giudice dell’esecuzione, a cui sia richiesto di revocare l’ordine di demolizione di manufatto abusivo in ragione di sopravvenuto provvedimento di condono, ha il potere di sindacare detto atto concessorio, disapplicandolo soltanto ove lo stesso sia stato emesso in assenza delle condizioni formali e sostanziali di legge previste per la sua esistenza e non anche nell’ipotesi di mancato rispetto delle norme che, regolando l’esercizio del potere amministrativo, determinano solo invalidità. Questo legittimo sindacato del giudice penale non comporta l’esercizio di una potestà riservata a un organo amministrativo, posto che il giudice dell’esecuzione deve valutare l’atto di concessione e, dove, alla luce di elementi certi, lo ritenga illegittimo, in quanto emesso in assenza delle condizioni formali e sostanziali previsti della legge per la sua esistenza, è tenuto a disapplicarlo (Sez. 3, 23567/2108).

Un’interpretazione convenzionalmente conforme, cui il giudice nazionale è tenuto, dell’articolo 44, comma 2 DPR 380/2001 implica che, in presenza di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca urbanistica, il giudice del dibattimento, qualora maturi una causa di estinzione del reato (nel caso di specie, prescrizione), non ha l’obbligo di immediata declaratoria della causa di non punibilità ex articolo 129. Ulteriore conseguenza è che il giudice del dibattimento può disporre la confisca urbanistica, anche in assenza di una sentenza di condanna ma in presenza del necessario accertamento del reato nelle sue componenti oggettive e soggettive, assicurando alla difesa il più ampio diritto alla prova e al contraddittorio e, a tal fine, deve, pur in presenza di una sopravvenuta causa di estinzione del reato (nel caso di specie, prescrizione), proseguire nell’istruttoria dibattimentale, differendo, se del caso, la declaratoria di estinzione del reato all’esito del giudizio e disponendo la confisca urbanistica a condizione che sia accertato il fatto reato, cioè la lottizzazione abusiva, in tutte le sue componenti oggettive e di imputazione soggettiva almeno colpevole. Non è pertanto assolutamente predicabile un difetto di giurisdizione del giudice penale allorquando, esercitata l’azione penale e sopravvenuta una causa di estinzione del reato, venga disposta, accertata la lottizzazione in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi, la confisca nel corso di un procedimento penale, essendo la legge stessa, ai sensi del citato art. 44, ad attribuire al giudice il potere-dovere di pronunciarsi sull’applicazione della misura ablativaTale esegesi deve inoltre ritenersi anche costituzionalmente conforme perché in linea con le pronunce della Consulta (Corte costituzionale, sentenza 49/2015 e ordinanza 187/2015), la quale ha affermato che la sentenza della Corte EDU nel caso Varvara può essere letta nel senso che la confisca urbanistica non esige una sentenza di condanna da parte del giudice penale, posto che il rispetto delle garanzie previste dalla CEDU richiede solo un pieno accertamento della responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa, con la conseguenza che i canoni dell’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme devono orientare il giudice comune ad escludere che la condanna penale costituisca presupposto esclusivo per disporre la confisca urbanistica, non potendosi esigere la condanna penale per l’applicazione di una sanzione di carattere amministrativo (quale è, secondo la giurisprudenza costante, la confisca di una lottizzazione abusiva), per quanto assistita dalle garanzie della “pena” ai sensi dell’art. 7 della CEDU, determinandosi altrimenti l’integrale assorbimento della misura nell’ambito del diritto penale e rappresentando una soluzione di dubbia compatibilità con il «principio di sussidiarietà, per il quale la criminalizzazione, costituendo l’ultima ratio, deve intervenire soltanto allorché, da parte degli altri rami dell’ordinamento, non venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (Corte costituzionale, sentenza 487/1989; in seguito, sentenza 49/2015). Il giudice delle leggi ha poi considerato che, ai fini dell’osservanza della CEDU, rileva non la forma della pronuncia con cui è applicata una misura sanzionatoria ma la pienezza dell’accertamento di responsabilità, tale da vincere la presunzione di non colpevolezza, con la conseguenza che il pieno accertamento della responsabilità personale di chi è soggetto alla misura ablativa è compatibile con una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato conseguente alla prescrizione (Corte costituzionale, sentenze 49/2015, 239/2009 e 85/2008). Epiloghi, quelli sin qui richiamati, cui era già pervenuta la giurisprudenza di legittimità quando ha affermato che la confisca dei terreni può essere disposta anche in presenza di una causa estintiva del reato (nella specie, della prescrizione), purché sia accertata la sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo e soggettivo, nell’ambito di un giudizio che assicuri il contraddittorio e la più ampia partecipazione degli interessati, e che verifichi l’esistenza di profili quantomeno di colpa sotto l’aspetto dell’imprudenza, della negligenza e del difetto di vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali la misura viene ad incidere (Sez. 3, 17066/2013) (ricostruzione sistematica fatta da Sez. 3, 53692/2017).

La concessione della sanatoria non preclude l’esercizio delle competenze del giudice ordinario, avendo la giurisprudenza di legittimità chiarito che il giudice penale, nel valutare la sussistenza o meno della liceità di un intervento edilizio, deve verificarne la conformità a tutti i parametri di legalità fissati dalla legge, dai regolamenti edilizi, dagli strumenti urbanistici e dalla concessione edificatoriaAnche nei casi in cui, nella fattispecie di reato sia previsto un atto amministrativo ovvero l’autorizzazione del comportamento del privato da parte di un organo pubblico, il giudice penale non deve limitarsi a verificare l’esistenza ontologica dell’atto o provvedimento amministrativo, ma deve verificare l’integrazione o meno della fattispecie penale, in vista dell’interesse sostanziale che tale fattispecie assume a tutela (nella specie, l’interesse sostanziale alla tutela del territorio), nella quale gli elementi di natura extra-penale convergono organicamente, assumendo un significato descrittivo. È la stessa descrizione normativa del reato che impone al giudice un riscontro diretto di tutti gli elementi che concorrono a determinare la condotta criminosa, ivi compreso l’atto amministrativo. in siffatti casi, il sindacato del giudice penale deve investire l’accertamento incidentale allo stato degli atti perché la causa di estinzione del reato per violazioni edilizie (in conseguenza del rilascio del permesso di ostruire in sanatoria) o la ritenuta illiceità penale dell’intervento (in conseguenza, come nella specie, del rilascio di una DIA in sanatoria per lavori che richiedevano il permesso di costruire), siccome si risolve in un accertamento dell’inesistenza del danno urbanistico in quanto si fonda sulla conformità delle opere abusive alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione sia in quello della richiesta, determina la mancanza ex tunc dell’antigiuridicità sostanziale del fatto reato. Ma proprio perché il provvedimento amministrativo va ad incidere su un reato già commesso, il giudice penale non può sottrarsi al compito di controllare, pleno iure, la sussistenza dei presupposti per la sua emanazione e dei requisiti di forma e di sostanza richiesti dalla legge per il corretto esercizio del potere di rilascio (Sez. 3, 14945/2014).

A mente dell’art. 6 Cod. pen., che è diretto ad affermare il principio di territorialità del diritto penale e a privilegiare la giurisdizione italiana, è sufficiente, perché il reato si consideri commesso nel territorio dello Stato, che quivi si sia verificato anche solo un frammento della condotta, intesa in senso naturalistico, e, quindi, un qualsiasi atto dell’iter criminis (Sez. 5, 34483/2018).

La giurisdizione italiana è indiscutibile quando anche solo una parte della condotta criminosa è compiuta nelle acque interne o nel mare territoriale costiero, ai sensi degli artt. 2 Convenzione di Montego Bay e 6 Cod. pen. (Sez. 4, 14709/2018).

Per le condotte tenute per i reati commessi nella zona contigua, sono possibili due soluzioni interpretative opposte: la prima esclude la giurisdizione italiana sulla base dell’art. 33 della citata Convenzione; la seconda la ritiene invece possibile sulla base dell’art. 9-bis del D. Lgs. 286/1998 secondo il quale “La nave italiana in servizio di polizia, che incontri nel mare territoriale o nella zona contigua, una nave, di cui si ha fondato motivo di ritenere che sia adibita o coinvolta nel trasporto illecito di migranti, può fermarla, sottoporla ad ispezione e, se vengono rinvenuti elementi che confermino il coinvolgimento della nave in un traffico di migranti, sequestrarla conducendo la stessa in un porto dello Stato” (Sez. 4, 14709/2018).

Se il reato è compiuto in alto mare, la giurisdizione, in base alle regole del diritto internazionale consuetudinario, appartiene alla Stato di bandiera della nave utilizzata da chi compie il reato. Tuttavia, nel caso frequente in cui i migranti ospitati a bordo di una nave che si trovi in alto mare siano fatti trasbordare su natanti più piccoli, è opportuno che operi la giurisdizione italiana, anche nel caso in cui la manovra sia seguita da una richiesta di soccorso la quale comporti che l’ingresso nelle acque italiane siano di fatto curato dalla guardia costiera e non dai mezzi riconducibili ai trafficanti. Si veda, in tal senso, Sez. 1, 14510/2014 secondo la quale «la giurisdizione dello stato italiano va riconosciuta, laddove in ipotesi di traffico di migranti dalle coste africane alla Sicilia, questi siano abbandonati in mare in acque extraterritoriali su natanti del tutto inadeguati, onde provocare l’intervento del soccorso in mare e far sì che i trasportati siano accompagnati nel tratto di acque territoriali dalle navi dei soccorritori, operanti sotto la copertura della scriminate dello stato di necessità, poiché l’azione di messa in grave pericolo per le persone, integrante lo stato di necessità, è direttamente riconducibile ai trafficanti per averlo provocato e si lega, senza soluzione di continuità, al primo segmento della condotta commessa in acque extraterritoriali, venendo così a ricadere nella previsione dell’art. 6 Cod. pen. L’azione dei soccorritori (che di fatto consente ai migranti di giungere nel nostro territorio) è da ritenere ai sensi dell’art. 54 Cod. pen., comma 3, in termini di azione dell’autore mediato, operante in ossequio alle leggi del mare, in uno stato di necessità provocato e strumentalizzato dai trafficanti e quindi a loro del tutto riconducibile e quindi sanzionabile nel nostro Stato, ancorché materialmente questi abbiano operato solo in ambito extraterritoriale». Sussiste la giurisdizione italiana in ordine al reato di cui all’art. 416 Cod. pen. nella ipotesi di associazione per delinquere organizzata all’estero e finalizzata all’ingresso illegale nel territorio dello Stato di cittadini extra comunitari, trattandosi di reato transnazionale commesso da gruppo criminale organizzato che dispiega i suoi effetti in Italia. La convenzione ONU sul crimine organizzato, ratificata in Italia con la L. 146/2006 riconosce infatti la giurisdizione dello Stato Parte per uno dei reati stabiliti ai sensi dell’art. 5, paragrafo 1, della Convenzione, ovverosia la partecipazione a un gruppo criminale organizzato quando è commesso al di fuori del suo territorio, al fine di commettere un grave reato sul territorio; i reati oggetto del presente processo rientrano tra quelli previsti dalla Convenzione ONU sul crimine transnazionale (artt. 2, 3 e 5) per cui la nave priva di bandiera non gode delle garanzie dell’extraterritorialità, sicché la giurisdizione del giudice italiano va affermata in riferimento sia all’art. 6, sia all’art. 7 n. 5 Cod. (Sez. 1, 7783/2018).

Il giudice che dichiari l’estinzione del reato per l’esito positivo della prova, ai sensi dell’art. 168-ter Cod. pen., non può applicare la sanzione amministrativa accessoria, di competenza del Prefetto ai sensi dell’art. 224, comma 3, CDS. Difatti, in considerazione della sostanziale differenza tra l’istituto della messa alla prova, che prescinde dall’accertamento di penale responsabilità, e le ipotesi di applicazione della sanzione sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, previste dagli artt. 186, comma 9-bis e 187, comma 8-bis CDS, non può trovare applicazione, nel caso di specie, la disciplina ivi prevista che lascia al giudice, in deroga al predetto art. 224, la competenza ad applicare la sanzione amministrativa accessoria  Tale principio deve ritenersi valevole per tutte le sanzioni amministrative. L’art. 11 del Trattato Lateranense esenta gli enti centrali della Chiesa “da ogni ingerenza da parte dello Stato”. Rientrano nella nozione di enti centrali solo gli organismi che, oltre a disporre di personalità giuridica, fanno parte della Curia romana, provvedono al governo supremo e universale della Chiesa Cattolica nello svolgimento della sua funzione spirituale, siano costituzionalmente rilevanti nell’ordinamento della Santa Sede, abbiano autonomia patrimoniale e competenza funzionale universale (Sez. 1, 22516/2003). Non può essere quindi considerata come ente centrale la Radio Vaticana poiché non incardinata nella Curia romana (Sez. 2, 41786/2015).

L’attrazione nella giurisdizione del giudice ordinario dei procedimenti per reati concorrenti, comuni e militari, opera solo se il reato comune è più grave di quello militare, mentre negli altri casi le sfere di giurisdizione, ordinaria e militare, rimangono separate, con la conseguenza che al giudice militare appartiene la cognizione dei reati militari e al giudice ordinario quella per i reati comuni (Sez. 1, 5680/2015).

L’amministrazione militare deve intendersi circoscritta nelle strutture occorrenti per l’organizzazione del personale e dei mezzi materiali destinati alla difesa armata dello Stato, e i beni in dotazione della stessa si identificano in quelli che, a norma delle leggi sulla contabilità generale dello Stato, sono amministrati dal Ministero della difesa o dai corpi militari, mentre non possono essere compresi tra quelli appartenenti all’Amministrazione militare i beni assegnati ad altri Ministeri, per l’uso degli stessi o dei servizi da essi dipendenti o da essi amministrati, ovvero quelli che rappresentano oggetto di gestione sotto un profilo esclusivamente privatistico. Ne consegue che, poiché il corpo della Guardia di Finanza fa parte integrante delle Forze Armate dello stato, è configurabile la giurisdizione dell’AG militare, e non di quella ordinaria, in tema di truffa consumata da sottufficiale di detto corpo in danno dell’Amministrazione di appartenenza, mediante il conseguimento dell’indebito rimborso di spese di missione eccedenti quanto effettivamente pagato (Sez. 1, 1410/2000).

La sopravvenuta perdita, da parte del condannato, della qualità di militare comporta l’esclusione della giurisdizione del tribunale militare di sorveglianza nella fase di esecuzione della pena, giacché, in tempo di pace, la giurisdizione «normale» è quella ordinaria, mentre quella militare ha carattere eccezionale ed è subordinata al duplice limite della natura militare dei reati presi in esame e dell’appartenenza alle Forze Armate degli autori di quei reati, i quali, pertanto, devono trovarsi in effettivo servizio attuale alle armi (Sez. 1, 6308/1996).

Al giudice penale è preclusa la valutazione della legittimità dei provvedimenti amministrativi che costituiscono il presupposto dell’illecito penale qualora sul tema sia intervenuta una sentenza irrevocabile del giudice amministrativo, ma tale preclusione non si estende ai profili di illegittimità, fatti valere in sede penale, che non siano stati dedotti ed effettivamente decisi in quella amministrativa (Sez. 1, 11596/2011).

L’AG ordinaria non ha il potere di valutare la conformità alla legge di un indirizzo interpretativo di un’altra giurisdizione (nella specie, una sentenza del Tribunale amministrativo regionale coperta da giudicato): ciò in quanto il cittadino  pena la vanificazione dei suoi diritti civili  non può essere privato della facoltà di fare affidamento sugli strumenti della tutela giurisdizionale posti a sua disposizione dall’ordinamento (Sez. 3, 54/1996).

 

Inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale o di altre norme di cui si deve tenere conto nell’applicazione della legge penale (art. 606 comma 1 lettera b)

La questione attinente alla procedibilità dell’azione penale è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento e, quindi, può essere dedotta per la prima volta davanti alla Corte di cassazione, purché, nel caso in cui si affermi la tardività della querela, il dies a quo non debba essere determinato con un giudizio di fatto che è precluso al giudice di legittimità (Fattispecie nella quale la ricorrente, imputata per i reati di sostituzione di persona e truffa, deduceva, relativamente a quest’ultimo reato, la mancata proposizione della querela da parte della persona offesa titolare del relativo diritto. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di truffa perché l’azione penale non poteva essere esercitata per difetto di querela, con rinvio per la determinazione della pena in ordine al reato di sostituzione di persona ad altra sezione della corte di appello competente) (Sez. 2, 39570/2021).

Alla luce di quanto statuito dall'articolo 448 co. 2 bis, il vizio nella espressione del consenso dell’imputato alla soluzione concordata non si identifica con le ragioni che hanno indotto il ricorrente a concordare sull'applicazione della pena non assurgendo, le motivazioni personali, a fattori capaci di invalidare la prestazione della volontà (Sez. 1, 35620/2021).

È ammissibile il ricorso per cassazione col quale si deduce, anche con un unico motivo, l'intervenuta estinzione del reato per prescrizione maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, anche se non eccepita dalla parte interessata, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606 c. 1 lett. b) (Sez. 4, 14645/2021).

