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Art. 698 - Reati politici. Tutela dei diritti fondamentali della persona

1. Non può essere concessa l’estradizione per un reato politico né quando vi è ragione di ritenere che l’imputato o il condannato verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori per motivi di razza, di religione, di sesso, di nazionalità, di lingua, di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona.

2. Se il fatto per il quale è domandata l’estradizione è punito con la pena di morte secondo la legge dello Stato estero, l’estradizione può essere concessa solo quando l’autorità giudiziaria accerti che è stata adottata una decisione irrevocabile che irroga una pena diversa dalla pena di morte o, se questa è stata inflitta, è stata commutata in una pena diversa, comunque nel rispetto di quanto stabilito dal comma 1.

Rassegna giurisprudenziale

Reati politici. Tutela dei diritti fondamentali della persona (art. 698)

In tema di estradizione per l'estero di un cittadino di uno Stato membro, in presenza di una situazione di rischio di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti attestata da fonti internazionali affidabili, è onere dell’AG dello Stato richiesto, ai fini dell'accertamento della condizione ostativa prevista dall'art. 698, comma 1, richiedere informazioni integrative tese a conoscere il trattamento penitenziario cui sarà in concreto sottoposto l'estradando, ai sensi dell'art. 13 della Convenzione europea di estradizione, anche in mancanza di allegazioni difensive. (Fattispecie relativa all’estradizione del cittadino di uno Stato membro verso la Federazione Russa, in cui la Suprema Corte ha osservato come la corte di appello, pur avendo acquisito informazioni integrative, non avesse esaminato proprio la documentazione prodotta dal ricorrente, relativa a recenti decisioni di condanna emesse dalla Corte EDU per violazioni relative a pratiche di ammanettamento sistematico e prolungato di persone detenute per gravi fatti di reato verificatesi nel territorio ove è ubicato l’istituto penitenziario di destinazione, né quella relativa a una dettagliata e recente inchiesta giornalistica relativa all’esistenza di pratiche di tortura e atti di violenza diffusi in numerosi istituti di pena dello Stato richiedente, ovvero agli esiti di una recente visita ispettiva effettuata in numerosi centri penitenziari russi dal Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa) (Sez. 6, 18044/2022).