È ammissibile, ai sensi dell'art. 606, il ricorso per cassazione avverso una sentenza di applicazione concordata della pena, con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell'accordo tra le parti (SU, informazione provvisoria in esito all'udienza camerale del 26 settembre 2019).

Le doglianze relative alla violazione dell’art. 192 riguardanti l’attendibilità dei testimoni dell’accusa, non essendo l’inosservanza di detta norma prevista a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, non possono essere dedotte con il motivo di violazione di legge di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), ma soltanto nei limiti indicati dalla lett. e) della medesima norma, ossia come mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulti dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti specificamente indicati nei motivi di gravame. Parimenti non sono denunciabili con ricorso in cassazione la violazione di norme penali processuali sotto il profilo della lettera b) dell’art. 606, essendo tale disposizione attinente ai soli casi di erronea applicazione di norme penali sostanziali, e sotto tale ultimo profilo non è legittima la denuncia di vizi della motivazione surrettiziamente introdotti al di fuori dei circoscritti limiti dettati dall’art. 606, comma 1 lett. e) (Sez. 2, 44234/2018).

Costituisce ius receptum, di recente ribadito dalle Sezioni Unite (SU, 5838/2014), l’affermazione che, in tema di patteggiamento, il ricorso per cassazione può denunciare anche l’erronea qualificazione giuridica del fatto, così come prospettata nell’accordo negoziale e recepita dal giudice, in quanto la qualificazione giuridica è materia sottratta alla disponibilità delle parti e l’errore su di essa costituisce errore di diritto rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b). Il limite, tuttavia, è nel fatto che l’errore sul nomen iuris deve essere manifesto. Tale orientamento, infatti, ne ammette la deducibilità nei soli casi in cui sussista l’eventualità che l’accordo sulla pena si trasformi in accordo sui reati, mentre la esclude tutte le volte in cui la diversa qualificazione presenti margini di opinabilità (Sez. 7, 46917/2018).

La pubblicazione (art. 545) e il deposito (art. 548) della sentenza hanno finalità diverse, poiché la prima conclude la fase della deliberazione in camera di consiglio e ne garantisce l’immediatezza e la definitività con il deposito del dispositivo redatto e sottoscritto dal presidente, mentre il secondo serve a mettere l’atto e la sua motivazione a disposizione delle parti anche ai fini dell’impugnazione. Per il computo della eventuale prescrizione del reato, deve considerarsi il momento della lettura del dispositivo della sentenza di condanna, anche nel caso in cui non sia data contestuale lettura della motivazione, e non quello (successivo) del deposito della sentenza stessa; e, a fortiori, non il momento (successivo) della notificazione dell’avviso di deposito della sentenza, come dedotto nel caso in esame. Il ricorso per cassazione proposto unicamente per far valere la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata, senza dedurre vizi della decisione, viola il criterio della specificità dei motivi enunciato nell’art. 581 lett. a) ed esula dai casi in relazione ai quali può essere proposto ex art. 606 (SU, 23428/2005, richiamata da Sez. 6, 43289/2018).

La confisca può avere ad oggetto beni inclusi in un fondo patrimoniale familiare, in quanto su di essi grava un mero vincolo di destinazione che non ne esclude la disponibilità da parte del proprietario che ve li ha conferitiLa giurisprudenza di legittimità ha infatti chiarito che i beni conferiti in un fondo patrimoniale non possono che appartenere a colui il quale li ha assegnati al fondo stesso e pertanto resta soddisfatto il criterio dell’appartenenza della cosa al reo, che ne giustifica la confisca e il preventivo sequestro. In altri termini, il fondo patrimoniale dà unicamente origine a un autonomo patrimonio di scopo e non si configura come un autonomo soggetto di diritto. La proprietà dei beni conferiti al fondo spetta ai coniugi ovvero al solo coniuge che lo ha costituito (articolo 168 Cod. civ.) Da ciò consegue che la costituzione del fondo non comporta, di regola, effetti traslativi ed assolve una funzione meramente strumentale di assicurare mezzi economici al nucleo familiare cosicché, mancando l’effetto traslativo, la costituzione del fondo determina il sorgere di un mero diritto di godimento sui cespiti. Pertanto, non è esatta l’affermazione contenuta nel ricorso secondo la quale il bene cessa di appartenere al conferente, sia egli proprietario o meno dello stesso, per diventare patrimonio separato, appartenente a tutto il nucleo familiare, trattandosi di un presupposto profondamente errato e privo di qualsiasi consistenza giuridica. Sul punto, la Corte si è già pronunciata osservando che non esiste alcuna incompatibilità tra confisca e preventivo sequestro, da un lato, e i regimi di particolare favore assicurati, dall’altro, dalle leggi civili a taluni beni in ragione della loro natura o destinazione. Si è infatti sostenuto che le norme civilistiche che definiscono la natura di taluni cespiti patrimoniali, ovvero disciplinano l’esecuzione coattiva civile riguardano esclusivamente la definizione della garanzia patrimoniale a fronte delle responsabilità civili, e in nulla toccano la disciplina della responsabilità penale, nel cui esclusivo ambito ricade invece il sequestro preventivo e la successiva confisca. Peraltro la struttura e la finalità della confisca rendono evidente e non equivocabile la netta differenza con le fattispecie civilistiche, tanto cautelari che espropriative: la confisca e il preventivo sequestro non presuppongono alcuna responsabilità civile, ed anzi sono indipendenti dall’effettiva causazione di un danno quantificabile; non preludono ad alcuna espropriazione, ma semmai ad un provvedimento sanzionatorio, quale è appunto la confisca, che prescinde dal danno e considera solo l’esistenza di un particolare rapporto di strumentalità o di derivazione tra la cosa e il reato. Tali asimmetrie rendono quindi improponibile qualsiasi tentativo d’analogia con la disciplina civilistica circa il vincolo di destinazione impresso ai beni che costituiscono il fondo patrimoniale, che, a condizioni esatte, non possono perciò essere sottratti al sequestro preventivo e alla successiva confisca (Sez. 3, 47010/2018).

In materia di provvedimenti “de libertate la Corte di Cassazione non ha alcun potere né di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate (ivi compreso lo spessore degli indizi), né di rivalutazione delle condizioni soggettive dell’indagato in relazione alle esigenze cautelari ed all’adeguatezza delle misure. Sono questi, infatti, apprezzamenti propri del giudice di merito. Il controllo di legittimità rimane pertanto circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, nelle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Da quanto sopra discende che: a) in materia di misure cautelari la scelta e la valutazione delle fonti di prova rientra fra i compiti istituzionali del giudice di merito sfuggendo entrambe a censure in sede di legittimità se adeguatamente motivate ed immuni da errori logico giuridici, posto che non può contrapporsi alla decisione del Tribunale, se correttamente giustificata, un diverso criterio di scelta o una diversa interpretazione del materiale probatorio; b) la denuncia di insussistenza di gravi indizi di colpevolezza o di assenza di esigenze cautelari è ammissibile solo se la censura riporta l’indicazione precisa e puntuale di specifiche violazioni di norme di legge, ovvero l’indicazione puntuale di manifeste illogicità della motivazione provvedimento, secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, esulando dal giudizio di legittimità sia le doglianze che attengono alla ricostruzione dei fatti sia quelle che si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate e valorizzate dal giudice di merito. Il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 2, 46791/2018).

In tema di MAE, non è ostativa alla consegna l’omessa acquisizione da parte della Corte d’appello del provvedimento restrittivo interno in base al quale il mandato è stato emesso, quando il controllo dell’AG italiana in ordine alla motivazione (art. 18, lett. t) ed ai gravi indizi di colpevolezza (art. 17, comma 4) possa essere comunque effettuato sulla documentazione trasmessa dall’Autorità dello Stato di emissione. Ancora, non è possibile far luogo alla consegna richiesta dall’AG straniera soltanto laddove dallo stesso mandato o dalla documentazione trasmessa, non sia desumibile l’indicazione precisa del provvedimento restrittivo della libertà personale su cui si basa l’istanza, dovendosi in questo senso interpretare la disposizione dettata dall’art. 6, comma 3 L. 69/2005, che richiede l’allegazione al mandato di quel provvedimento. La validità del consolidato principio di diritto sopra rammentato non può dirsi in nessun modo intaccata dalla decisione della CGUE dell’1.6.2016, Bob-Dogi, C-241115. Mette conto precisare che, con l’indicata pronuncia, la Corte di Lussemburgo ha affermato che “l’articolo 8, paragrafo 1 lettera c), della decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, come modificata dalla decisione quadro 2009/299/GAI del Consiglio, del 26 febbraio 2009, deve essere interpretato nel senso che la nozione di «mandato d’arresto», di cui a tale disposizione, deve essere intesa come designante un mandato d’arresto nazionale distinto dal mandato d’arresto europeo” e che “l’articolo 8, paragrafo 1, lettera c), della decisione quadro 2002/5,34, come modificata dalla decisione quadro 2009/299, deve essere interpretato nel senso che, quando un mandato d’arresto europeo, che si fonda sull’esistenza di un «mandato d’arresto», ai sensi di tale disposizione, non contiene alcuna indicazione dell’esistenza di un mandato d’arresto nazionale, l’Autorità Giudiziaria dell’esecuzione è tenuta a non darvi corso nel caso in cui essa, alla luce delle informazioni fornite in conformità dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro 2002/584, come modificata, nonché di tutte le altre informazioni in suo possesso, constati che il mandato d’arresto europeo non è valido, in quanto è stato emesso senza che fosse stato effettivamente spiccato un mandato d’arresto nazionale distinto dal mandato d’arresto europeo”. Nel fissare la regula iuris secondo la quale l’esecuzione di un MAE c.d. processuale postula l’esistenza in natura di un distinto provvedimento cautelare emesso da parte dell’AG richiedente, la Corte di Lussemburgo ha inteso espressamente censurare la prassi invalsa in taluni Stati (nella specie, l’Ungheria) di emettere il MAE in assenza della preventiva emissione di un mandato d’arresto nazionale, surrogato da quello comunitario. Risulta di tutta evidenza come la decisione della Corte Europea si riferisca ad un caso diverso da quello di specie, laddove si occupa dell’ipotesi in cui, nel MAE c.d. processuale, non vi sia menzione del provvedimento coercitivo interno e, dalle informazioni evincibili dall’incartamento processuale, non emerga che un (distinto) titolo restrittivo dell’AG nazionale sia mai stato emesso. Tale diversa ipotesi lascia fermo l’insegnamento sopra ricordato, secondo il quale, ai fini della esecuzione del MAE c.d. processuale, non è necessario che l’Autorità richiedente inoltri il provvedimento coercitivo interno, a condizione che - in linea con quanto raccomandato dalla Corte Europea - esso esista ed il relativo contenuto sia evincibile dagli atti trasmessi (Sez. 6, 32346/2018).

Il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice; non rientra, invece, nella nozione di violazione di legge - l’illogicità manifesta, che può denunciarsi in sede di legittimità soltanto tramite lo specifico ed autonomo motivo di ricorso di cui all’art. 606, comma 1 lett. e. Ulteriore doverosa premessa attiene alla verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare da parte del tribunale del riesame o della corte di cassazione che, per costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, non può tradursi in un’anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale, rimanendo preclusa ogni valutazione riguardo alla sussistenza degli indizi di colpevolezza ed alla gravità degli stessi. Peraltro, sebbene nel sequestro preventivo, la verifica del giudice del riesame non debba tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, è necessario tuttavia che la stessa si spinga ad accertare la possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato: pertanto, ai fini dell’individuazione del “fumus commissi delicti”, non è sufficiente la mera “postulazione” dell’esistenza del reato, da parte del PM, in quanto il giudice, nella motivazione dell’ordinanza, deve rappresentare le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, che dimostra indiziariamente la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata (o ritenuta) rispetto ai fatti cui si riferisce la misura cautelare reale (Sez. 2, 41813/2018).

Il ricorso per cassazione nel quale viene censurato l’errore del giudice di appello che ha omesso di dichiarare la già intervenuta prescrizione del reato, pur se non eccepita dalla parte interessata in quel grado, è ammissibile perché volto a far valere l’inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale ex art. 606, comma 1, lett. b). Invero l’art. 129 impone al giudice, come recita la rubrica, l’obbligo della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità e a tale «obbligo» il giudice di merito non può sottrarsi e deve ex officio adottare il provvedimento consequenziale. Se a tanto non adempie, la sentenza di condanna emessa, in quanto viziata da palese violazione di legge, può essere fondatamente impugnata con atto certamente idoneo ad attivare il rapporto processuale del grado superiore, il che esclude la formazione del c.d. giudicato sostanziale (SU, 12606/2016).

 

Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza (art. 606 comma 1, lettera c)

Alla luce di quanto statuito dall'articolo 448 co. 2 bis, il vizio nella espressione del consenso dell’imputato alla soluzione concordata non si identifica con le ragioni che hanno indotto il ricorrente a concordare sull'applicazione della pena non assurgendo, le motivazioni personali, a fattori capaci di invalidare la prestazione della volontà (Sez. 1, 35620/2021).

La rispondenza delle valutazioni compiute dal giudice di merito alle acquisizioni processuali può essere dedotta sub specie del vizio di travisamento della prova a condizione che siano indicati in maniera specifica e puntuale gli atti rilevanti e sempre che la contraddittorietà della motivazione rispetto ad essi sia percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato ai rilievi di macroscopica evidenza, senza che siano apprezzabili le minime incongruenze, con il risultato di porre a carico del ricorrente un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali che intende far valere, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi (integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell'atto nel fascicolo del giudice) (Sez. 5, 15642/2021).

Nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, 44191/2018).

L’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche od ambientali va riferita alle sole violazioni delle condizioni richieste dagli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, mentre le eventuali illegittimità formali, come quelle relative a violazione delle altre previsioni del citato art. 268 o alla mancata motivazione del decreto autorizzativo, determinano, semmai, l’invalidità del mezzo istruttorio, giacché la categoria dell’inutilizzabilità inerisce alle prove vietate per la loro intrinseca illegittimità oggettiva ovvero per effetto di una manifesta illegittimità del procedimento acquisitivo, che le ponga al di fuori del sistema processuale. Ne consegue che il vizio della motivazione del provvedimento del PM che dispone l’esecuzione delle operazioni di intercettazione (nella specie telefoniche ed ambientali) mediante apparati diversi da quelli esistenti presso l’ufficio della procura della Repubblica rileva sotto il profilo della nullità delle intercettazioni, quale effetto del vizio del decreto autorizzativo, e non della loro inutilizzabilità, sicché la relativa denuncia soggiace ai limiti di deducibilità di cui all’art. 182. Ciò posto, la doglianza di inutilizzabilità relativa ai denunziati vizi di motivazione ovvero agli altri vizi formali sopra ricordati è inammissibile se avanzata per la prima volta in cassazione e dunque in modo del tutto tardivo rispetto ai limiti di deducibilità sopra evidenziati. Va aggiunto che, peraltro, il motivo così proposto non obbedisce neanche ai necessari requisiti di autosufficienza, non avendo la parte ricorrente allegato i decreti autorizzati di cui si denunzia l’illegittimità sicché il ricorso è inammissibile (Sez. 5, 32670/2018).

Deve essere rilevata la nullità assoluta ed insanabile della notifica del decreto di citazione a giudizio dell’imputato avvenuta in udienza mediante lettura dell’atto al sostituto processuale del difensore, non potendo trovare applicazione il principio di equipollenza della lettura alle notificazioni previsto dall’art. 148, comma 5, che riguarda unicamente “i provvedimenti” e “gli avvisi dati dal giudice verbalmente” e non anche gli atti processuali che devono essere necessariamente consegnati al destinatario (Sez. 3, 18875/2018).

L’omessa notifica al difensore di fiducia del rinvio dell’udienza disposto con contestuale indicazione della data di rinvio e alla presenza del difensore di ufficio, designato ex art. 97, comma 4, non determina alcuna nullità, in quanto il difensore di ufficio nominato in luogo di quello impedito agisce in nome e per conto di quello di fiducia sostituito e rappresenta la parte processuale interessata al corretto andamento del processo (Sez. 6, 35981/2017).

Mentre l’art. 148 comma 3 dispone che gli atti siano notificati “per intero”, la sanzione di nullità è, poi, comminata dal successivo art. 171 lett. a) solo per il caso in cui l’atto sia notificato “in modo incompleto” (e fuori dei casi in cui è consentita la notifica per estratto). Ne consegue - stante la non piena corrispondenza delle due norme - che deve considerarsi atto completo e quindi utilmente notificabile, quello che, per quanto non “intero”, contenga tuttavia gli elementi essenziali di conoscenza per il pieno esercizio del diritto di difesa (Sez. 4, 27538/2017).

La nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179 ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184. In tale prospettiva, la notificazione della citazione dell’imputato effettuata presso il domicilio reale a mani di persona convivente, anziché presso il domicilio eletto, non integra necessariamente una ipotesi di “omissione” della notificazione ex art. 179 ma dà luogo, di regola, ad una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178 lett. c), soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184 comma 1, alle sanatorie generali di cui all’art. 183 e alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180, sempre che non appaia in astratto o risulti in concreto inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario, nel qual caso integra invece la nullità assoluta ed insanabile di cui all’art. 179 comma 1 , rilevabile dal giudice di ufficio in ogni stato e grado del processo (SU, 119/2004).

È nulla la notificazione eseguita a norma dell’art. 157, comma 8-bis,  presso il difensore di fiducia, qualora l’imputato abbia dichiarato oppure eletto domicilio per le notificazioni, con la specificazione che si tratta di nullità di ordine generale a regime intermedio che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa, ed è, comunque, priva di effetti se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma primo, alle sanatorie generali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 (Sez. 1, 27778/2018).

Le notifiche degli atti processuali dirette ad un imputato dichiarato interdetto per infermità di mente devono essere eseguite anche presso il tutore, a pena di nullità assoluta, rilevabile in ogni stato e grado del procedimento. L’art. 166 prevede invero per la persona interdetta un particolare sistema di messa a conoscenza degli atti consistente in una duplice notifica da eseguirsi, secondo le regole generali, sia presso il tutore che direttamente nei confronti dell’incapace (non potendosi escludere a priori che lo stesso sia in grado di rendersi conto della natura e del contenuto di ciò che gli viene notificato). Ne consegue che l’omissione anche di una sola delle due notifiche prescritte dalla legge dà luogo, a una nullità assoluta essendo la notifica non irregolare, ma equiparabile ad una notifica omessa (Sez. 2, 52277/2017).

La nullità conseguente all’incompatibilità dell’interprete ha natura relativa e, pertanto, nell’ipotesi in cui la parte vi assista, deve essere eccepita, a pena di decadenza, prima del compimento dell’atto ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo (Sez. 2, 31691/2018).

A norma dell’art. 38 L. 287/1951, di riordinamento dei giudizi di assise, quando nelle leggi di procedura penale si fa riferimento a giudice di competenza superiore o a giudice superiore, la corte di assise si considera giudice di competenza superiore agli altri giudici di primo grado; l’art. 23 dispone che, se nel dibattimento di primo grado il giudice ritiene che il processo appartiene alla competenza di altro giudice, dichiara con sentenza la propria incompetenza e se il reato appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore, l’incompetenza è rilevata ed eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dal primo comma del successivo art. 491. Dal combinato disposto di tali norme consegue l’inapplicabilità della preclusione, posta dall’art. 491 nella fase di giudizio che si sia svolta dinanzi al tribunale, essendo la corte di assise giudice considerato superiore dall’art. 38 citato (Sez. 2, 25657/2003).

La nullità del decreto di citazione a giudizio per insufficiente determinazione del fatto ex art. 555, comma 1, lett. c), e comma 2, non integra una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178, ma rientra tra quelle relative di cui all’art. 181, con la conseguenza che essa non può essere rilevata d’ufficio, ma deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine previsto dall’art. 491È pertanto affetto da abnormità il provvedimento con il quale il giudice del dibattimento rilevi d’ufficio l’invalidità (tra l’altro, nella specie, oltre il termine di cui all’art. 491), atteso che non è consentito al giudice sostituirsi alle parti nel rilevare cause di nullità relative, a pena del sovvertimento dei principi generali su cui si fonda nel nostro ordinamento il sistema della invalidità degli atti processuali (Sez. 2, 26298/2016).

La violazione del termine a comparire davanti al Tribunale, previsto dall’art. 552, comma 3, in giorni sessanta, non determina la nullità assoluta del decreto di citazione a giudizio, bensì una nullità generale di carattere intermedio, rilevabile d’ufficio ex art. 180. e deducibile, ai sensi dell’art. 182, comma 2, dalla parte interessata all’osservanza della norma violata, a pena di decadenza, prima dell’apertura del dibattimento; qualora la parte compaia dichiarando che la comparizione è determinata dal solo intento di fare rilevare l’irregolarità, ha diritto, ex art. 184, comma 2, ad un termine a difesa che deve essere tale da assicurare all’imputato il godimento dei termini complessivamente stabiliti dall’art. 552, comma 3, a fare data dalla prima notifica (Sez. 3, 30178/2018).

La giurisprudenza di legittimità è divisa sulla natura della nullità del decreto di citazione a giudizio prevista dall’art. 552, comma 3, perché non preceduto dall’avviso di conclusione delle indagini preliminari ovvero per mancanza dell’invito all’indagato a presentarsi a rendere l’interrogatorio richiesto nel termine di cui all’art. 415-bis, comma 3Secondo un primo orientamento, trattasi di nullità relativa che deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine di cui all’art. 491, subito dopo compiuto per la prima volta l’accertamento della costituzione delle parti (Sez. 5, 34515/2014). Secondo altro più recente e maggioritario orientamento, l’inosservanza è riconducibile alle nullità di ordine di generale di cui all’art. 178, lett. c), a c.d. “regime intermedio”, sicché può essere dedotta, ai sensi dell’art. 180, prima della deliberazione della sentenza di primo grado (Sez. 6, 2382/2018).

L’erronea instaurazione del rito con citazione diretta per un reato per il quale è prevista l’udienza preliminare non dà luogo a nullità assoluta ed insanabile, ma solo ad una nullità a regime intermedio rilevabile, a pena di decadenza, subito dopo il compimento, per la prima volta, dell’accertamento della costituzione delle parti (Sez. 1, 5967/2014).

Le nullità di cui agli artt. 180 e 181 concernenti la deliberazione di esaurimento dell’assunzione delle prove debbono essere eccepite, a pena di decadenza, in sede di formulazione e precisazione delle conclusioni (Sez. 5, 7108/2016).

L’omessa indicazione del capo di imputazione in merito alla finalità dell’azione delittuosa contestata  il fine di procurare a sé o ad altri un profitto  non ha alcuna rilevanza ai fini della dedotta nullità della sentenza ex art. 522, purché il fatto contestato sia individuato con estrema precisione, sicché l’elemento del profitto sia ricavabile in via induttiva dal contesto. Soddisfatte queste condizioni, nessuna violazione del diritto di difesa può dirsi avvenuta. In ogni caso, un’eventuale doglianza difensiva in merito al contenuto del capo di imputazione, riguardando la completezza della contestazione, deve essere eccepita in primo grado nell’ambito delle questioni preliminari e riproposta in appello, a pena di decadenza (Sez. 2, 16063/2018).

L’acquisizione della relazione di consulenza tecnica di parte (nella specie, del PM) in assenza della previa audizione del suo autore non ne comporta l’inutilizzabilità, ma integra una nullità di ordine generale a regime intermedio, ex art. 178 comma 1 lett. c), soggetta ai limiti di deducibilità di cui all’art. 182 e alla sanatoria di cui all’art. 183 comma 1 lett. a); ne deriva che, in tal caso, la parte presente al compimento di detta nullità deve dolersene immediatamente nelle forme prescritte, pena la decadenza dal potere di deducibilità e la conseguente sanatoria dovuta all’accettazione degli effetti dell’atto (Sez. 6, 25807/2014).

Qualora il decreto che dispone il giudizio destinato all’imputato venga per errore notificato presso lo studio del difensore di fiducia invece che al domicilio validamente eletto, sussiste una nullità non assoluta, ma a regime intermedio, come tale deducibile a pena di decadenza nei termini previsti dall’art. 491, in quanto l’atto deve ritenersi comunque giunto a conoscenza dell’interessato (Sez. 4, 29311/2018).

Nel procedimento davanti al Tribunale di sorveglianza, mancando l’udienza preliminare, le eventuali questioni di competenza vanno proposte, a pena di decadenza, solo in apertura di udienza; ciò in applicazione della norma di carattere generale dettata dall’art. 21, comma 2, secondo cui l’incompetenza per territorio è rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell’udienza preliminare o, se questa manchi, entro il termine previsto dall’art. 491, comma 1 (Sez. 1, 16545/2018).

L’incompetenza del tribunale a conoscere di reati appartenenti alla competenza del giudice di pace deve essere eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall’art. 491 comma 1, come richiamato dall’art. 23 comma 2; né, a tal fine, rileva il disposto di cui all’art. 48 del D.Lgs. 274/2000, il quale non deroga al regime della non rilevabilità d’ufficio dell’incompetenza per materia del tribunale a favore del giudice di pace, limitandosi a stabilire che il giudice, qualora debba dichiarare l’incompetenza per materia a favore del giudice di pace, la dichiara con sentenza e trasmettendo gli atti al PM e non direttamente al giudice di pace (Sez.7, 38195/2018).

Nella giurisprudenza di legittimità si evidenziano opzioni diverse in relazione al termine per la costituzione di parte civile ed alla conseguente inammissibilità dell’istanza di ammissione al processo per sopravvenuta decadenzaUna tesi afferma che il termine per la proposizione dell’istanza di costituzione di parte civile coincide con quello immediatamente antecedente all’apertura del dibattimento, pur se alla prima udienza non ammessa per ragioni formali, ma reiterata, quale primo atto, proprio all’udienza di rinvio (Sez. 5, 4972/2007). Più di recente, Sez. 5, 28157/2015 ha ritenuto che il termine ultimo per la costituzione di parte civile debba individuarsi, ex art. 79, comma 1 e 484, comma 1, nel momento antecedente all’apertura del dibattimento allorché il giudice ha esaurito l’accertamento della regolare costituzione delle parti, dopo avere deciso le eventuali questioni sollevate al riguardo, ai sensi dell’art. 491, comma 1. Altra tesi propende per l’inammissibilità della costituzione di parte civile che sia avvenuta successivamente al compimento degli adempimenti per la verifica della regolare costituzione delle parti, pur se siano ancora proponibili le questioni previste dall’art. 491, le quali, invece, la presuppongono (Sez. 5, 38982/2013) (l’elencazione si deve a Sez. 5, 21501/2018 che tuttavia non ha preso posizione al riguardo). Il potere del giudice di assumere d’ufficio nuovi mezzi di prova a norma dell’art. 507 può essere esercitato anche con riferimento a quelle prove per la cui ammissione si sia verificata la decadenza delle parti per omesso tempestivo deposito della lista testimoniale ai sensi dell’art. 468, comma 1, poiché il requisito della “novità” non è limitato ai soli mezzi di prova che non avrebbero potuto essere richiesti dalle parti al momento del deposito delle liste testimoniali (Sez. 3, 38222/2017).

La categoria dell’abnormità è stata elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza in stretto collegamento con il tema della tassatività, che, come è noto, pervade il regime delle impugnazioni, in genere, e del ricorso per cassazione in specie. Rimedio, quest’ultimo, che, significativamente, racchiude in sé l’esigenza di approntare uno strumento – eventualmente alternativo e residuale rispetto a tutti gli altri rimedi – che assicuri il controllo sulla legalità del procedere della giurisdizione. L’abnormità, quindi, più che rappresentare un vizio dell’atto in sé, da cui scaturiscono determinate patologie sul piano della dinamica processuale, integra – sempre e comunque – uno sviamento della funzione giurisdizionale, la quale non risponde più al modello previsto dalla legge, ma si colloca al di là del perimetro entro il quale è riconosciuta dall’ordinamento. Tanto che si tratti di un atto strutturalmente eccentrico rispetto a quelli positivamente disciplinati, quanto che si versi in una ipotesi di atto normativamente previsto e disciplinato, ma utilizzato al di fuori dell’area che ne individua la funzione e la stessa ragione di essere nell’iter procedimentale, ciò che segnala la relativa abnormità è proprio l’esistenza o meno del potere di adottarlo. In questa prospettiva, dunque, abnormità strutturale e funzionale si saldano all’interno di un fenomeno unitario. Se all’AG può riconoscersi l’attribuzione circa l’adottabilità di un determinato provvedimento, i relativi, eventuali vizi saranno solo quelli previsti dalla legge, a prescindere dal fatto che da essi derivino effetti regressivi del processo. Ove, invece, sia proprio l’attribuzione a far difetto - e con essa, quindi, il legittimo esercizio della funzione giurisdizionale - la conseguenza non potrà essere altra che quella dell’abnormità, cui consegue l’esigenza di rimozione (SU, 25957/2009). Labnormità, nella duplice accezione strutturale e funzionale, va ricondotta ad un fenomeno unitario, caratterizzato dallo sviamento della funzione giurisdizionale, inteso non tanto quale vizio dell’atto, che si aggiunge a quelli tassativamente stabiliti dall’art. 606, comma 1, quanto come esercizio di un potere in difformità dal modello descritto dalla legge. L’ammissibilità, inoltre, deve essere individuata sulla base della situazione processuale prospettata nel ricorso a prescindere da verifiche nel merito delle anomalie prospettate, ricordandosi che la categoria è stata creata dalla giurisprudenza di legittimità per consentire di rimuovere un provvedimento non inquadrabile nel sistema o che si pone di impedimento allo sviluppo processuale, ma essa presenta indubbi caratteri di eccezionalità, in relazione alla deroga che viene attuata al principio di tassatività delle nullitàPer un’esatta individuazione dell’area del vizio rilevabile, occorre escludervi, da un lato, i c.d. vizi innocui che costituiscono il vero e proprio limite logico della categoria (e si riscontrano nei casi in cui vi è una irrilevanza sopravvenuta dell’anomalia, avendo il giudice esercitato un potere che non gli spettava, ma senza che ciò abbia realizzato una stasi del processo, anche ove una indebita regressione vi sia stata); dall’altro, tutte le situazioni di illegittimità dell’atto, per le quali l’ordinamento ha previsto una specifica sanzione processuale. Non si può dunque ricorrere alla categoria dell’abnormità al fine di giustificare il ricorso immediato per cassazione avverso atti affetti soltanto da nullità o comunque non condivisi, poiché ciò si tradurrebbe nella elusione del regime di tassatività dei casi di impugnazione e dei mezzi esperibili, stabilito dall’art. 568, comma 1 (Sez. 4, 29349/2018).

L’omessa valutazione di memorie difensive non può essere fatta valere in sede di gravame come causa di nullità del provvedimento impugnato, non trattandosi di ipotesi prevista dalla legge ma può influire sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione che definisce la fase o il grado nel cui ambito siano state espresse le ragioni difensive in quanto devono essere attentamente considerate dal giudice cui vengono rivolte (Sez. 2, 25924/2018).

Non è affetta da nullità, ma meramente irrituale, la notificazione (nella specie, a mezzo fax) avvenuta mediante consegna al difensore di fiducia domiciliatario di un’unica copia dell’atto da notificare, con l’espressa indicazione in esso dei destinatari specificamente individuati nell’imputato e nel difensore; in particolare non sussiste la nullità della notifica dell’avviso dell’udienza, effettuata, a mezzo fax, in unico esemplare al comune studio dei due difensori, in quanto la violazione delle disposizioni di cui all’art. 54 Att.  - per il quale il numero di copie degli atti da notificare deve essere uguale a quello dei destinatari della notificazione - non è sanzionata a pena di nullità, stante il principio di tassatività delle nullità (Sez. 5, 25649/2018).

Poiché le norme che stabiliscono i termini a comparire non sanzionano mai espressamente la loro violazione con la nullità, è inevitabile dedurla con il tramite dell’art. 178 considerandola nullità di ordine generale concernente l’intervento dell’imputato (art. 178, comma 1, lett. c), ostando il riconoscimento su base diversa il principio di tassatività (Sez. 1, 13380/2018).

In presenza di un’errata qualificazione del provvedimento genetico, non è configurabile alcun meccanismo di tutela dell’interessato, i cui diritti difensivi non sono in alcun modo pregiudicati, fermo restando che l’atto di sequestro, anche se formalmente qualificato come ordinanza, ha comunque natura e valore di decreto (Sez. 3, 1549/2018).

La mancata osservanza delle formalità di acquisizione delle prove può porsi, eventualmente, sul piano della nullità della prova, sempre che tale sanzione sia prevista con riferimento alla singola violazione, in base al principio di tassatività delle nullità (Sez. 2, 9404/2018).

In tanto si può porre una questione di invalidità derivata, nella forma della nullità secondo il ricorrente, in quanto si possa configurare una invalidità/nullità presupposta e, necessariamente, una nullità prevista dal codice di rito, come noto informato al principio della tassatività delle nullità. Una mera omissione, vale a dire un non-atto, non può concettualmente dar vita ad una nullità, proprio in applicazione del principio della tassatività (Sez. 1, 22856/2018).

In tema di appello, la relazione della causa di cui al comma 1 dell’art. 602 ha funzione meramente espositiva e non ha alcuna incidenza sul principio del contraddittorio. La violazione di questa previsione è priva di specifica sanzione e non crea alcuna nullità (Sez. 1, 207/2018).

Nelle ipotesi in cui sia disposto che la partecipazione dell’imputato al dibattimento avvenga a distanza, l’inosservanza del termine di dieci giorni per la comunicazione alle parti ed ai difensori del relativo decreto non determina alcuna nullità, non essendo questa prevista dalla legge, bensì una mera irritualità (Sez. 2, 8897/2017).

La decisione del giudice di disporre per il deposito della motivazione di un termine più lungo fino a 45 giorni, in conformità alla facoltà che gli è concessa dal comma 10 dell’art. 309 non può essere oggetto di impugnazione, non essendo ipotizzabile alcuna nullità in proposito per il principio della tassatività delle nullità (Sez. 2, 8732/2017).