Il principio del mutuo riconoscimento su cui si fonda il sistema del MAE si basa esso stesso sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri circa il fatto che i rispettivi ordinamenti giuridici nazionali sono in grado di fornire una tutela equivalente ed effettiva dei diritti fondamentali, riconosciuti a livello dell’Unione, in particolare nella CDFUETanto il principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto il principio del mutuo riconoscimento, nel diritto dell’Unione, rivestono un’importanza fondamentale, dato che consentono la creazione e il mantenimento di uno spazio senza frontiere interne. Più specificamente, il principio della fiducia reciproca impone a ciascuno di detti Stati, segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia, di ritenere, tranne in circostanze eccezionali, che tutti gli altri Stati membri rispettino il diritto dell’Unione e, più in particolare, i diritti fondamentali riconosciuti da quest’ultimo. Nell’ambito disciplinato dalla decisione quadro, il principio del mutuo riconoscimento, che costituisce, come emerge segnatamente dal considerando 6 della Decisione quadro (Decisione quadro 2002/584/GAI, 13 giugno 2002, relativa al MAE e alle procedure di consegna tra Stati membri - NDA), il «fondamento» della cooperazione giudiziaria in materia penale, implica, a norma dell’articolo 1, paragrafo 2, della decisione quadro, che gli Stati membri sono tenuti, in linea di principio, a dar corso a un mandato d’arresto europeo. Ne consegue che l’AG di esecuzione può rifiutarsi di dare esecuzione a un siffatto mandato soltanto nei casi, tassativamente elencati, di non esecuzione obbligatoria, previsti dall’articolo 3 della decisione quadro, o di non esecuzione facoltativa previsti dagli articoli 4 e 4 bis della decisione quadro. Inoltre, l’esecuzione del mandato d’arresto europeo può essere subordinata unicamente a una delle condizioni tassativamente previste dall’articolo 5 della decisione quadro. In tale contesto, occorre notare che il considerando 10 della decisione quadro stabilisce che l’attuazione del meccanismo del mandato d’arresto europeo può essere sospesa solo in caso di grave e persistente violazione da parte di uno Stato membro dei valori contemplati dall’articolo 2 TUE, e in conformità con il procedimento previsto dall’articolo 7 TUE. Resta nondimeno il fatto che, da un lato, la Corte ha ammesso che limitazioni ai principi di riconoscimento e di fiducia reciproci tra Stati membri possono essere apportate «in circostanze eccezionali». Dall’altro, come emerge dal suo articolo 1, paragrafo 3, l’obbligo di rispettare i diritti fondamentali quali sanciti segnatamente dalla CDFUE non può essere modificato per effetto della decisione quadro. A tal riguardo, va sottolineato che il rispetto dell’articolo 4 CDFUE, relativo al divieto di pene e di trattamenti inumani o degradanti, si impone, come emerge dal suo articolo 51, paragrafo 1, agli Stati membri e, di conseguenza, ai loro organi giurisdizionali nell’attuazione del diritto dell’Unione, il che avviene quando l’AG emittente e l’AG di esecuzione applicano le disposizioni nazionali adottate in esecuzione della decisione quadro. Per quanto riguarda il divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti, di cui all’articolo 4 CDFUE, esso ha carattere assoluto in quanto è strettamente connesso al rispetto della dignità umana, di cui all’articolo 1 della CDFUE. Il carattere assoluto del diritto garantito dall’articolo 4 CDFUE è confermato dall’articolo 3 CEDU, cui corrisponde suddetto articolo 4 CDFUE. Invero, come emerge dall’articolo 15, paragrafo 2, CEDU, non è possibile alcuna deroga all’articolo 3 CEDU. Gli articoli 1 e 4 CDFUE, nonché l’articolo 3 CEDU, sanciscono uno dei valori fondamentali dell’Unione e dei suoi Stati membri. Per tale ragione, in ogni circostanza, anche in caso di lotta al terrorismo e al crimine organizzato, la CEDU vieta in termini assoluti la tortura e le pene e i trattamenti inumani o degradanti, qualunque sia il comportamento dell’interessato. Ne consegue che, quando l’AG dello Stato membro d’esecuzione dispone di elementi che attestano un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro emittente, tenuto conto del livello di tutela dei diritti fondamentali garantito dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’articolo 4 CDFUE, essa è tenuta a valutare la sussistenza di tale rischio quando decide in ordine alla consegna alle autorità dello Stato membro emittente della persona colpita da un mandato d’arresto europeo. Invero, l’esecuzione di un siffatto mandato non può condurre a un trattamento inumano o degradante di tale persona.  tal fine, l’AG di esecuzione deve, anzitutto, fondarsi su elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati sulle condizioni di detenzione vigenti nello Stato membro emittente e comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione. Tali elementi possono risultare in particolare da decisioni giudiziarie internazionali, quali le sentenze della Corte EDU, da decisioni giudiziarie dello Stato membro emittente, nonché da decisioni, relazioni e altri documenti predisposti dagli organi del Consiglio d’Europa o appartenenti al sistema delle Nazioni Unite. Tuttavia, l’accertamento della sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano o degradante dovuto alle condizioni generali di detenzione nello Stato membro emittente, di per sé, non può condurre al rifiuto di dare esecuzione a un mandato d’arresto europeo. Infatti, una volta accertata la sussistenza di tale rischio, è poi anche necessario che l’AG di esecuzione valuti, in modo concreto e preciso, se sussistono motivi gravi e comprovati di ritenere che l’interessato corra tale rischio a causa delle condizioni di detenzione previste nei suoi confronti nello Stato membro emittente. La mera sussistenza di elementi che attestino carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione nello Stato membro emittente, infatti, non comporta necessariamente che, in un caso concreto, l’interessato venga sottoposto a un trattamento inumano o degradante in caso di consegna alle autorità di tale Stato membro. Di conseguenza, per garantire il rispetto dell’articolo 4 CDFUE nel singolo caso della persona oggetto del mandato d’arresto europeo, l’AG di esecuzione, a fronte di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti l’esistenza di siffatte carenze, è tenuta a verificare se, nelle circostanze della fattispecie, sussistano motivi gravi e comprovati di ritenere che, in seguito alla sua consegna allo Stato membro emittente, tale persona corra un rischio concreto di essere sottoposta nello Stato membro di cui trattasi a un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo in parola. A tal fine, a norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro detta autorità deve chiedere all’AG dello Stato membro emittente di fornire con urgenza qualsiasi informazione complementare necessaria per quanto riguarda le condizioni di detenzione previste nei confronti dell’interessato in tale Stato membro. Tale richiesta può anche riguardare l’esistenza, nello Stato membro emittente, di eventuali procedimenti e meccanismi nazionali o internazionali di controllo delle condizioni di detenzione connessi, ad esempio, a visite negli istituti penitenziari, che consentano di valutare lo stato attuale delle condizioni di detenzione in predetti istituti. A norma dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, l’AG di esecuzione può fissare un termine ultimo per la ricezione delle informazioni complementari richieste all’AG emittente. Tale termine deve essere adattato al caso di specie, al fine di lasciare a quest’ultima autorità il tempo necessario per raccogliere dette informazioni, se necessario ricorrendo a tal fine all’assistenza dell’autorità centrale o di una delle autorità centrali dello Stato membro emittente, a norma dell’articolo 7 della decisione quadro. In forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, detto termine deve tuttavia tener conto della necessità di rispettare i termini fissati dall’articolo 17 della medesima decisione quadro. L’AG emittente è tenuta a fornire tali informazioni all’AG di esecuzione. Se, tenuto conto delle informazioni fornite in forza dell’articolo 15, paragrafo 2, della decisione quadro, nonché di qualunque altra informazione in possesso dell’AG di esecuzione, l’autorità di cui trattasi accerta che sussiste, rispetto alla persona oggetto del mandato d’arresto europeo, un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, quale indicato al punto 94 della presente sentenza, l’esecuzione del mandato in parola deve essere rinviata ma non può essere abbandonata. Qualora detta autorità decida un siffatto rinvio, lo Stato membro di esecuzione ne informa l’Eurojust, conformemente all’articolo 17, paragrafo 7, della decisone quadro, precisando i motivi del ritardo. Inoltre, in forza di tale disposizione, uno Stato membro che ha subito ritardi ripetuti nell’esecuzione di mandati d’arresto europei da parte di un altro Stato membro per motivi indicati al punto precedente, ne informa il Consiglio affinché sia valutata l’attuazione della decisione quadro a livello degli Stati membri. Peraltro, conformemente all’articolo 6 CDFUE, l’AG di esecuzione può decidere di mantenere l’interessato in stato di detenzione soltanto a condizione che il procedimento di esecuzione del mandato d’arresto europeo sia stato condotto con sufficiente diligenza e, pertanto, che la durata della detenzione non risulti eccessiva. Per quanto riguarda le persone oggetto di un MAE ai fini dell’esercizio dell’azione penale, tale autorità deve tenere debitamente conto del principio della presunzione d’innocenza garantito dall’articolo 48 CDFUE. A tal riguardo, l’AG di esecuzione deve rispettare il requisito della proporzionalità, previsto dall’articolo 52, paragrafo 1, CDFUE, quanto alla limitazione di qualsiasi diritto o libertà riconosciuti da quest’ultima. Infatti, l’emissione di un MAE non può giustificare il protrarsi della detenzione dell’interessato senza alcun limite temporale. In ogni caso, laddove l’AG di esecuzione concluda, in esito all’esame menzionato ai punti 100 e 101 della presente sentenza, di essere tenuta a porre fine alla detenzione del ricercato, spetta allora alla medesima, in forza degli articoli 12 e 17, paragrafo 5, della decisione quadro, disporre, unitamente al rilascio provvisorio di tale persona, qualsiasi misura da essa ritenuta necessaria per evitare che quest’ultima si dia alla fuga e assicurarsi che permangano le condizioni materiali necessarie alla sua effettiva consegna fintantoché non venga adottata una decisione definitiva sull’esecuzione del MAE. Nell’ipotesi in cui le informazioni ricevute dall’AG di esecuzione da parte dell’AG emittente inducano ad escludere la sussistenza di un rischio concreto che l’interessato sia oggetto di un trattamento inumano o degradante nello Stato membro emittente, l’AG di esecuzione deve adottare, entro i termini fissati dalla decisione quadro, la propria decisione sull’esecuzione del mandato d’arresto europeo, fatta salva la possibilità per l’interessato, una volta consegnato, di esperire nell’ordinamento giuridico dello Stato membro emittente i mezzi di ricorso che gli consentono di contestare, se del caso, la legalità delle sue condizioni detentive in un istituto penitenziario di tale Stato membro. Da tutte le considerazioni che precedono discende che occorre rispondere alle questioni poste dichiarando che gli articoli 1, paragrafo 3, 5 e 6, paragrafo 1, della decisione quadro devono essere interpretati nel senso che, in presenza di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati comprovanti la presenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone, vuoi ancora che colpiscono determinati centri di detenzione per quanto riguarda le condizioni di detenzione nello Stato membro emittente, l’AG di esecuzione deve verificare, in modo concreto e preciso, se sussistono motivi seri e comprovati di ritenere che la persona colpita da un mandato d’arresto europeo emesso ai fini dell’esercizio dell’azione penale o dell’esecuzione di una pena privativa della libertà, a causa delle condizioni di detenzione in tale Stato membro, corra un rischio concreto di trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’articolo 4 CDFUE, in caso di consegna al suddetto Stato membro. A tal fine, essa deve chiedere la trasmissione di informazioni complementari all’AG emittente, la quale, dopo avere richiesto, ove necessario, l’assistenza dell’autorità centrale o di una delle autorità centrali dello Stato membro emittente ai sensi dell’articolo 7 della decisione quadro, deve trasmettere tali informazioni entro il termine fissato nella suddetta domanda. L’AG di esecuzione deve rinviare la propria decisione sulla consegna dell’interessato fino all’ottenimento delle informazioni complementari che le consentano di escludere la sussistenza di siffatto rischio. Qualora la sussistenza di siffatto rischio non possa essere esclusa entro un termine ragionevole, tale autorità deve decidere se occorre porre fine alla procedura di consegna (CGUE, Grande sezione, 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, in cause riunite C-404/15 e C-659/15).

La giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato, in relazione alla procedura di consegna verso Stati, come la Romania, le cui condizioni carcerarie risultino  sulla base di elementi oggettivi, attendibili, precisi e opportunamente aggiornati  affette da gravi carenze sistemiche o generalizzate, che è necessario accertare la sussistenza di un rischio concreto di trattamento inumano e degradante in ordine al regime carcerario riservato alla persona richiesta in consegnaCome ha chiarito la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CGUE, sentenza 5 aprile 2016, Aranyosi e Căldăraru, C-404/15 e C-659/15 PPU, § 95 e ss.), tale accertamento supplementare, che va condotto richiedendo con urgenza allo Stato membro emittente tutte le informazioni necessarie, deve avere carattere “concreto e preciso”, nel senso che deve riguardare le specifiche condizioni di detenzione previste per l’interessato. Nel motivo di ricorso, invero, è stata prospettata la grave situazione delle carceri rumene e si è osservato come sulla base di plurimi indici, primariamente rappresentati dalle numerose sentenze di condanna della Corte di Strasburgo, dovesse ravvisarsi una situazione di carenza strutturale, tale da esporre i detenuti al concreto rischio di trattamenti inumani e degradanti. Per quanto il tema sia stato dedotto solo in sede di legittimità, a fronte di un onere di allegazione che in via generale grava sulla parte interessata, deve nondimeno rilevarsi che è stata rappresentata una situazione oggettiva, desumibile da dati conoscitivi ineludibili, che devono dunque formare oggetto di analisi e di verifica, quale primaria garanzia posta dalla disciplina dettata in materia di MAE (Sez. 6, 8529/2017). Sotto tale profilo, dalle numerose sentenze di condanna pronunciate nei confronti della Romania dalla Corte EDU, si evince che il problema che affligge le carceri rumene è di tipo strutturale e riguarda la generalità degli istituti, non solo in rapporto al rischio di sovraffollamento, ma anche in relazione alle complessive condizioni di vita, tali da comportare una pluralità di disagi e sofferenze aggiuntive rispetto all’ordinario stato di restrizione. A tale riguardo, invero, la Corte di Strasburgo ha pronunciato una sentenza «pilota» (Corte EDU, sentenza del 25/4/2017, Rezmives c. Romania), segnalando come ancora una volta fossero state riscontrate diffuse condizioni di inadeguatezza degli istituti carcerari, anche in relazione alle condizioni igieniche e sanitarie, alla possibilità di fruire di acqua calda, alla presenza di insetti e topi, alla qualità dei materassi e come dunque dovesse in via generale imporsi l’adozione di rimedi e di idonei meccanismi compensatori. Tale situazione imponeva una attenta e rigorosa verifica, specificamente volta a verificare il concreto rischio di sottoposizione del consegnando a trattamenti inumani e degradanti, correlati alle complessive condizioni di vita all’interno delle strutture penitenziarie, confrontate se del caso con i tempi di eventuale permanenza all’esterno delle stesse (Sez. 6, 55627/2017).