In tema di misure di prevenzione, la differenza, strutturale e funzionale, tra un decreto ed un mero avviso di fissazione dell’udienza implica, dunque, che il secondo non debba contenere, a pena di nullità, indicazioni esulanti dalle previsioni normative. In altri termini, l’avviso di fissazione dell’udienza in camera di consiglio rappresenta soltanto una provocatio ad opponendum nei confronti della proposta di misura di prevenzione, un invito al contraddittorio, e non deve contenere indicazioni ulteriori rispetto a quelle previste dalla norma regolatrice: contrariamente a quanto disposto, ad esempio, dall’art. 552, che prevede una serie di requisiti contenutistici del decreto di citazione a giudizio, la cui mancanza integra una nullità, l’art. 7, comma 2, D.Lgs. 159/2011 prevede soltanto che l’avviso di fissazione dell’udienza indichi la data, l’AG procedente ed i destinatari dello stesso (PM, proposto, eventuali terzi interessati, rispettivi difensori). Ne consegue che non è sancita, tanto meno a pena di nullità, l’indicazione del tipo di pericolosità posto a fondamento della richiesta e degli elementi di fatto dai quali la si ritiene desumibile, trattandosi di requisiti non previsti dalla norma. Peraltro, il principio di tassatività delle nullità non consente di estendere la nullità sancita dall’art. 7, comma 7, D.Lgs. 159/2011 al di fuori delle ipotesi espressamente stabilite; in tal senso, la nullità per inosservanza dell’art. 7, comma 2 citato, deve ritenersi circoscritta alla sola ipotesi nella quale non venga notificato l’avviso di fissazione dell’udienza, analogamente a quanto previsto dall’art. 178, lett. b) e c) (Sez. 5, 21831/2017).

L’esistenza di cause di incompatibilità ex art. 34, allorché non rilevata dal giudice con dichiarazione di astensione, né tempestivamente dedotta con istanza di ricusazione, non incide sulla capacità dello stesso e, conseguentemente, non è causa di nullità ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. a) (Sez. 7, 30209/2018).

Le incompatibilità disciplinate dal codice di procedura penale non hanno nulla a che vedere con le condizioni di capacità del giudice, la cui mancanza determina la nullità di ordine generale prevista dall’art. 178. Perciò gli atti compiuti dal giudice incompatibile non sono nulli, ma possono essere dichiarati inefficaci solo con il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione. Ne consegue che l’incompatibilità non può essere dedotta come motivo di impugnazione, ma solo come motivo di ricusazione nelle forme e nei termini prescritti dall’art. 38 (Sez. 24304/2018).

Il vigente codice, tutte le volte che indica il giudice competente all’esercizio della giurisdizione nei diversi stati e gradi del procedimento, si riferisce a singoli organi giudiziari, senza cenno alcuno alla persona fisica dei magistrati che li compongonoNe consegue che, nella fase del giudizio, la richiesta di adozione, modifica o revoca di una misura cautelare deve essere esaminata e decisa dal Tribunale, in composizione monocratica o collegiale, dalla Corte d’assise, dalla Corte d’appello o dalla Corte d’assise d’appello investiti della cognizione, nel merito, del processo, preferibilmente, ma non necessariamente, nella composizione fisica dei magistrati componenti l’organo giudicante che sta conducendo l’istruttoria dibattimentale o che, pur avendo definito il processo in quel determinato grado, è ancora in possesso dei relativi atti. D’altro canto, il principio di immutabilità del giudice, di cui all’art. 525 , è riferito e riferibile solo alla deliberazione della sentenza, in quanto destinato a garantire che il giudizio sulla responsabilità dell’imputato sia espresso, nel rispetto dei principi di oralità, immediatezza e contraddittorio cui si ispira il processo penale, dalle stesse persone fisiche che hanno preso parte al dibattimento e presenziato all’assunzione delle prove: ne consegue che l’eventuale diversità di composizione (rispetto a quella dell’organo competente alla trattazione del processo) dell’organo, collegiale o monocratico, designato nei casi, modi e termini previsti dalle leggi di ordinamento giudiziario, che decida in ordine ad alcuna delle dette richieste in materia cautelare, non incide sulla legittimità dei relativi provvedimenti, stante il principio di tassatività delle nullità e la mancanza di una specifica previsione di tale diversità come causa di nullità o la sua riconducibilità ad alcuna delle ipotesi di nullità di ordine generale previste dall’art. 178, comma 1, lett. a) , che sono tutte connesse alla violazione di norme concernenti la capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi secondo le norme di ordinamento giudiziario (Sez. 2, 28855/2018).

La trattazione congiunta del rito abbreviato con altro procedimento nei confronti di altre posizioni separate nell’ambito dello stesso originario procedimento, non è causa di abnormità o di nullità della decisione, né, tanto meno, di una situazione di incompatibilità suscettibile di tradursi in motivo di ricusazione per il giudice, poiché la coesistenza dei procedimenti comporta solo la necessità che, al momento della decisione, siano tenuti rigorosamente distinti i regimi probatori rispettivamente previsti per ciascuno di essi (Sez. 3, 30895/2018).

La pregiudiziale costituzionale, per espressa previsione normativa (L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, comma 2), determina la sospensione obbligatoria del procedimento che priva il giudice della potestas decidendi fino alla definizione della pregiudiziale medesima, né alle parti è attribuito alcun potere di rimuovere tale stasi processuale, essendo immodificabili ed insindacabili sia l’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale sia il pedissequo provvedimento di sospensione; tuttavia, nell’ipotesi in cui venga obbligatoriamente sospeso un procedimento in cui sia in corso di applicazione una misura cautelare, il soggetto ad essa sottoposto che ritenga di aver maturato il diritto a riacquistare lo status libertatis per il verificarsi di una delle cause estintive del provvedimento coercitivo di cui all’art. 306, non incontra alcun ostacolo a far valere la sua pretesa in giudizio e può quindi promuovere davanti al giudice per le indagini preliminari, o ad uno dei giudici competenti per i vari gradi ai sensi dell’art. 279 , un’azione di accertamento finalizzata alla declaratoria della sopravvenuta caducazione della misura ed all’ottenimento dell’ordinanza di immediata liberazione o di cessazione della misura estinta, secondo quanto dispongono, rispettivamente, il primo e il secondo comma del predetto articolo 306 ; trattasi, invero, di azione di natura dichiarativa, rivolta alla tutela di un diritto assoluto ed inviolabile, esperibile in ogni tempo salvo il limite della preclusione ove la questione abbia già formato oggetto di giudicato cautelare nelle sedi proprie. Le riferite indicazioni inducono, quindi, a ritenere che la pronunciata sospensione del solo giudizio incidentale in ordine al rinvio dell’udienza – con prosecuzione del processo per l’assunzione delle prove integri un provvedimento abnorme (Sez. 5, 25124/2018).

Lassegnazione dei processi in violazione delle tabelle di organizzazione dell’ufficio, salvo il possibile rilievo disciplinare, può incidere sulla costituzione e sulle condizioni di capacità del giudice, determinando la nullità di cui all’art. 33, comma 1, non in caso di semplice inosservanza delle disposizioni amministrative, ma solo quando si determini uno stravolgimento dei principi e dei canoni essenziali dell’ordinamento giudiziario, per la violazione di norme quali quelle riguardanti la titolarità del potere di assegnazione degli affari in capo ai dirigenti degli uffici e l’obbligo di motivazione dei provvedimenti. Lo stravolgimento dei principi e canoni essenziali dell’ordinamento giudiziario non si risolve nella mera inosservanza delle disposizioni amministrative che disciplinano le tabelle degli uffici giudicanti ed i criteri per l’assegnazione degli affari penali, ma deve essere, piuttosto, ravvisato in presenza di situazioni caratterizzate dall’arbitrio nella designazione del giudice e realizzate, al di fuori di ogni previsione tabellare, per costituire un giudice ad hoc (Sez. 5, 10100/2018).

La trattazione da parte del giudice onorario di un procedimento penale diverso da quelli relativi ai reati previsti dall’art. 550 non è causa di nullità, in quanto la disposizione ordinamentale di cui all’art. 43-bis, comma terzo, lett. b), dell’ordinamento giudiziario (RD n. 12 del 30 gennaio 1941), introduce un mero criterio organizzativo dell’assegnazione del lavoro tra i giudici ordinari e quelli onorari (Sez. 5, 5810/2018).

In tema di misure di prevenzione patrimoniali, qualora l’istanza di revoca della confisca venga rigettata dal giudice senza il previo intervento del PM, è inammissibile, per carenza di interesse, l’impugnazione dell’istante volta a far valere, quale vizio del procedimento, la mancata partecipazione del PM; qualora il decreto di inammissibilità della richiesta, previsto dall’art. 666, comma 2, , nel procedimento di esecuzione, non sia stato preceduto dall’acquisizione del prescritto parere del PM, quella che si configura è una nullità a regime “intermedio”, riconducibile alle previsioni di cui all’art.178, comma 1, lett. b),  e non deducibile dalla parte privata ma soltanto dallo stesso PM, per violazione del contraddittorio cartolare alla cui realizzazione è finalizzata l’audizione di detto organo (Sez. 5, 12612/2017).

La carenza di valida delega al vice procuratore onorario per l’esercizio dell’azione penale - ai sensi dell’art. 50 D.Lgs. n. 274 del 2000 - determina una nullità di ordine generale concernente la violazione delle disposizioni relative alla partecipazione necessaria del PM al procedimento. Evidentemente quindi, ed a maggior ragione, integra violazione delle predette disposizioni concernenti la partecipazione necessaria del PM l’esercizio di attività giurisdizionale da parte di vice procuratore onorario la cui nomina, scaduta, non sia stata tempestivamente confermata, non potendosi ritenere sufficiente la successiva ratifica, la quale non può sanare una totale carenza di funzione al momento di concreto svolgimento dell’attività giudiziaria di PM in udienza (Sez. 5, 6216/2016).

L’articolo 666 prescrive, ai commi 3 e 4 (salvi i casi contemplati dal comma 2), il procedimento camerale partecipato, ai sensi dell’art. 127, con l’ulteriore requisito dell’intervento necessario del difensore e del PM. Sicché, se il giudice della esecuzione provvede de plano, fuori dei casi tassativamente previsti dall’ articolo 666, comma 2, con inosservanza delle forme di rito prescritte, tanto comporta la nullità di ordine generale e di carattere assoluto, rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi degli articoli 178 e 179 del procedimento (Sez. 1, 45880/2014).

Secondo un principio di diritto pacifico, l’obbligo della difesa tecnica, sancito dagli artt. 96 e 97, esclude che le parti, anche se abilitate all’esercizio della funzione di avvocato, possano essere difese da sè stesse, non valendo il richiamo, ex art. 6 CEDU, alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, ai fini dell’adeguamento del diritto interno, posto che esso è riferito solo alle norme internazionali di natura consuetudinaria e non a quelle di natura pattizia. Successivamente, si è ribadito che, anche a seguito dell’entrata in vigore della L. 247/2012 (Ordinamento della professione forense), l’autodifesa nel processo penale non è consentita, in difetto di una espressa previsione di legge che la legittimi. Dalla violazione del delineato divieto discende la nullità di ordine generale, assoluta ed insanabile, ex art. 178, comma 1, lett. c) e 179, dell’attività processuale compiuta con l’autodifesa dell’imputato, attesa la carenza di valido presidio defensionaleNullità che non può non ravvisarsi anche nel caso in cui l’assistenza defensionale sia prestata dall’avvocato che ricopra la veste di imputato dello stesso reato, oggetto di un procedimento originariamente unitario e successivamente separato in conseguenza delle diverse opzioni in rito compiute dai concorrenti, atteso che in tale ipotesi, proprio per la stretta interrelazione fra le posizioni soggettive derivante dalla comune imputazione, la difesa da parte del coimputato potrebbe comportare un vulnus ancora più serio all’effettività del diritto di difesa (Sez. 6, 30452/2018).

Le ricerche necessarie ai fini dell’emissione del decreto di irreperibilità devono essere eseguite cumulativamente, e non alternativamente, in tutti i luoghi indicati dall’art. 159, derivando, diversamente, la nullità assoluta del decreto di irreperibilità e delle conseguenti notificazioni, se attinenti alla citazione dell’imputato (Sez. 1, 32329/2018).

Quando dalla progressione processuale non emerga alcun elemento indicativo della incapacità dell’imputato di comprendere gli atti a lui diretti e della correlata lesione del diritto alla partecipazione consapevole, non incombe sul giudice alcun obbligo di attivare i presidi di tutela indicati dall’art. 143  che devono essere disposti solo ove emergano elementi univocamente indicativi della incapacità di comprensione della lingua italiana, essendo escluso che tale incapacità possa essere riconosciuta solo perché l’imputato non ha la cittadinanza italiana.  La eventuale nullità generata dalla mancata attivazione dei presidi di garanzia previsti dall’art. 143 è peraltro qualificabile come generale a regime intermedio, dato che è generata dalla lesione del diritto di difesa conseguente al mancato esercizio del diritto alla partecipazione consapevole: la stessa è pertanto sottoposta al regime di decadenze e sanatorie previsto dagli artt. 178 e ss.  (Sez. 2, 30379/2018).

La mancata traduzione nella lingua dell’imputato alloglotta del decreto di citazione a giudizio, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 143 come interpretato da Corte costituzionale, sentenza 12 gennaio 1993 n. 10, integra una nullità generale di tipo intermedio (artt. 178, lett. c) e 180) la cui deducibilità è soggetta a precisi termini di decadenza e che resta sanata dalla comparizione della parte (Sez. 2, 31292/2018).

Sono valide le notifiche effettuate all’imputato presso il difensore di fiducia dopo la prima eseguita personalmente, salvo espressa dichiarazione di non accettazione del difensore, non allegata nel caso di specie, o di dichiarazione o elezione di domicilio (SU, 58120/2017).

L’omesso avviso al difensore di fiducia della data fissata per la celebrazione del giudizio abbreviato di appello determina una nullità di ordine generale intermedio che non è sanata dalla mancata eccezione del vizio di notifica da parte del sostituto d’ufficio, ex art. 97, comma 4, del difensore non avvisato (Sez. 2, 28180/2018).

Quanto al mancato avviso dell’interrogatorio ex art. 294  a uno dei due difensori nominati, tale omissione non dà luogo ad una nullità assoluta, ex art. 179, bensì a regime intermedio, ai sensi dell’art. 180 del codice di rito, con la conseguenza che tale vizio è da ritenersi sanato se la parte o uno dei suoi difensori presenti all’atto non la eccepiscono prima del suo compimento ovvero nel caso di mancata comparizione di entrambi i difensori all’udienza, implicando tale condotta la volontaria e consapevole rinuncia della difesa e della parte, globalmente considerata, a far rilevare l’omessa comunicazione ad uno dei difensori (Sez. 2, 31755/2018).

La nullità per erronea dichiarazione di assenza in luogo della contumacia è a regime intermedio perché attinente all’intervento dell’imputato ex art. 178, lett. e) cosicché essa deve essere eccepita immediatamente dal difensore nel relativo giudizio (Sez. 7, 31524/2018).

Non è ravvisabile il legittimo impedimento a comparire dell’imputato sottoposto alla misura dell’obbligo di dimora in comune diverso da quello in cui ha sede il Tribunale procedente, quando lo stesso non abbia chiesto l’autorizzazione al giudice competente per partecipare all’udienza (Sez. 7, 27781/2018).

Determina una nullità d’ordine generale, a regime intermedio, la mancata traduzione in udienza dell’imputato detenuto e regolarmente citato che, non essendo assoluta, non può essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo (Sez. 4, 26856/2018).

La contestuale ricorrenza di una causa estintiva del reato e di una nullità processuale della sentenza non impone nel giudizio di cassazione l’annullamento di questa se risulta – e la circostanza nel caso di specie è pacifica – che il giudice di merito non potrebbe comunque ritenere sussistenti le condizioni per pronunciare, attraverso una operazione di mera constatazione, un proscioglimento nel merito, ai sensi dell’art. 129, comma 2 (Sez. 3, 31418/2018).

L’omesso avviso della richiesta di archiviazione alla persona offesa, che ne abbia fatto espressa richiesta determina la violazione del contraddittorio e la conseguente nullità del decreto di archiviazione ai sensi dell’art. 127, comma 5 (Sez. 6, 27768/2018).

L’atto di costituzione e la correlata nomina fiduciaria del difensore rappresentano l’esternazione della volontà della persona giuridica di partecipare in modo attivo e consapevole al processo instaurato a carico dell’ente. Ne segue che la revoca illegittima di tali atti si risolve, di fatto, nella esclusione dell’ente dal processo, ovvero nella violazione della disciplina prevista dall’art. 39 del D. Lgs. 231/2001 che regola in modo tassativo le modalità (costituzione e nomina del difensore di fiducia) attraverso le quali l’ente manifesta la volontà di partecipazione attiva al procedimento ed al processoAnche in questo caso, come in quello analizzato nel paragrafo che precede, gli enti ricorrenti a causa della dichiarazione di contumacia, effettuata nonostante la regolarità e costituzione della correlata, ed altrettanto illegittima, nomina di un difensore di ufficio sostitutivo di quello regolarmente nominato non hanno partecipato al procedimento nelle forme tassative previste dal citato art. 39. La nullità assoluta conseguente alla “sostanziale assenza” dell’ente e del difensore legittimamente nominato impone la regressione del procedimento alla fase in cui la nullità si è verificata, ovvero a quella della apertura del dibattimento (quando cioè era stata illegittimamente dichiarata la contumacia con rimozione del difensore di fiducia legittimamente nominato ed illegittima sostituzione con difensore di ufficio) (Sez. 2, 41012/2018).