In tema di MAE, l’AG dell’esecuzione è tenuta unicamente ad esaminare le condizioni di detenzione negli istituti penitenziari nei quali è probabile, secondo le informazioni a sua disposizione, che la suddetta persona sarà detenuta, anche in via temporanea o transitoria (CGUE, sentenza del 25 luglio 2018, causa C-220/18 PPU).

Non può divenire causa ostativa ad una pronuncia favorevole alla estradizione l’entità della pena prevista nell’ordinamento dello Stato richiedente per il reato oggetto di consegna, perché il regime sanzionatorio è riservato - fatta eccezione per il solo caso in cui sia prevista la pena capitale - alle diverse e autonome valutazioni dei due ordinamenti, reciprocamente insindacabili e irrilevanti ai fini dell’estradizione, salvo che vi sia motivo di ritenere che l’estradando possa essere sottoposto ad atti, pene o trattamenti indicati dall’art. 698, comma 1 (Sez. 6, 15927/2013).

In ordine alla condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, laddove vi siano elementi obiettivi, affidabili, precisi e debitamente attualizzati (desumibili anche da documenti e rapporti elaborati da organizzazioni non governative, la cui affidabilità sia generalmente riconosciuta sul piano internazionale (Sez. 6, 32685/2010), che facciano ritenere probabile che il ricercato venga sottoposto, una volta estradato, ad un trattamento inumano e degradante, lo Stato richiesto è tenuto a valutarlo, in applicazione della giurisprudenza CEDU per la quale lo Stato ha un obbligo positivo di assicurarsi che qualsiasi detenuto sia custodito in condizioni che garantiscono il rispetto della dignità umana. La corte d’appello deve quindi svolgere un’indagine mirata, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, al fine di accertare se, nel caso concreto, l’interessato alla consegna sarà sottoposto, o meno, ad un trattamento inumano o degradante (Sez. 6, 28822/2016).

La dimostrazione della concessione all’estradando dell’asilo politico da parte di uno Stato diverso da quello richiedente rappresenta un primo importante elemento di valutazione circa l’effettiva sussistenza della causa ostativa all’estradizione di cui all’art. 698, comma 1, dovuta al pericolo di atti persecutori o discriminatori cui l’interessato potrebbe essere sottoposto ove estradato nel Paese richiedente (Sez. 6, 10914/2017).

Il divieto di pronuncia favorevole ove si abbia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui ciò sia riferibile ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee a orientamenti istituzionali, non rilevando quelle situazioni rispetto alle quali sia comunque possibile una tutela legale (Sez. 6, 10905/2013).

Anche semplici dichiarazioni ufficiali di impegno dello Stato richiedente possono essere ritenute sufficienti contro il pericolo di trattamenti dell’estradando contrari ai principi umanitari (Sez. 6, 3689/1994).

Se è vero che in tema di estradizione per l’estero, l’assenza, nel regime normativo dello Stato richiedente, di una disciplina che contempli istituti penitenziari “avanzati” non comporta, di per sé, la violazione dei diritti fondamentali dell’individuo (Sez. 6, 5400/2009), dovendo l’attenzione concentrarsi, piuttosto, sull’esistenza di pratiche sistematiche di abusi e violazioni di diritti fondamentali ai danni dei detenuti, è vero però anche, al contrario, che l’introduzione, nello Stato richiedente, secondo una virtuosa linea di discontinuità con il passato, di istituti come l’espiazione della pena in regime non detentivo o la messa in prova, rispettosi dell’esigenza di risocializzazione del condannato, non può che costituire un concreto elemento di valutazione favorevole all’estradizione, imponendo la verifica se prassi di abuso e di violazione dei diritti fondamentali della persona sopravvivano con le stesse modalità sistematiche del passato nonostante le aperture umanitarie indotte dal novum legislativo (Sez. 2, 51657/2017).