Secondo un principio di diritto pacifico, l’obbligo della difesa tecnica, sancito dagli artt. 96 e 97, esclude che le parti, anche se abilitate all’esercizio della funzione di avvocato, possano essere difese da sé stesse, non valendo il richiamo, ex art. 6 CEDU, alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, ai fini dell’adeguamento del diritto interno, posto che esso è riferito solo alle norme internazionali di natura consuetudinaria e non a quelle di natura pattizia. Successivamente, si è ribadito che, anche a seguito dell’entrata in vigore della L. 247/2012 (Ordinamento della professione forense), l’autodifesa nel processo penale non è consentita, in difetto di una espressa previsione di legge che la legittimi. Dalla violazione del delineato divieto discende la nullità di ordine generale, assoluta ed insanabile, ex art. 178, comma 1, lett. c) e 179, dell’attività processuale compiuta con l’autodifesa dell’imputato, attesa la carenza di valido presidio defensionaleNullità che non può non ravvisarsi anche nel caso in cui l’assistenza defensionale sia prestata dall’avvocato che ricopra la veste di imputato dello stesso reato, oggetto di un procedimento originariamente unitario e successivamente separato in conseguenza delle diverse opzioni in rito compiute dai concorrenti, atteso che in tale ipotesi, proprio per la stretta interrelazione fra le posizioni soggettive derivante dalla comune imputazione, la difesa da parte del coimputato potrebbe comportare un vulnus ancora più serio all’effettività del diritto di difesa (Sez. 6, 30452/2018).

In tema di notificazione della citazione dell’imputato, la nullità assoluta e insanabile prevista dall’art. 179  ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184  e comunque la decadenza dalla possibilità di farla rilevare oltre i termini previsti dall’art. 180 (Sez. 2, 29447/2018).

In tema di misure cautelari, il provvedimento genetico è affetto da nullità di ordine generale assoluta ed insanabile ai sensi del combinato disposto degli artt. 178, comma 1, lett. b) e 179, quando il titolo cautelare non è sorretto dalla richiesta di applicazione della misura del PM (Sez. 5, 23657/2018).

L’inesatta indicazione della data di udienza nel decreto di citazione è causa di nullità perché equivale a un’omessa citazione (Sez. 6, 16391/2018).

L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma 1 lett. c) e 179, comma 1, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma 4 (SU, 24630/2015).

L’istanza di rinvio dell’udienza presentata dal difensore per concomitante impegno professionale è soggetta ai seguenti requisiti di ammissibilità: tempestiva prospettazione dell’impedimento, rappresentazione delle ragioni che rendono essenziale la presenza del difensore nel diverso processo, indicazione dell’assenza nel primo processo di altro codifensore che possa validamente difendere l’imputato, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto ai sensi dell’art.102 ., sia nel processo a cui intenda partecipare sia in quello in cui chiede il rinvio. Solo all’esito di tale verifica preliminare, il giudice dovrà accertare il carattere eventualmente dilatorio della richiesta, valutando nel merito l’urgenza del procedimento concomitante, tenuto conto dell’obbligo di diligenza gravante sul difensore, che gli impone di dare preferenza alla posizione processuale che risulterebbe maggiormente pregiudicata dalla mancata trattazione del giudizio. Qualora il giudice ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio, può configurarsi la nullità della sentenza (Sez. 4, 24364/2018).

L’anticipazione dell’udienza rispetto all’ora prefissata integra una nullità assoluta in quanto, impedendo l’intervento dell’imputato e l’esercizio del diritto di difesa, equivale alla sua omessa citazione (Sez. 4, 18431/2018).

Se un imputato è assistito da due difensori di fiducia e uno dei due non è stato citato, tale omissione comporta una nullità insanabile. La circostanza che il difensore presente all’udienza non abbia proposto alcuna eccezione non determina la sanatoria della nullità verificatasi, se tale difensore non è stato nominato di fiducia e non è neanche il sostituto di uno dei difensori di fiducia (Sez. 5, 15717/2018).

Una volta venuto meno per qualunque causa il difensore originariamente preposto, il giudice, che abbia preso di ciò contezza, deve designare un difensore di ufficio all’imputato che non provveda ad autonoma nomina fiduciaria. La sostituzione, ex art. 97, comma 4, può essere in tal caso giustificata soltanto allorché alla designazione di cui sopra non si sia potuto tempestivamente provvedere  in particolare, a fronte di una ritardata comunicazione dell’atto dismissivo del mandato fiduciario rispetto all’incombente da realizzare; esaurito il quale, la nomina ex art. 97, comma 1, del codice torna doverosa. L’inosservanza di tale precetto da parte del giudice, e quindi il fatto di avere questi viceversa nominato di volta in volta, in relazione ai successivi sviluppi della fase processuale, un sostituto difensore sempre diverso, scelto soltanto sulla base del criterio della pronta reperibilità, non assicura l’indispensabile stabilità del rapporto con l’imputato né garantisce l’assunzione di adeguate iniziative a sua tutela, sì da ingenerare nullità da radicale negazione del concetto stesso di equo processo (Sez. 1, 16958/2018).

L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare configura un’ipotesi di nullità assoluta ed insanabile, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento equiparabile all’omessa citazione dell’imputato (Sez. 5, 32657/2018).

Quanto al mancato avviso dell’interrogatorio ex art. 294 a uno dei due difensori nominati, tale omissione non dà luogo ad una nullità assoluta, ex art. 179, bensì a regime intermedio (Sez. 2, 31755/2018).

Nell’ipotesi di sentenza d’appello pronunciata de plano in violazione del contraddittorio tra le parti, che, in riforma della sentenza dì condanna di primo grado, dichiari l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di Cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2 (SU, 28954/2017).

Se è indubbiamente fondato il rilievo della nullità assoluta ed insanabile della sentenza predibattimentale impugnata, allorché emessa de plano, in violazione del contraddittorio tuttavia ciò non comporta la necessaria regressione del procedimento alla fase del merito in quanto il giudice del rinvio non potrebbe far altro che confermare il medesimo esito terminativo del processo, con conseguente carenza di interesse dell’ufficio del PM ad impugnare la sentenza de qua (Sez. 2, 25978/2018).

La sentenza predibattimentale di appello, di proscioglimento dell’imputato per intervenuta prescrizione, emessa de plano, è viziata da nullità assoluta ed insanabile, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. b) e c), 179, comma 1.  Il contraddittorio tra le parti, infatti, ha valore di rango costituzionale (art. 111, comma 2, Cost.), ampiamente valorizzato dalla giurisprudenza EDU, ed è il postulato indefettibile di ogni pronuncia terminativa del processo, la cui violazione è il paradigma da cui traggono origine tutte le forme di nullità previste dal codice di rito (Sez. 3, 25002/2018).

Nell’ipotesi di sentenza d’appello pronunciata de plano in violazione del contradditorio tra le parti, che, in riforma della sentenza di condanna di primo grado, dichiari l’estinzione del reato per prescrizione, la causa estintiva del reato prevale sulla nullità assoluta ed insanabile della sentenza, sempreché non risulti evidente la prova dell’innocenza dell’imputato, dovendo la Corte di cassazione adottare in tal caso la formula di merito di cui all’art. 129, comma 2 (SU, 28954/2017).

In presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (Sez. 5, 32624/2018).

Nel giudizio abbreviato, sono rilevabili e deducibili le nullità assolute di cui all’art. 179, comma 1, la cui presenza può dirsi impedisca la nascita del processo quale voluto dal vigente ordinamento e le inutilizzabilità cosiddette patologiche (relative a prove assunte contra legem). Ne consegue che l’eventuale irritualità nell’acquisizione di un atto probatorio è neutralizzata dalla scelta negoziale delle parti di tipo abdicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti di indagine compiuti senza rispetto delle forme di rito (Sez. 6, 19496/2018).

Il provvedimento assunto dal giudice dell’esecuzione de plano, senza fissazione dell’udienza in camera di consiglio, fuori dei casi espressamente stabiliti dalla legge, ricorribile per cassazione ai sensi dell’ultimo inciso dell’art. 666, comma 2, è affetto da nullità di ordine generale e a carattere assoluto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi degli artt. 178 e 179, per effetto della estensiva applicazione delle previsioni della omessa citazione dell’imputato e dell’assenza del suo difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza (Sez. 1, 32279/2018).

Nel giudizio di esecuzione non trova applicazione la disposizione di cui all’art. 157, comma 8-bis, se si tratta della prima notificazione dopo l’instaurazione del giudizio di esecuzione, ovvero quella di cui all’art. 161 comma 4, se il condannato non ha dichiarato o eletto domicilio nel processo di esecuzione. E poiché nel caso specifico il ricorrente non ha ricevuto nessuna comunicazione personale dopo l’instaurazione del processo esecutivo e, non potevano essere applicate le norme dianzi richiamate, la sua omessa citazione nel giudizio di esecuzione e l’irregolarità nell’instaurazione del contraddittorio determina una nullità assoluta ex art. 178 lett. c) e art. 179 (Sez. 1, 31037/2018).

Il mancato esperimento del tentativo di conciliazione nel processo dinanzi al giudice di pace non dà luogo a nessuna nullità, giacché la previsione di cui all’art. 29, comma 4, D. Lgs. 274/2000 per la quale il giudice promuove la conciliazione tra le parti, non sfugge alla discrezionalità del giudice, il quale, intanto darà corso alla conciliazione, in quanto ritenga che essa sia possibile; ne consegue che, qualora il querelante non compaia e, comunque, non dia segni di disponibilità alla conciliazione ed in analoga situazione versi il querelato, il quale può avere autonomo interesse all’accertamento negativo di responsabilità, il mancato espletamento del tentativo di conciliazione non può essere censurato, poiché, in caso contrario, attribuirebbe alla norma una funzione dilatoria, inconciliabile con il principio di economia processuale che la ispira (Sez. 5, 32377/2018).

In tema di MAE, l’inosservanza da parte della PG, incaricata dell’esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura coercitiva emessa dalla corte di appello, del dovere di informare l’arrestato o il fermato della facoltà di nominare un difensore nello Stato richiedente, ai sensi dell’art. 9, comma 5-bis, L. 69/2005, introdotto dall’art. 4, comma 1, lett. h), D. Lgs. 184/2016, non determina alcuna invalidità o inefficacia dell’atto di arresto o della sentenza che dispone la consegna dell’interessato.

Peraltro, pur volendo prescindere dal principio richiamato e ritenere che l’inosservanza della informazione prevista dall’art. 9, comma 5-bis, L. 69/2005 produca una nullità, questa, non riguardando l’iniziativa del PM o l’omessa citazione dell’imputato o l’assenza del difensore nei casi in cui ne è obbligatoria la presenza, non è assoluta, ma a regime intermedio, attenendo all’intervento ed all’assistenza dell’imputato, e, pertanto, ai sensi degli artt. 180 e 182 , deve essere eccepita, se la parte è presente, immediatamente, ovvero, nel caso in cui non lo sia, prima della deliberazione della decisione di primo grado, costituita, nel caso in esame, da quella oggetto del ricorso (Sez. 6, 33705/2018).

Le Sezioni Unite, nello statuire l’obbligo del PM di provvedere a mettere a disposizione tempestivamente le registrazioni delle intercettazioni (SU, 20300/2010), hanno precisato che l’illegittima compressione del diritto di difesa, derivante dal rifiuto o dall’ingiustificato ritardo del PM rispetto a tale obbligo, dà luogo ad una nullità di ordine generale a regime intermedio, ai sensi dell’art. 178, lett. c), in quanto determina un vizio nel procedimento di acquisizione della prova, che non inficia l’attività di ricerca della stessa ed il risultato probatorio, in sé considerati. In conseguenza di tale vizio, se esso è stato ritualmente dedotto in sede di riesame ed il Tribunale non abbia potuto acquisire il relativo supporto fonico entro il termine perentorio di cui all’art. 309, comma 9, le suddette trascrizioni non possono essere utilizzate come prova nel giudizio de libertate ma ciò non determina la nullità del genetico provvedimento impositivo, legittimamente fondato sugli atti a suo tempo prodotti a sostegno della sua richiesta dal PM, né la inutilizzabilità degli esiti delle captazioni effettuate, perché questa scaturisce solo nelle ipotesi indicate dall’art. 271, comma 1, né ancora la perdita di efficacia della misura, giacché la revoca e la perdita di efficacia della misura cautelare conseguono solo nelle ipotesi espressamente previste dalla legge (artt. 299, 300, 301, 302, 303, 309, comma 10): gli atti di intercettazione sono in sé pienamente validi e potranno essere considerati elementi probatori non appena le difese avranno la concreta possibilità di prenderne cognizione diretta e non limitata agli schemi riassuntivi ed alle trascrizioni effettuate dalla PG.

L’omesso avviso all’interessato della data e del luogo di espletamento delle analisi dei campioni per i quali non è prevista la revisione configura una nullità a regime intermedio, atteso che la mancanza dell’avviso dell’inizio del procedimento di analisi non integra una violazione del contraddittorio (Sez. 3, 30884/2018).

L’omesso deposito degli atti in cancelleria prima della celebrazione dell’interrogatorio di garanzia determina la nullità dell’interrogatorio dell’indagato (o dell’imputato) ai sensi degli artt. 178, comma 1, 180, 182, nullità a regime intermedio che deve essere eccepita al compimento dell’atto, ossia dell’interrogatorio (Sez. 6, 18840/2018).

La mancata notifica all’imputato e al difensore dell’avviso della richiesta di proroga del termine delle indagini preliminari, costituisce vizio di nullità relativa a regime intermedio che avrebbe dovuto essere eccepito dopo l’accertamento per la prima volta della costituzione delle parti, ai sensi degli artt. 181, comma 2, e 491, comma 1 (Sez. 1, 54075/2017).

Le nullità di ordine generale a regime intermedio non possono essere dedotte a seguito della scelta del giudizio abbreviato, in quanto la richiesta del rito speciale opera un effetto sanante delle nullità ai sensi dell’art. 183 (Sez. 3, 30654/2018).

La nullità del decreto di citazione a giudizio per l’omessa notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari al difensore di fiducia è a regime intermedio e, pertanto, deve essere eccepita prima della deliberazione della sentenza di primo grado (Sez. 6, 2382/2018).

È nulla la notificazione eseguita a norma dell’art. 157, comma 8-bis, presso il difensore di fiducia, qualora l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni. Trattasi tuttavia di nullità di ordine generale a regime intermedio, che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa, ed è, comunque, priva di effetti se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma 1, alle sanatorie generali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180  (Sez. 3, 29628/2018).

La dichiarazione di nomina del difensore di fiducia effettuata dall’imputato (o indagato) detenuto con atto ricevuto dal direttore dello stabilimento di custodia a norma dell’art. 123, ha immediata efficacia come se fosse direttamente ricevuta dall’AG destinataria, alla quale deve essere comunicata con urgenza con le modalità e gli strumenti previsti dall’art. 44 Att.; ne consegue che è affetto dalla nullità di carattere generale a regime intermedio di cui all’art. 178 lett. c) l’atto compiuto in mancanza del previo avviso al difensore di fiducia così tempestivamente nominato, ancorché la nomina non sia pervenuta all’ufficio dell’autorità procedente prima della fissazione dell’atto medesimo (Sez. 4, 29294/2018).

Il rituale avviso al difensore di fiducia è dovuto e la relativa omissione dà luogo a nullità, a nulla rilevando la circostanza che si tratti di impugnazione avverso la sentenza pronunciata a seguito di rito abbreviato e, pertanto, a partecipazione soltanto facoltativa delle parti (Sez. 1, 9419/2018).

La violazione del termine a comparire di venti giorni stabilita dall’art. 601, comma 3, non risolvendosi in una omessa citazione dell’imputato, costituisce una nullità a regime intermedio che risulta sanata nel caso in cui non sia eccepita entro i termini previsti dall’art. 180, richiamato dall’art. 182 (Sez. 7, 27323/2018).

Determina una nullità d’ordine generale, a regime intermedio, la mancata traduzione in udienza dell’imputato detenuto e regolarmente citato che, non essendo assoluta, non può essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo (Sez. 4, 26856/2018).

L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza non determina una nullità assoluta ed insanabile, ma una nullità a regime intermedio ai sensi dell’art. 180 la quale, pertanto, non può essere eccepita per la prima volta con l’atto introduttivo del giudizio di cassazione (Sez. 7, 11425/2018).

L’omissione della comunicazione al difensore della data di inizio delle operazioni determina la nullità a regime intermedio della perizia a norma dell’art. 178, comma 1, lett. c) e 180, da eccepire a pena di decadenza, anteriormente alla definizione del giudizio di primo grado (Sez. 6, 24930/2018).

È affetta da nullità a regime intermedio, rilevabile e/o deducibile ex art. 182, la nomina da parte del perito officiato della trascrizione delle intercettazioni, di un esperto, quale suo ausiliario, che proceda alla traduzione delle conversazioni, trattandosi di attività non meramente meccanica, che richiede di scegliere, tra più significati equipollenti di una parola, quella nella sostanza più fedele al contenuto del dialogo (Sez. 2, 6296/2016).

In tema di guida in stato di ebbrezza, la violazione dell’obbligo di dare avviso, al conducente da sottoporre in quel caso all’esame alcolimetrico della facoltà di farsi assistere da un difensore di fiducia, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio che può essere tempestivamente dedotta, a norma del combinato disposto degli artt. 180 e 182, comma 2,, fino al momento della deliberazione della sentenza di primo grado ma che deve ritenersi sanata, ai sensi dell’art. 183 , qualora l’imputato formuli una richiesta di rito abbreviato (Sez. 4, 16131/2017).

Nel procedimento di esecuzione, disciplinato dall’art. 666, si applica la norma di cui all’art. 127, comma 4 e comma 5, che dispone, a pena di nullità, che l’udienza debba essere rinviata ove il condannato, che abbia fatto richiesta di essere sentito personalmente, sia legittimamente impedito ad essere presente all’udienza; si tratta di nullità a regime cd. intermedio di cui all’art. 180 (Sez. 1, 16534/2018).

La sanzione processuale conseguente alla violazione delle disposizioni che definiscono il contenuto tassativo del provvedimento applicativo di una misura cautelare personale integra una nullità relativa (in quanto non riconducibile ad alcuno dei casi previsti dagli artt. 178 e 179) seppure sui generis, giacché ne è prevista la rilevabilità anche d’ufficio (ma non in ogni stato e grado del procedimento). Il relativo regime di deducibilità - in assenza di specifiche previsioni di segno diverso - è dunque quello ordinario previsto dall’art. 181 (Sez. 5, 27958/2018).

Non può essere rilevata per la prima volta in sede di legittimità la nullità derivante dalla mancanza degli elementi di identificazione dell’ordinanza che dispone la custodia in carcere, previsti dall’art. 292, comma secondo lett. b) , trattandosi di nullità relativa, disciplinata dalle regole generali in tema di deducibilità e segnatamente dall’art. 181, ultimo comma, con la conseguenza che essa deve essere eccepita con l’impugnazione dell’ordinanza applicativa dinanzi al Tribunale del riesame, restando altrimenti preclusa la sua deducibilità e la sua rilevabilità (Sez. 5, 4618/2015).

L’omesso avviso all’indagato della data fissata per l’udienza camerale di riesame è causa di una nullità che, seppur non definita assoluta dall’art. 127, comma 5, e non attinente ad una ipotesi in cui è obbligatoria la presenza del difensore, soggiace alla disciplina di cui agli artt. 180, 181 e 182 (Sez. 4, 41375/2016).

Se è vero che, quando è stata proposta opposizione, il decreto penale deve essere revocato, tuttavia esso funge sostanzialmente da atto di introduzione del giudizio conseguente all’opposizione e l’imputazione non può che essere quella risultante dal decreto penale: in caso contrario, come nella specie, si verifica un’invalidità della citazione a giudizio per omessa enunciazione del fatto in forma chiara e precisa (artt. 456, comma 1, 429 comma 1 lett. c) e comma 2, ); si tratta di nullità relativa che, a norma dell’articolo 181, deve essere dedotta, come pure avvenuto nella specie, nel termine di cui all’articolo 491, comma 1, ossia subito dopo il compimento delle formalità relative alla costituzione delle parti (Sez. 3, 19689/2018).

La nullità conseguente all’incompatibilità dell’interprete ha natura relativa e, pertanto, nell’ipotesi in cui la parte vi assista, deve essere eccepita, a pena di decadenza, prima del compimento dell’atto ovvero, se ciò non è possibile, immediatamente dopo (Sez. 4, 29113/2018).

L’inosservanza dell’obbligo di traduzione degli atti del procedimento instaurato nei confronti dell’imputato alloglotta causa una nullità relativa eccepibile ex art. 181 (Sez. 7, 44820/2017).

L’inosservanza del termine di comparizione dell’imputato costituisce una nullità relativa, che è sanata se non eccepita nei termini di cui all’art. 181 e non una nullità assoluta, configurabile solo in caso di omessa citazione dello stesso (Sez. 7, 28638/2018).

L’indeterminatezza/incompletezza dell’imputazione si traduce in una nullità relativa, ex art. 181 comma 3, che deve essere rilevata alla prima udienza dibattimentale nel termine di cui all’art. 491 comma 1 ovvero subito dopo l’accertamento della costituzione delle parti (Sez. 4, 13457/2017).

La revoca dell’ordinanza ammissiva di testi della difesa, resa in difetto di motivazione sulla superfluità della prova, produce una nullità di ordine generale che deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente, ai sensi dell’art. 182, comma 2, con la conseguenza che in caso contrario essa è sanata (Sez. 2, 18206/2018).

L’omissione dell’avvertimento relativo alla facoltà per i prossimi congiunti dell’imputato di astenersi dal deporre non determina l’inutilizzabilità della testimonianza del congiunto non avvertito, bensì una nullità di natura relativa, che deve pertanto essere eccepita immediatamente dalla parte che assiste alla deposizione e comunque, a pena di decadenza, entro i termini fissati all’art. 181 (Sez. 7, 32264/2018).

La celebrazione del giudizio di appello con rito camerale, fuori dai casi previsti dall’art. 599, determina una nullità relativa soggetta ai limiti di deducibilità di cui all’art. 182 (ossia deve essere eccepita a pena di decadenza, dalle parti presenti prima che venga compiuto il primo atto del procedimento o, se non è possibile, subito dopo (Sez. 2, 3663/2016).

La richiesta di rito abbreviato produce un effetto sanante delle nullità non assolute, ai sensi dell’art. 183. Nè ciò comporta un vulnus ad alcun parametro costituzionale, essendo rimessa alla volontà dell’imputato l’opzione inerente all’adozione del rito abbreviato, costituendo la richiesta di accesso a tale rito una domanda di giudizio sul merito dell’imputazione e rappresentando perciò essa una accettazione degli effetti dell’atto di esercizio dell’azione penale.

Accedendo al rito speciale, infatti, la parte liberamente accetta di abdicare al potere di eccepire le nullità intermedie, chiedendo di essere giudicata attraverso un rito le cui regole e articolazioni processuali escludono la deducibilità di nullità a regime intermedio, come si evince dall’art. 183 lett. a) che normativizza la sanatoria delle nullità mediante la rinuncia per facta concludentia, individuabile nell’ esplicita e consapevole richiesta di un rito governato da regole diverse rispetto a quelle dell’ordinario dibattimento. Ciò è stato affermato per quanto attiene sia agli atti di valenza sia agli atti di natura propulsiva (6, 1335/2016).

L’omessa notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari determina una nullità a regime intermedio della richiesta di rinvio a giudizio, la quale rimane sanata dalla presentazione da parte dell’imputato della richiesta di giudizio abbreviato (Sez. 6, 35663/2017).

In caso di dichiarazione o di elezione di domicilio dell’imputato, la notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, produce una nullità a regime intermedio, che non è sanata dalla mancata allegazione da parte del difensore di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato (SU, 58120/2017).

L’eccezione di nullità del giudizio di primo e secondo grado per nullità della notifica dei relativi decreti di citazione a giudizio deve essere respinta quando risulti provato che non è stato impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa (Sez. 2, 57147/2017).

L’omessa notifica dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari determina una nullità a regime intermedio della richiesta di rinvio a giudizio, la quale rimane sanata dalla presentazione da parte dell’imputato della richiesta di giudizio abbreviato (Sez. 6, 35663/2017).

In caso di dichiarazione o di elezione di domicilio dell’imputato, la notificazione della citazione a giudizio mediante consegna al difensore di fiducia anziché presso il domicilio dichiarato o eletto, produce una nullità a regime intermedio, che non è sanata dalla mancata allegazione da parte del difensore di circostanze impeditive della conoscenza dell’atto da parte dell’imputato (SU, 58120/2017).

L’eccezione di nullità del giudizio di primo e secondo grado per nullità della notifica dei relativi decreti di citazione a giudizio deve essere respinta quando risulti provato che non è stato impedito all’imputato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa (Sez. 2, 57147/2017).

Quando una violazione processuale non determina, in concreto, alcun pregiudizio ai diritti di difesa, deve escludersi che la eventuale nullità possa estendersi anche agli atti successivi, ai sensi dell’art. 185, in quanto tale effetto si produce solo quando sia stato effettivamente condizionato il compimento degli atti che sono conseguenza necessaria ed imprescindibile di quello nullo e non degli atti che si pongono semplicemente in obbligata sequenza temporale con quest’ultimo (Sez. 1, 2018/2018).

Ai sensi dell’art. 185 la nullità rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo, ma tale dipendenza va in concreto determinata sul piano giuridico e non solo sul piano logico. L’ordinamento legittima una lettura non rigorosamente formalistica degli effetti connessi ad un atto processuale nullo, che in concreto non ha dato luogo ad un danno misurabile e non ha aggredito il nucleo della garanzia oggetto di tutela, ove si considerino la prevista categoria concettuale della sanatoria per “conseguimento dello scopo, il richiesto interesse – concreto ed attuale – a fare valere la nullità e gli effetti diffusivi o no di questa. È vero che le forme processuali sono un valore, ma lo sono in quanto funzionali alla celebrazione di un giusto processo, i cui principi non vengono certamente compromessi da una nullità in sé “irrilevante” o inidonea a riverberarsi sulla validità degli atti processuali successivi. I confini di tale fenomeno vanno ovviamente individuati alla luce del significato da attribuire all’espressione codicistica di cui al comma 1 dell’art. 185 “atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo”, espressione che indica il limite della diffusione del vizio. Tale propagazione va circoscritta, come incisivamente si è affermato, alle sole sequele dinamiche necessarie, cioè ai soli casi in cui sia dato rinvenire tra gli atti un collegamento giuridico-funzionale assolutamente indefettibile, nel senso che l’atto nullo deve porsi come condizione necessaria ed imprescindibile per il compimento di quello successivo, che finisce per essere inevitabilmente contaminato dal vizio del primo: deve sussistere, cioè, un nesso di dipendenza reale ed effettiva tra gli atti, rimanendo ininfluenti quei vincoli di carattere meramente cronologico ed occasionale (Sez. 6, 33261/2016).

L’onere di provare il fatto processuale, dal quale dipenda l’accoglimento dell’eccezione procedurale, grava sulla parte che ha sollevato l’eccezione stessa (Sez. 6, 14243/2017).

L’eventuale violazione dell’art. 188, come, del resto, delle norme che disciplinano l’esame testimoniale e delle parti non è sanzionata da inutilizzabilità della prova, ma può rilevare solo nell’ambito della valutazione di attendibilità della prova.  In ogni caso l’espressione “buttare via la chiave” utilizzata dal PM è di uso comune e rappresenta il rischio di una situazione processuale gravemente compromessa, e il suo significato, nell’accezione comune, non è nel senso di una perdita definitiva delle garanzie che l’ordinamento comunque riconosce all’indagato (Sez. 29540/2018).

Il divieto di cui all’art. 188 si riferisce all’utilizzo di «metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti». La norma è, quindi, finalizzata a tutelare la libertà morale della “persona interessata” che non dev’essere condizionata da forme di coercizione fisica o coazione morale o psichica da parte degli inquirenti: ed infatti, la dottrina nell’esemplificare «i metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti» è unanime nel ritenere che i suddetti “metodi e tecniche” si riferiscano a tutte quelle tecniche che, o fisicamente (ad es. torture; uso del cd. lie detector; narcoanalisi; uso di sieri della verità) o psicologicamente (ipnosi;) siano idonee a fiaccare la volontà della persona (Sez. 2, 9494/2018).

La sanzione della inutilizzabilità di cui all’art. 191 è posta a garanzia delle posizioni difensive e colpisce le prove a carico illegittimamente acquisite contro divieti di legge; ne consegue che tale inutilizzabilità non può essere ritenuta al fine di ignorare un elemento di giudizio favorevole alla difesa che, invece, deve essere considerato e discusso secondo i canoni logico razionali propri del processo (Sez. 6, 1422/2018).

Il giudice è indiscutibilmente tenuto a rilevare d’ufficio l’inutilizzabilità che risulti dagli atti, ma non è tenuto a ricercarne, d’ufficio la prova. L’onere di provare l’illegalità del procedimento di ammissione dell’intercettazione incombe su chi formuli l’eccezione di inutilizzabilità che se ne vuole desumere, perché per i fatti processuali, a differenza per quanto avviene per i fatti penali, ciascuna parte ha l’onere di provare quelli che adduce, quando essi non risultino documentati nel fascicolo degli atti di cui il giudice disponeNon c’è dubbio, quindi, che anche in relazione alle questioni rilevabili d’ufficio il giudice abbia il potere di riconoscere gli “effetti giuridici dei fatti”, ma che incomba alle parti l’onere di allegazione da esercitare nei tempi e nei modi previsti dal codice di rito (SU, 45189/2004).

Nella ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 2, 31803/2018).

Il mancato avvertimento di cui all’art. 64, comma 3, lett. c), all’imputato di reato connesso o collegato a quello per cui si procede, che avrebbe dovuto essere esaminato in dibattimento ai sensi dell’art. 210, comma, determina la inutilizzabilità della deposizione testimoniale resa senza garanzie (SU, 33583/2015).

Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia oltre il termine di centottanta giorni dalla manifestazione della volontà di collaborare sono utilizzabili nella fase delle indagini preliminari, in particolare ai fini della emissione delle misure cautelari personali e reali, oltre che nell’udienza preliminare e nel giudizio abbreviato (Sez. 2, 21914/2016).

Le spontanee dichiarazioni rese dall’indagato alla PG, disciplinate dall’art. 350 comma 7, sono pienamente utilizzabili nella fase delle indagini preliminari. Tale disposizione preclude l’utilizzazione delle dichiarazioni spontanee dell’indagato (poi imputato) nel solo dibattimento ma non certo nel giudizio abbreviato. Con la conseguenza, quindi, di un pieno valore probatorio delle dichiarazioni autoindizianti rilasciate dall’imputato nella fase delle indagini preliminari (Sez. 6, 53803/2014).

Sono inutilizzabili le prove acquisite oltre il termine di durata delle indagini preliminari decorrente dalla data della prima iscrizione soltanto quando il PM, dopo l’iniziale iscrizione del registro delle notizie di reato, abbia provveduto ad una successiva iscrizione relativa al medesimo fatto diversamente circostanziato (Sez. 6, 29151/2017).

L’inutilizzabilità degli atti erroneamente inseriti nel fascicolo del dibattimento non è automatica ma consegue alla tempestiva eccezione di parte, da proporre entro il termine previsto dall’art. 491, comma 2, posto che la legge consente l’acquisizione, su accordo delle parti, di atti ulteriori rispetto a quelli previsti dall’art. 431, comma 1 (Sez. 7, 31096/2018).

I risultati del prelievo ematico effettuato per le terapie di pronto soccorso successive ad un incidente stradale, non preordinato a fini di prova della responsabilità penale, ma di cura ed assistenza, sono utilizzabili per l’accertamento del reato di guida in stato di ebbrezza senza che rilevi la “mancanza di un preventivo consenso” dell’interessato (Sez. 4, 25127/2018).

Dalla nullità della perizia trascrittiva non deriva senz’altro l’inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni, come sostenuto dai ricorrenti, in quanto la prova è costituita dalle bobine e dai verbali e la trascrizione costituisce la mera trasposizione grafica del contenuto delle stesse, ferma restando la possibilità del giudice del dibattimento di utilizzarle indipendentemente dalla trascrizione, procedendo direttamente all’ascolto o disponendo nuova perizia, cosicché non è corretto far discendere dall’errore procedimentale l’inutilizzabilità delle intercettazioni se la censura non è accompagnata dalla doglianza circa la difformità tra il contenuto delle intercettazioni ed il contenuto trascritto (Sez. 6, 13213/2016).

La questione dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese senza le necessarie garanzie difensive da chi sin dall’inizio doveva essere sentito in qualità di imputato o indagato non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (tra tante (Sez. 6, 18889/2017).

L’inutilizzabilità degli esiti delle operazioni captative derivante dall’inosservanza dell’obbligo di motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni integra un’inutilizzabilità del risultato delle intercettazioni avente carattere assoluto, perché derivante dalla violazione dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione (Sez. 3,15828/2015).

Le questioni attinenti alla legittimità del ricorso a impianti esterni non possono essere ricondotte nell’alveo della inutilizzabilità patologica: pertanto, al di là delle asserite violazioni, si è in presenza di acquisizioni pienamente utilizzabili nel giudizio abbreviato (Sez. 6, 2930/2009).

La mancanza in atti di un provvedimento del PM che autorizzi il ricorso a impianti esterni non può essere interpretata come prova del fatto che le intercettazioni siano effettivamente avvenute presso tali impianti, derivandone al contrario la legittima presunzione del ricorso ad impianti interni (Sez. 4, 3307/2017).

L’inidoneità dell’impianto, che a norma dell’art. 268 comma 3 giustifica l’utilizzo di apparecchiature esterne agli uffici della procura della Repubblica, attiene non solo all’aspetto tecnico o strutturale, concernente le condizioni materiali dell’impianto stesso, ma anche a quello cosiddetto funzionale, da valutare in relazione al tipo di indagine che si svolge e allo specifico delitto per il quale si procede. In questo contesto, risulta essere motivazione sufficiente, seppure in via sintetica, il richiamo all’opportunità di non creare ritardi nell’azione investigativa o il fatto che la struttura carceraria rendeva impossibile, per fatto strutturale dipendente da ragioni di sicurezza, l’allaccio ad una sala esterna (Sez. 2, 6811/2017).