La condizione ostativa all’estradizione collegata alla prevedibile violazione dei diritti fondamentali deve derivare da una scelta normativa o solo di fatto dello Stato richiedente, e non da mere iniziative estemporanee da parte di privati o di apparati pubblici agenti a titolo personale ed estemporaneo. In termini non dissimili si è più volte espressa la Corte EDU, in relazione all’analoga previsione dell’art. 3 CEDU, da cui si è ricavato che è fatto divieto ad uno Stato aderente alla Convenzione di disporre l’estradizione o l’espulsione di individui esposti al rischio di subire nel Paese di destinazione simili trattamenti (Corte EDU, sentenza 11.1.2007, Salah Sheekh c. Paesi Bassi); con la precisazione che tale divieto sussiste anche quando tali condotte siano poste in essere da privati, qualora il Paese di destinazione le tolleri, non avendo posto in essere misure adeguate allo scopo di prevenirle (Corte EDU, sentenza 2.5.1997, D. c. Regno Unito).

Poiché in gran parte dei casi non ricorre, per intuibili ragioni, una previsione a livello normativo che giustifichi o addirittura imponga in un determinato Paese simili trattamenti, è appunto a una situazione di fatto caratterizzata da conclamate e gravi violazioni, che non sia episodica, ma sia apprezzabilmente diffusa, consolidata, conosciuta e tollerata dagli organi dello Stato di destinazione, cui occorre fare riferimento per verificare se sussista un impedimento all’estradizione. Tale situazione generale deve naturalmente essere suscettibile, con ragionevole grado di probabilità, di riverberare i suoi effetti sull’estradando e di comportare per lui un concreto rischio di sottoposizione a trattamenti che costituiscano violazione dei suoi diritti fondamentali (Sez. 6, 49881/2013, Corte EDU, sentenza 19.6.2008, Ryabikin c. Russia; Corte EDU, sentenza CAT, Communication n. 327/2007, 25.11.2007, Boily c. Canada). Cosicché ove, pur in presenza di una diffusa e grave situazione di endemica violenza all’interno del sistema carcerario, sussistano e siano provati elementi idonei a elidere, con specifico riferimento alla persona dell’estradando, il rischio che egli sia sottoposto a trattamenti che violino i suoi diritti fondamentali, deve escludersi il divieto di consegna derivante dalle fonti – nazionali e internazionali – sopra citate (Sez. 6, 30864/2014).

In tema di validità delle assicurazioni diplomatiche fornite dallo Stato richiedente circa il trattamento penitenziario della persona soggetta a consegna e il totale rispetto dei suoi diritti fondamentali, il giudice europeo dei diritti umani (Corte EDU, sentenza Othman (Abu Qutada) c. Regno Unito n. 8139/2009, emessa il 17.1.2012) ha proceduto alla ricognizione degli elementi rilevanti al fine di considerare tali assicurazioni effettive e sufficienti: esse dovranno provenire da Stati fondati sulla rule of law, che ammettano il controllo diplomatico successivo sul loro rispetto e non abbiano in precedenza sottoposto la persona soggetta a consegna a trattamenti inumani; dovranno avere contenuto specifico e non vago; dovranno inoltre provenire da persone che hanno l’autorità per impegnare lo Stato richiedente (Sez. 6, 10965/2015).

Le pene dei lavori pubblici e dei lavori correzionali previsti dal codice penale ucraino non possono essere ricondotte nella nozione di lavori forzati e non presentano modalità lesive della dignità umana, vietate dall’art. 4 CEDU e dall’art. 698 comma 1 (Sez. 6, 28714/2012).

In tema di estradizione per l’estero che, ai fini dell’accertamento della condizione ostativa prevista dall’art. 698, comma 1, è onere dell’estradando allegare elementi e circostanze che la corte di appello deve valutare, anche attraverso la richiesta di informazioni complementari, al fine di accertare se, nel caso concreto, l’interessato sarà alla consegna sottoposto, o meno, ad un trattamento inumano o degradante, fatti salvi i casi in cui si versi in una situazione obiettiva già rilevata da decisioni di legittimità (Sez. 6, 8529/2017).