Non ricorre alcuna inutilizzabilità nel caso in cui nel corso delle intercettazioni siano sostituite le utenze intercettate. Ciò che rileva è che le nuove utenze siano usate dalla stessa persona nei cui confronti era stata autorizzata l’attività intercettiva e restino inalterati i presupposti legittimanti. Difatti, il dovere del giudice di indicare la linea telefonica sulla quale è consentita l’intercettazione ha il solo scopo di identificare con precisione la persona titolare del diritto compresso (Sez. 6, 31297/2017).

Il provvedimento di cessazione delle intercettazioni adottato del PM equivale alla sua rinuncia alla prosecuzione delle operazioni che dunque non possono essere riprese senza un formale provvedimento di riattivazione. Ne deriva che, in assenza di quest’ultimo atto, la prosecuzione delle operazioni è illegittima per inosservanza delle disposizioni dell’art. 267 e i suoi risultati sono inutilizzabili (Sez. 5, 28566/2017).

Le irregolarità nell’indicazione dell’inizio e della fine delle operazioni di intercettazione non determinano l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni medesime. Ciò perché la invalidità e l’inutilizzabilità sono patologie processuali soggette alla regola della tassatività e non possono essere ricostruite in base a violazioni di disposizioni finalizzate alla mera regolarità degli atti, peraltro ancora non definitivamente redatti e depositati (Sez. 6, 32522/2015).

L’omessa indicazione nel verbale delle operazioni delle generalità delle persone che hanno preso parte alle attività intercettive non determina alcuna inutilizzabilità (Sez. 4, 49306/2004).

L’inosservanza delle disposizioni previste dall’art. 89 Att. in tema di verbali e nastri registrati delle intercettazioni non determina, l’inutilizzabilità degli esiti dell’attività captativa legittimamente disposta ed eseguita. Infatti, la sanzione d’inutilizzabilità degli esiti di intercettazioni telefoniche, stante il principio di tassatività, non può essere dilatata sino a comprendervi l’inosservanza delle disposizioni di cui all’art. 89, non espressamente richiamato dall’art. 271.

In particolare, la traduzione delle conversazioni, attività logicamente e cronologicamente successiva alla captazione di queste, non è una delle operazioni previste dall’art. 89 Att., con la conseguenza che quello dell’interprete non fa parte dei nominativi che devono essere annotati nel verbale delle operazioni previsto dall’art. 268, comma 1. Tale omissione costituisce una nullità relativa che deve essere tempestivamente dedotta (Sez. 6, 31285/2017).

L’eccezione di inutilizzabilità di intercettazioni di comunicazioni telefoniche che si basa soltanto sull’omessa indicazione delle generalità dell’interprete traduttore è infondata perché nessuna disposizione ricollega a tale omissione la nullità o la inutilizzabilità dell’attività da lui svolta: la omissione costituisce una mera irregolarità (per inottemperanza all’art. 115, comma 1, Att.), perché la capacità dell’interprete di svolgere adeguatamente il compito assegnato è un dato obiettivo, desumibile dalla correttezza della traduzione eseguita e trascritta, per cui la sua identificazione appare del tutto indifferente ai fini del relativo controllo (Sez. 6, 30783/2007).

All’omessa indicazione, nel verbale di esecuzione delle intercettazioni, delle generalità dell’interprete di lingua straniera che abbia proceduto all’ascolto, traduzione e trascrizione delle conversazioni, segue l’inutilizzabilità di tali operazioni per l’impossibilità di desumerne la capacità dell’ausiliario di svolgere ed eseguire adeguatamente l’incarico affidatogli (Cass, Sez. 3, 28216/2015).

La questione dell’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche relative a conversazioni in lingua straniera a causa della mancata identificazione dell’interprete non può essere dedotta nell’interesse di chi sia stato ammesso al rito abbreviato e abbia per ciò stesso accettato l’utilizzabilità nei suoi confronti anche delle prove affette da inutilizzabilità fisiologica (Sez. 2, 41205/2017).

La sanzione prevista dall’art. 271 comma 1 in relazione all’art. 268, comma 1, colpisce l’omessa redazione del verbale delle operazioni e non il suo eventuale mancato deposito. Il mancato rispetto del termine di 5 giorni dalla conclusione delle operazioni per il deposito dei verbali e delle registrazioni non è causa di nullità, non essendo espressamente prevista, né di inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, atteso il mancato richiamo, nell’art. 271, al quarto e al sesto comma dell’art. 268 (Sez. 4, 43472/2017).

Sono legittime e utilizzabili senza necessità di una previa procedura di rogatoria internazionale le intercettazioni di conversazioni avvenute tra un’utenza situata in territorio maltese e utenze situate nel territorio degli Emirati arabi dal momento che la rete delle comunicazioni utilizzata dalla Repubblica di Malta è costituita da cavi sottomarini collegati con nodi di smistamento ubicati in Sicilia. Si verifica in tal modo un transito dei dati nel territorio italiano e questo è sufficiente a radicare la giurisdizione interna (Sez. 3, 24305/2017).

In tema di rogatorie internazionali vige la prevalenza della lex loci sulla lex fori. Sono dunque utilizzabili captazioni eseguite nei Paesi Bassi in accordo alla legislazione di quello Stato purché, in applicazione del combinato disposto degli artt. 27 e 31 delle preleggi e 191 e 729, la prova non sia stata acquisita in contrasto con principi fondamentali e inderogabili dell’ordinamento giuridico italiano e quindi con l’inviolabile diritto di difesa (Sez. 2, 2174/2017).

È inutilizzabile a fini cautelari nel procedimento ad quem l’intercettazione proveniente da diverso procedimento se il primo decreto autorizzativo sia allegato in forma completamente omissata così impedendo alla difesa e al giudice di verificare l’esistenza dei presupposti legali dell’intercettazione disposta nel procedimento a quo (Sez. 6, 40945/2017).

In tema di intercettazioni disposte in altro procedimento, l’omesso deposito degli atti relativi, ivi compresi i nastri di registrazione, presso l’autorità competente per il diverso procedimento, non ne determina l’inutilizzabilità, in quanto detta sanzione non è prevista dall’art. 270 e non rientra nel novero di quelle di cui all’art. 271 aventi carattere tassativo (Sez. 5, 1801/2015).

Il giudice del procedimento ad quem non è tenuto rilevare eventuali vizi, rilevanti ai sensi degli artt. 267 e 268, presenti nel procedimento in cui le intercettazioni furono disposte, gravando il relativo onere sulla parte che intende far valere l’inutilizzabilità, sulla base di copia degli atti che la stessa ha diritto di ottenere, ai sensi dell’art. 116. (Sez. 5, 4758/2016).

Sono utilizzabili nel procedimento di prevenzione i risultati delle intercettazioni telefoniche e ambientali, la cui utilizzabilità sia accertata nel giudizio penale di cognizione, senza la necessità di alcuna preventiva valutazione ad hoc da parte del giudice della prevenzione, trattandosi di prova la cui conformità all’ordinamento è stata delibata nella sede propria, nel contraddittorio delle parti, all’esito di un giudizio con la partecipazione di tutte le parti interessate al suo utilizzo. Ne consegue che il giudice della prevenzione non deve compiere alcuna nuova valutazione al riguardo, salva la verifica della capacità dimostrativa della prova in questione ai fini del giudizio di pericolosità del proposto (Sez. 5, 52095/2014).

È da escludere la necessità del deposito, ex art. 268 in vista della utilizzazione a fini cautelari, dei risultati delle registrazioni, ma anche la necessità che il PM alleghi alla richiesta di emissione del provvedimento cautelare il verbale e la registrazione relativi alle operazioni di intercettazione, ravvisandosi, in sostanza, una sorta di presunzione d’esistenza e di conformità, senza la necessità di un controllo giurisdizionale sulla effettiva sussistenza di tale documentazione, dalla quale discende la validità della prova; ciò sul rilievo che l’art. 271 non menziona l’art. 89 Att., essendo, perciò, consentito utilizzare a fini cautelari i dati conoscitivi tratti dalle captazioni effettuate, senza che il PM sia tenuto a produrre, né al giudice per le indagini preliminari, né, eventualmente, al tribunale del riesame, la relativa documentazione (Sez. 5, 12010/2017).

L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche deriva dalla effettiva inosservanza delle disposizioni richiamata dall’art. 271 e non può ricollegarsi alla mancata trasmissione al TDR, da parte del PM, dei decreti autorizzativi che vanno messi a disposizione del giudice del riesame e della difesa al solo scopo di controllare l’effettiva sussistenza delle condizioni legittimanti l’effettuazione delle intercettazioni. L’accertamento di siffatte condizioni può essere realizzato anche attraverso l’acquisizione da parte del giudice del riesame dei decreti autorizzativi (Sez. 1, 4582/1999).

In tema di misure cautelari, se i decreti autorizzativi delle intercettazioni telefoniche non siano allegati alla richiesta del PM, la successiva omessa trasmissione degli stessi al TDR, a seguito di impugnazione del provvedimento coercitivo, non determina l’inutilizzabilità, né la nullità assoluta ed insanabile delle intercettazioni, salvo che la difesa dell’indagato abbia presentato specifica e tempestiva richiesta di acquisizione e la stessa o il giudice non siano stati in condizione di effettuare un efficace controllo di legittimità (Sez. 6, 7521/2013).

La mancata trasmissione al Tribunale del riesame dei decreti di autorizzazione delle intercettazioni telefoniche non determina l’inutilizzabilità delle comunicazioni intercettate, che consegue alle violazioni specificatamente previste dall’art. 271, ma dà luogo alla perdita di efficacia della misura cautelare applicata in base all’art. 309, commi 5 e 10, quando essi siano stati presentati dal PM al GIP con la richiesta di misura cautelare (Sez. 6, 51677/2014).

È infondata l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni, in quanto originate da spunti investigativi tratti da intercettazioni inutilizzabili. Infatti, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, ciascun decreto autorizzativo è dotato di autonomia e può ricevere impulso da qualsiasi notizia di reato, ancorché desunta da precedenti intercettazioni inutilizzabili: ne consegue che non è inutilizzabile la prova, che non sarebbe stata scoperta senza l’utilizzazione della prova inutilizzabile (Sez. 6, 54535/2016).

In tema di intercettazioni di conversazioni telefoniche, i dati provenienti dalla rilevazione automatica delle chiamate in partenza da apparecchi telefonici pubblici su una utenza privata sono utilizzabili anche quando tale non sia il contenuto della conversazione intercettata, in quanto il mezzo tecnico adoperato, di limitata intrusione, è assimilabile al sistema di acquisizione dei tabulati telefonici, che sono acquisibili sulla base della semplice autorizzazione del PM (Sez. 2, 45622/2003).

Non sono utilizzabili nel giudizio di equa riparazione i risultati di intercettazioni dichiarate affette da inutilizzabilità patologica nel giudizio di cognizione (SU, 1153/2008).

Sono invece utilizzabili nel medesimo giudizio, a fini della valutazione del dolo o della colpa grave del ricorrente, le intercettazioni viziate da inutilizzabilità fisiologica (Sez. 4, 49771/2013).

Qualora venga eccepita in sede di legittimità l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, siccome asseritamente eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge o qualora non siano state osservate le disposizioni previste dagli artt. 267 e 268 commi 1 e 3, è onere della parte indicare specificamente l’atto che si afferma essere affetto dal vizio denunciato e curare che tale atto sia comunque effettivamente acquisito al fascicolo trasmesso al giudice di legittimità, magari provvedendo a produrlo in copia nel giudizio di cassazione. In difetto, il motivo è inammissibile per genericità, non essendo consentito al giudice di legittimità di individuare l’atto affetto dal vizio denunciato (Sez. 2, 44221/2013).

Il ricorrente che lamenti l’inutilizzabilità di un elemento a carico deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova acquisiti illegittimamente diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, le residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento (Sez. 3, 3207/2014).

Il motivo con il quale sia dedotta l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni telefoniche – sui quali si fondi il giudizio di responsabilità dei concorrenti in un medesimo reato – giova anche agli imputati che non abbiano proposto ricorso, o che abbiano proposto un ricorso originariamente inammissibile, o ancora che al ricorso abbiano successivamente rinunciato, trattandosi di motivo non esclusivamente personale che rende operante l’effetto estensivo dell’impugnazione (SU, 30347/2007 e, più di recente,  Sez. 6, 48009/2016).

 

Mancata assunzione di una prova decisiva (art. 606 comma 1 lettera d)

Deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606, comma 1, lett. d), la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia, ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante (Sez. 7, 45938/2018).

La mancata assunzione di una prova decisiva, quale motivo di impugnazione per cassazione, può essere dedotta solo in relazione ai mezzi di prova di cui sia stata chiesta l’ammissione, anche nel corso dell’istruzione dibattimentale, a norma dell’art. 495 comma 2, sicché il suddetto motivo non può essere validamente invocato nel caso di giudizio abbreviato non condizionato ad integrazione probatoria. La mera sollecitazione probatoria non è idonea a far sorgere in capo all’istante quel diritto alla prova, al cui esercizio ha rinunciato formulando la richiesta di rito alternativo non condizionato. Ne consegue che il mancato accoglimento di tale richiesta non può costituire vizio censurabile ex art. 606, comma primo, lett. d) (Sez. 2, 46765/2018).

La mancata assunzione dei mezzi di prova già ammessi non produce alcuna nullità del procedimento laddove non sia stata manifestata alcuna riserva alla chiusura dell’istruzione dibattimentale da parte di chi tali mezzi aveva richiesti né opposizione delle altre parti processuali. Infatti il diritto alla prova, previsto dall’art. 190, nel vigente sistema processuale, caratterizzato dalla dialettica e dall’impulso delle parti, implica anche il principio di disponibilità della prova medesima. In presenza, pertanto, di un comportamento concludente di rinuncia alla prova non è configurabile alcuna nullità (Sez. 4, 11424/2017).

Il provvedimento che concede la restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale di primo grado non vincola o condiziona il giudice di secondo grado in ordine alla istruttoria dibattimentale, dovendo egli sempre valutare, in modo autonomo, la sussistenza di ipotesi che la rendano necessaria. Ed invero, il diritto alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per l’imputato contumace riammesso nei termini per proporre impugnazione va correttamente interpretato e coordinato con gli altri principi che regolano il processo penale, tenendo conto, in primo luogo, che gli atti istruttori compiuti nel giudizio di primo grado non divengono invalidi per il solo fatto che l’imputato contumace sia rimesso in termini per appellare, ma mantengono la loro validità e la loro efficacia, come previsto dall’art. 175  nuovo testo, che non prevede l’invalidità dell’attività istruttoria compiuta nel giudizio di primo grado né la automatica rinnovazione del dibattimento. Pertanto, il diritto alla prova dell’imputato contumace, riammesso in termini per impugnare, potrà consistere o nella richiesta di riassunzione delle prove già assunte in primo grado o nella richiesta di prove non assunte nel giudizio di primo grado, ma ciò, sempre subordinatamente alle regole ordinarie che sovrintendono l’istruzione probatoria ossia a condizione che l’imputato appellante indichi al giudice del gravame il tema di indagine che si intende approfondire, in modo da consentire al giudice di valutarne la pertinenza e la rilevanza ai fini della ammissione delle prove richieste (Sez. 6, 32485/2016).

La rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale rappresenta un istituto di carattere eccezionale, al quale può farsi ricorso, in deroga alla presunzione di completezza dell’istruttoria espletata in primo grado, esclusivamente allorché il giudice ritiene, nella sua discrezionalità, indispensabile la integrazione, nel senso che non è altrimenti in grado di decidere sulla base del solo materiale già a sua disposizione, con la conseguenza che, tolte le ipotesi di prove sopravvenute o scoperte dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, le parti non hanno il diritto alla prova che riconoscono loro gli articoli 190 e 495  e, dunque, fuori da questi casi — come in quello sottoposto al presente scrutinio di legittimità -, la mancata assunzione della prova non è mai censurabile in cassazione a norma dell’art. 606 lett. d)  bensì solo ai sensi della lettera e) di tale ultimo articolo (Sez. 5, 24791/2017).

Il procedimento camerale, per la sua struttura scarsamente formale, consente al giudicante di acquisire informazioni e prove, anche di ufficio, senza l’osservanza dei principi sull’ammissione della prova di cui all’art. 190, essendo essenziale l’accertamento dei fatti, nel semplice rispetto della libertà morale delle persone e con le garanzie del contradditorio. Con particolare riferimento alla mancanza di un diritto all’ammissione delle prove a discarico, che importerebbe nel procedimento di esecuzione una disparità di trattamento nell’esercizio del diritto di difesa rispetto all’indagato o all’imputato nel procedimento penale, si è affermato che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale al riguardo posto che le disposizioni regolanti il procedimento di esecuzione garantiscono l’esercizio del diritto di difesa non soltanto con la presenza necessaria del difensore nell’udienza di trattazione, ma altresì con il riconoscimento della facoltà di dedurre o richiedere elementi a discarico – eventualmente anche a mezzo dell’audizione personale di cui al comma quarto dell’art. 666, –  come  si ricava dal combinato disposto degli artt. 666, comma quinto, dello stesso codice e 185 delle relative disposizioni di attuazione, salvo il vaglio di pertinenza o di inerenza probatoria comunque rimesso al giudice. D’altro canto il diritto alla prova a discarico di cui al precitato art. 495, comma 2,  attiene al processo di cognizione, che inerisce ad una fase del processo penale in cui deve essere accertata la posizione dell’imputato rispetto al fatto ascrittogli, mentre il procedimento di sorveglianza, come quello di esecuzione, riguarda situazioni accessorie alla pena inflitta ovvero alla pericolosità del condannato, sicché la diversità ravvisabile tra la posizione dell’imputato e quella della parte privata nel procedimento esecutivo o di sorveglianza giustifica, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., anche la disparità normativa nell’esercizio di facoltà difensive (Sez. 2, 3954/2017).