Varie pronunce (tra le altre, Sez. 6, 16175/2017), in relazione a MAE emessi da autorità giudiziarie della Bulgaria, hanno evidenziato che in tale Stato sussiste una situazione di sistemica e strutturale violazione dell’art. 3 CEDU a causa delle condizioni carcerarie, sotto il profilo del sovraffollamento nonché della mancanza di privacy e di offesa alla dignità umana nell’accesso a servizi igienici. Poiché è attualmente in corso da parte del Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura la verifica dell’attuazione delle raccomandazioni rivolte alla Bulgaria nel 2015 per la eliminazione delle constatate problematicità delle condizioni carcerarie, devono allo stato ritenersi ancora sussistenti i “gravi indizi” della violazione dei diritti fondamentali che imponevano quindi la verifica in concreto da parte della corte di appello del trattamento riservato al consegnando, secondo il modello procedurale più volte indicato da questa Corte, in analoghe situazioni (Sez. 6, 52236/2017).

Nel rapporto di Amnesty 2016/2017 sull’Albania, si evidenzia che il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Committee for the Prevention of Torture - CPT) ha dato conto di denunce presentate da detenuti in merito a maltrattamenti compiuti da agenti di polizia, in alcuni casi equivalenti a tortura. Si tratta – nondimeno – di episodi isolati che non possono dirsi espressione di una situazione di generale e sistemica lesione dei diritti individuali nel sistema detentivo albanese, tale da costituire condizione ostativa alla estradizione. Ed invero, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il divieto di pronuncia favorevole ove si abbia motivo di ritenere che l’estradando verrà sottoposto ad atti persecutori o discriminatori ovvero a pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti o comunque ad atti che configurano violazione di uno dei diritti fondamentali della persona, opera esclusivamente nelle ipotesi in cui ciò sia riferibile ad una scelta normativa o di fatto dello Stato richiedente, a prescindere da contingenze estranee a orientamenti istituzionali, non rilevando quelle situazioni rispetto alle quali sia comunque possibile una tutela legale (Sez. 6, 45476/2015).

Lo standard minimo di spazio individuale minimo in una cella collettiva di tre metri quadri deve essere calcolato al netto dei servizi igienici e al lordo della mobilia, purché quest’ultima non impedisca la libertà di movimento del detenuto. Al di sotto di tale spazio si è in presenza di una “forte presunzione” di trattamento degradante, che può essere vinta dallo Stato solo dimostrando cumulativamente tre condizioni, ovvero a) la brevità, l’occasionalità e la modesta entità delle riduzioni di spazio, b) la sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella accompagnata da adeguate attività da svolgersi in ambiente esterno, nonché c) la sistemazione del detenuto in una struttura complessivamente adeguata, con riguardo alle condizioni generali di detenzione. Ai fini della libertà di movimento, devono essere detratte, oltre all’area destinata ai servizi igienici, anche quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, solo ove questo assuma la forma e struttura “a castello”, e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente amovibili (Corte EDU, Grande camera, Mursic c. Croazia, 20/10/2016).

Cinque giorni di detenzione in una cella sovraffollata, priva di finestre e sistemi di ventilazione e con limitata facoltà di accesso ai servizi igienici comportano la violazione del divieto di trattamenti disumani e degradanti (Corte EDU, sentenza del 10 aprile 2018, Tsvetkova e altri c. Russia e, sulle questioni affini delle cure mediche e delle condizioni di trasporto, Corte EDU, sentenza del 7 novembre 2017, Dudchenko c. Russia; Corte EDU, sentenza 7 novembre 2017, Pukhachev e Saretskiy c. Russia; Corte EDU, sentenza del 28 novembre 2017, Kavkazskiy c. Russia).

È comprensibile che un soggetto sottoposto alla restrizione della propria libertà abbia difficoltà a fornire una prova sufficientemente attendibile dei maltrattamenti subiti, e proprio per questo motivo, in casi simili spetta allo Stato fornire una giustificazione per le lesioni riportate da chi si trovi sotto la sua soggezione. In altre parole, in mancanza di spiegazioni alternative alla responsabilità degli agenti per le lesioni denunciate, si ritiene che lo Stato non abbia esaustivamente adempiuto all’onere probatorio in grado di vincere la presunzione a favore della tesi del ricorrente. Per tali motivi, si è ritenuto che le lesioni intenzionalmente inflitte dagli agenti nell’esercizio delle loro funzioni, le quali hanno per altro causato danni piuttosto rilevanti nel ricorrente, rientrino dell’alveo dei trattamenti inumani e della tortura proibiti dall’art. 3 CEDU (Corte EDU, sentenza Matevosyan c. Armenia; Corte EDU, Zolotorev c. Russia).