 

Motivi attinenti alla motivazione (art. 606 comma 1 lettera e)

La novella codicistica, introdotta con la L. 46/2006, che ha riconosciuto la possibilità di deduzione del vizio di motivazione anche con il riferimento ad atti processuali specificamente indicati nei motivi di impugnazione, non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, sicché gli atti eventualmente indicati, che devono essere specificamente allegati per soddisfare il requisito di autosufficienza del ricorso, devono contenere elementi processualmente acquisiti, di natura certa ed obiettivamente incontrovertibili, che possano essere considerati decisivi in rapporto esclusivo alla motivazione del provvedimento impugnato e nell’ambito di una valutazione unitaria, e devono pertanto essere tali da inficiare la struttura logica del provvedimento stesso. Resta, comunque, esclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova. La modifica dell’art. 606 lett. e) non consente alla Cassazione di sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito mentre comporta che la rispondenza delle dette valutazioni alle acquisizioni processuali può essere dedotta nella specie del cosiddetto travisamento della prova, a condizione che siano indicati in maniera specifica e puntuale gli atti rilevanti e sempre che la contraddittorietà della motivazione rispetto ad essi sia percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato ai rilievi di macroscopica evidenza, senza che siano apprezzabili le minime incongruenze (Sez. 7, 46678/2018).

Il vizio di travisamento della prova per omissione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e), c.p.p., è configurabile quando manchi la motivazione in ordine alla valutazione di un elemento probatorio acquisito nel processo e potenzialmente decisivo ai fini della decisione (Sez. 5, 44923/2021).

In tema di ricorso per cassazione, l'omesso esame da parte del giudice di merito di una memoria difensiva può essere dedotto in sede di legittimità come vizio di motivazione purché, in virtù del dovere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, si rappresenti puntualmente la concreta idoneità scardinante dei temi della memoria pretermessa rispetto alla pronunzia avversata, evidenziando il collegamento tra le tesi contenute nella memoria e gli specifici profili di carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità argomentativa del provvedimento impugnato (Sez. 1, 43743/2021).

Per quanto in sede di legittimità non sia censurabile la valutazione sulla attendibilità delle prove del giudizio di merito, essendo il giudizio di legittimità limitato alla struttura del discorso giustificativo del provvedimento impugnato senza comportare una diversa lettura del materiale probatorio, anche se plausibile, questo principio incontra un'eccezione nel caso in cui la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo "id quod plerumque accidit", ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (Sez. 5, 15462/2021).

Il sindacato del giudice di legittimità sulla motivazione del provvedimento impugnato deve essere volto a verificare che quest’ultima: a) sia “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, perché sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi posti a sostegno del ricorso) in misura tale da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico (Sez. 2, 46798/2018).

Se è vero che compito del giudice di legittimità nel sindacato sui vizi della motivazione non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, è altrettanto vero che la Corte di cassazione è tenuta a stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando completa e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre. Oggetto del sindacato di legittimità sulla motivazione è la “tenuta” del ragionamento probatorio e la stabilità argomentativa del ragionamento posto a fondamento della decisione (Sez. 6, 9743/2019).

È nulla, ma non inesistente, la sentenza d’appello la cui intestazione individua correttamente l’imputato e la sentenza di primo grado, e che riporta fedelmente il dispositivo letto in udienza, ma che reca, per errore, una motivazione relativa ad altra pronunzia impugnata da un altro imputato, con la conseguenza che, se l’invalidità è tempestivamente dedotta mediante impugnazione, si determina la necessità di rinnovare l’intero giudizio di secondo grado (fattispecie nella quale la sentenza di appello, redatta con motivazione contestuale, dopo avere proceduto ad esporre correttamente sia i dati della pronuncia impugnata che i motivi di impugnazione, nella parte destinata alle considerazioni in diritto risultava trattare la posizione di altro imputato totalmente estraneo al procedimento. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha disposto l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio (Sez. 2, 33613/2020).

La Corte di cassazione non ha il potere di procedere ad una autonoma valutazione, adottando propri e diversi parametri di ricostruzione dei fatti, ritenuti così maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa poiché il giudice di legittimità ha esclusivamente il compito di controllare se la motivazione dei giudici del merito sia intrinsecamente razionale e capace di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito (Sez. 2, 46791/2018).

Non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che “attaccano” la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (Sez. 2, 46765/2018).

È inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 7, 45726/2018).

In presenza di una c.d. “doppia conforme”, ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo gradoInvero, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell’art. 606 comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 46/2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un’informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell’ipotesi in cui l’impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c.d. doppia conforme, superarsi il limite del “devolutum” con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d’appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice (Sez. 2, 44191/2018).

Il vizio di travisamento della prova può essere dedotto con il ricorso per cassazione, nel caso di cosiddetta "doppia conforme", sia nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, sia quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (Sez. 4, 2152/2022).

In tema di integrazione delle motivazioni tra le conformi sentenze di primo e di secondo grado, se l’appellante si limita alla riproposizione di questioni di fatto o di diritto già adeguatamente esaminate e correttamente risolte dal primo giudice, oppure prospetta critiche generiche, superflue o palesemente infondate, il giudice dell’impugnazione ben può motivare per relationem; quando invece sono formulate censure o contestazioni specifiche, introduttive di rilievi non sviluppati nel giudizio anteriore o contenenti argomenti che pongano in discussione le valutazioni in esso compiute, è affetta da vizio di motivazione la decisione di appello che si limita a respingere con formule di stile o in base ad assunti meramente assertivi o distonici dalle risultanze istruttorie le deduzioni proposte (Sez. 3, 11456/2019).

Secondo il principio sancito dall’art. 533, occorre che la penale responsabilità sia affermata oltre ogni ragionevole dubbio. Tale principio detta in realtà un canone epistemologico e valutativo, che si correla all’ontologica struttura del ragionamento probatorio, scandito anche dall’art. 546, comma 1, lett. e), e volto alla conferma dell’ipotesi di accusa. In tale prospettiva il rispetto di detto principio sottende una motivazione adeguata, che rifletta una valutazione completa del compendio probatorio, letto anche alla luce del contributo conoscitivo e critico offerto dalla difesa, e dia conto dunque delle criticità emerse, risolvendole sulla base degli elementi che valgono a suffragare l’assunto accusatorio, in assenza di residue ipotesi alternative, o prendendo atto dell’impossibilità di giungere a quella conferma. A ben guardare, con riguardo al tema dell’oltre ogni ragionevole dubbio, possono prospettarsi due situazioni patologiche: 1) che il giudice abbia affermato di poter superare il ragionevole dubbio, peraltro incorrendo in vizi della motivazione, riferiti alla valutazione riguardante la conferma dell’ipotesi accusatoria; 2) che il giudice abbia palesato le ricostruzioni alternative, scegliendone una, in quanto ritenuta preferibile, ma senza premurarsi di fornire al riguardo una specifica giustificazione. In entrambe le ipotesi è in realtà ravvisabile un vizio inerente alla motivazione, riconducibile al paradigma di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), ma nel secondo caso è ravvisabile anche una violazione di legge, riconducibile al paradigma di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), in quanto la decisione, che non risolve la pur esplicitata ambivalente lettura del compendio probatorio e lascia aperta l’interpretazione alternativa, si pone direttamente in contrasto con il cogente canone di valutazione, consacrato dalla norma processuale (Sez. 6, 10093/2019).

La specificità della disposizione di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), esclude che la norma possa essere dilatata per effetto di regole processuali concernenti la motivazione stessa, utilizzando la diversa ipotesi di cui all’art. 606, comma 1, lett. c); l’espediente non è consentito, sia per i ristretti limiti nei quali la disposizione ora citata prevede la deducibilità per cassazione delle violazioni di norme processuali (considerate solo se stabilite «a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza», sia perché la puntuale indicazione contenuta nella lett. e), riferita al «testo del provvedimento impugnato», collega in via esclusiva e specifica al limite predetto qualsiasi vizio motivazionale. Il vizio di manifesta illogicità della motivazione richiede un controllo che va esercitato esclusivamente sul fronte della coordinazione delle proposizioni e dei passaggi attraverso i quali si sviluppa il tessuto argomentativo del provvedimento impugnato, senza la possibilità, per il giudice di legittimità, di verificare se i risultati dell’interpretazione delle prove siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo; sicché nella verifica della fondatezza, o no, del motivo di ricorso ex art. 606, comma 1, lett. e), il compito della Corte di cassazione non consiste nell’accertare la plausibilità e l’intrinseca adeguatezza dei risultati dell’interpretazione delle prove, coessenziale al giudizio di merito, ma quello, ben diverso, di stabilire se i giudici di merito: a) abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione; b) abbiano dato esauriente risposta alle deduzioni delle parti; c) nell’interpretazione delle prove abbiano esattamente applicato le regole della logica, le massime di comune esperienza e i criteri legali dettati in tema di valutazione delle prove, in modo da fornire la giustificazione razionale della scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. 1, 9389/2019).

In materia di provvedimenti de libertate la Corte di Cassazione non ha alcun potere né di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate (ivi compreso lo spessore degli indizi), né di rivalutazione delle condizioni soggettive dell’indagato in relazione alle esigenze cautelari ed all’adeguatezza delle misure poiché sia nell’uno che nell’altro caso si tratta di apprezzamenti propri del giudice di merito. Il controllo di legittimità rimane pertanto circoscritto all’esame del contenuto dell’atto impugnato per verificare, da un lato, le ragioni giuridiche che lo hanno determinato e, dall’altro, l’assenza di illogicità evidenti, nelle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (SU, 11/2000).

In materia cautelare, il ricorso per cassazione è ammissibile soltanto se denuncia la violazione di specifiche norme di legge, ovvero la manifesta illogicità della motivazione del provvedimento secondo i canoni della logica ed i principi di diritto, ma non anche quando propone censure che riguardino la ricostruzione dei fatti ovvero si risolvano in una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (Sez. 4, 18807/2017).

La Cassazione ha affermato, convalidando il ricorso sistematico alle massime di esperienza nella interpretazione delle condotte riconducibili mafie storiche, che ai fini della valutazione dei fatti di criminalità di stampo mafioso, il giudice deve tener conto delle indagini storico-sociologiche, sebbene con prudente apprezzamento e rigida osservanza del dovere di motivazione; tali dati sono infatti utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori, ogni volta che ne sia stata l’effettiva idoneità ad essere assunti ad attendibili massime di esperienza senza che ciò, peraltro, lo esima dal dovere di ricerca delle prove indispensabili per l’accertamento della fattispecie concreta oggetto del giudizio (Sez. 5, 47574/2016).

La Corte di Cassazione, anche quando prende in considerazione la possibilità di valutare l’attendibilità estrinseca della testimonianza dell’offeso attraverso la individuazione di “conferme”, si esprime in termini di “opportunità” e non di “necessità”, lasciando al giudice di merito un ampio margine di apprezzamento circa le modalità di controllo della attendibilità nel caso concreto. Le Sezioni unite hanno infatti affermato che «può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato». A ciò si aggiunge che costituisce principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la valutazione della attendibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, 46765/2018).

Quando oggetto della denuncia di vizio è il contenuto di un esame dibattimentale, e comunque di una dichiarazione, requisito indefettibile di ammissibilità stessa della denuncia di questo peculiare vizio è la produzione integrale del verbale nel quale quella dichiarazione è inserita, ovvero la sua integrale trascrizione nel ricorso: ciò non solo per attestare la corrispondenza del dedotto alla realtà – stante l’impossibilità per il giudice di legittimità di accedere agli atti – ma, ancor più, per verificare se il senso probatorio dedotto dal ricorrente sia congruo al complesso della dichiarazione (Sez. 2, 13697/2016).

La sussistenza di circostanze attenuanti rilevanti ai sensi dell’art. 62-bis Cod. pen. è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di talché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in Cassazione (Sez. 7, 45729/2018).

Non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 5, 32670/2018).

Per il corretto adempimento dell’obbligo della motivazione in tema di bilanciamento di circostanze eterogenee è sufficiente che il giudice dimostri di avere considerato e sottoposto a disamina gli elementi enunciati nella norma dell’art. 133 Cod. pen. E gli altri dati significativi, apprezzati come assorbenti o prevalenti su quelli di segno opposto, essendo sottratto al sindacato di legittimità, in quanto espressione del potere discrezionale nella valutazione dei fatti e nella concreta determinazione della pena demandato al detto giudice, il supporto motivazionale sul punto quando sia aderente ad elementi tratti obiettivamente dalle risultanze processuali e sia, altresì, logicamente corretto. La determinazione in concreto della pena costituisce il risultato di una valutazione complessiva e non di un giudizio analitico sui vari elementi offerti dalla legge, sicché l’obbligo della motivazione da parte del giudice dell’impugnazione deve ritenersi compiutamente osservato, anche in relazione alle obiezioni mosse con i motivi d’appello, quando egli, accertata l’irrogazione della pena tra il minimo e il massimo edittale, affermi di ritenerla adeguata o non eccessiva. Ciò dimostra, infatti, che egli ha considerato sia pure intuitivamente e globalmente, tutti gli aspetti indicati nell’art. 133 Cod. pen. (Sez. 7, 45728/2018).

In tema di patteggiamento, se la sentenza dispone una misura di sicurezza, sulla quale non è intervenuto accordo tra le parti, la statuizione relativa - che richiede accertamenti circa i previsti presupposti giustificativi e una pertinente motivazione che non ripete quella tipica della sentenza di "patteggiamento", ed è inappellabile, alla luce del disposto dell'art. 448, comma 2, - è impugnabile, per coerenza dello sviluppo del ragionamento giuridico non disgiunto da esigenze di tenuta del sistema secondo postulati di unitarietà e completezza, con ricorso per cassazione anche per vizio della motivazione, ex art. 606, comma 1. In caso di applicazione della misura di sicurezza personale dell' espulsione dello straniero dal territorio dello Stato a pena espiata, prevista dall'art. 86, primo comma, DPR 309/1990 per i reati ivi indicati, il giudice di merito deve quindi effettuare, anche con la sentenza di "patteggiamento", in virtù della statuizione contenuta nella sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, un previo e motivato accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale dello straniero (Sez. 3, 30289/2021).

Inammissibilità del ricorso (si veda anche la giurisprudenza citata in relazione agli specifici motivi di impugnazione)

Il ricorso per cassazione risulta inammissibile quando la struttura razionale della sentenza impugnata possiede una sua chiara e puntuale coerenza argomentativa ed è saldamente ancorata, nel rispetto delle regole della logica, alle risultanze processuali (osserva la Corte che, nel caso in esame, il ricorso non criticava la violazione di specifiche regole inferenziali, preposte alla formazione del convincimento del giudice, ma, postulando indimostrate carenze motivazionali della sentenza impugnata, chiedeva il riesame nel merito della vicenda processuale, che, tuttavia, risultava vagliato dalla Corte di appello in conformità alle emergenze probatorie) (Sez. 1, 24961/2022).

La definizione concordata della pena presuppone che l’imputato, nel concordare con il pubblico ministero la nuova pena, rinunzi contestualmente a tutti gli altri eventuali motivi di appello sulle questioni di merito, ad eccezione di quello relativo alla pena, “concordata” fra le parti e conformemente applicata dal giudice di appello. Ne discende che si deve intendere preclusa la riproposizione e il riesame in sede di legittimità di ogni questione relativa ai motivi rinunciati, con la conseguenza che, in ipotesi di riproposizione di una delle questioni di merito già investite con il motivo di appello rinunciato, la relativa impugnazione dev’essere dichiarata inammissibile a norma dell’art. 606 comma 3 c.p.p. Poiché ex art. 597, comma primo, c.p.p., l’effetto devolutivo dell’impugnazione circoscrive la cognizione del giudice del gravame ai soli punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, una volta che essi costituiscano oggetto di rinuncia, non può il giudice di appello prenderli in considerazione né può farlo il giudice di legittimità sulla base di un’ipotetica implicita revoca di tale rinuncia, stante l’irrevocabilità di tutti i negozi processuali, ancorché unilaterali (Sez. 2, 55181/2018).

 

La rinuncia al ricorso ne determina l’inammissibilità (Sez. 7, 45924/2018).

La causa di esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto, ex art. 131-bis Cod. pen., non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, se tale disposizione era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza di appello, ostandovi la previsione di cui all’art. 606, comma 3 (Sez. 7, 57491/2017).