È violato l’obbligo positivo di assicurare il rispetto della dignità umana durante lo stato di detenzione nel caso in cui un detenuto con gravi problemi di diabete e di insufficienza coronarica non riceva l’alimentazione a ridotto contenuto di colesterolo e grassi che è indispensabile per prevenire un peggioramento delle sue condizioni di salute (Corte EDU, sentenza 13 marzo 2018, Ebedin Abi c. Turchia).

È violato il divieto di infliggere trattamenti disumani o degradanti allorché un detenuto sordomuto fin dalla nascita sia ospitato in una cella sovraffollata e non sia adottato alcun accorgimento per consentirgli la comunicazione con gli altri detenuti (Corte EDU, sentenza del 5 ottobre 2017, Ābele c. Lituania e, per analoghe questioni concernenti un detenuto affetto da disturbi mentali, Corte EDU, sentenza del 18 luglio 2017, Rooman c. Belgio).

È violato l’art. 3 CEDU allorché a un detenuto affetto da tumore non siano prestate le adeguate cure mediche e gli siano assicurati solo farmaci antidolorifici (Corte EDU, sentenza Mirzashivli c. Georgia).

La presenza di deficienze sistemiche nel sistema penitenziario di uno Stato membro non basta di per sé a legittimare una deroga all’ordinario svolgimento della procedura del MAE, occorrendo che nel caso concreto la persona, se consegnata, rischi di essere sottoposta a condizioni di detenzione equiparabili ad un trattamento inumano o degradante, venendo messo in discussione, in caso contrario, il principio generale che sovrintende alla disciplina sul MAE, ovvero il principio di mutuo riconoscimento su cui poggia il sistema del MAE, a sua volta fondato sulla fiducia reciproca tra gli Stati membri circa il fatto che i loro rispettivi sistemi giuridici siano in grado di fornire una protezione equivalente ed effettiva dei diritti. A questo proposito, la Corte del Lussemburgo (CGUE, sentenza 5 aprile 2016, C404/15, Aaranyosi e C 659/15, Caldararu), ha affermato che, se lo Stato membro di esecuzione è tenuto ad accertare concretamente in relazione alla persona richiesta in consegna l’esistenza di un rischio collegato al divieto di pene o di trattamenti inumani o degradanti, contenuto nell’art. 4 CDFUE e nell’art. 3 CEDU, va al contempo salvaguardata la possibilità della realizzazione della consegna stessa, consentendo «entro un tempo ragionevole» allo Stato membro di emissione di rimuovere le condizioni ostative connesse a tale rischio. Una volta verificata dunque l’esistenza di un rischio concreto di trattamento contrario all’art. 3 CEDU ad opera di uno Stato membro, spetta infatti a quest’ultimo provvedere a rimuoverlo. La CGUE ha quindi delineato la procedura che gli Stati membri devono seguire allorquando l’AG dello Stato membro di esecuzione disponga di elementi che attestino «un rischio concreto» di trattamento inumano o degradante dei detenuti nello Stato membro di emissione mentre nel caso come quello esaminato in cui sulla base delle informazioni fornite, non venga escluso il rischio concreto di trattamento inumano o degradante, la CGUE ha stabilito che l’esecuzione del mandato «deve essere rinviata, ma non può essere abbandonata» e ne va informato EUROJUST. In buona sostanza, l’AG di esecuzione deve rinviare la propria decisione consegna, fintanto non ottenga – purché entro un termine ragionevole – informazioni complementari che le consentano di escludere la sussistenza di un siffatto rischio. Infatti la mera constatazione del rischio di violazione dei diritti fondamentali attiva in prima battuta un obbligo di consultazione tra le due AG coinvolte. Tuttavia, se tale scambio di informazioni non consente di escludere l’esistenza di un rischio individuale, la principale conseguenza non è l’abbandono immediato dell’esecuzione del mandato, bensì il suo rinvio (CGUE, sentenza Lanigan, C-237/15 PPU, 16 luglio 2015, § 38). La Corte ammette la possibilità di un rifiuto del mandato laddove l’esistenza del rischio non possa essere esclusa o superata “dans un délai raisonnable (entro un ritardo ragionevole – NDA)” (Sez. 2, 8277/2018).