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Art. 673 - Revoca della sentenza per abolizione del reato

1. Nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.

2. Allo stesso modo provvede quando è stata emessa sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere per estinzione del reato o per mancanza di imputabilità.

Rassegna giurisprudenziale

Revoca della sentenza per abolizione del reato (art. 673)

Il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673, una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizione (SU, 26259/2016).

Il giudice dell’esecuzione, qualora, in applicazione dell’art. 673, pronunci per intervenuta abolitio criminis ordinanza di revoca di precedenti condanne, le quali siano state a suo tempo di ostacolo alla concessione della sospensione condizionale della pena per altra condanna, può nell’ambito dei provvedimenti conseguenti alla suddetta pronuncia, concedere il beneficio, previa formulazione del favorevole giudizio prognostico richiesto dall’art. 164, comma 1, Cod. pen., sulla base non solo della situazione esistente al momento in cui era stata pronunciata la condanna in questione, ma anche degli elementi sopravvenuti (SU, 4687/2006).

In caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile ai sensi del D. Lgs. 7.2016, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili, fermo restando il diritto della parte civile di agire “ex novo” nella sede naturale, per il risarcimento del danno e l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile (SU, 46688/2016). Viceversa il giudice della esecuzione revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando, tuttavia, ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili (Sez. 2, 26091/2016).

Il giudice dell’esecuzione è legittimato, pertanto, alla sola revoca della sentenza di condanna perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato e non a incidere sulle statuizioni civili, poiché, al pari, queste ultime risultano coperte dall’irrevocabilità del giudicato formale e sostanziale, ed essendosi prodotti gli effetti di cui all’art. 2909 Cod. civ.

Perché il giudice penale possa, invero, provvedere sulla domanda civile occorre ai sensi dell’art 538 una sentenza di condanna. Essa costituisce presupposto e percorso di accertamento strettamente connesso alla conformazione del reato. Là dove il reato stesso risulti nelle more abrogato, l’accertamento stesso deve ritenersi minato nelle sue fondamenta e impedito dalla espunzione della figura criminis dall’ordinamento penale in virtù dell’anzidetto fenomeno abolitivo.

Non residua alcuna potestà d’accertamento in capo al giudice penale, di natura incidentale funzionale ai fini della decisione sugli effetti civili, proprio in ragione di quanto prescrive il più volte evocato art. 538.

Da ciò consegue che la sentenza di condanna e le relative statuizioni civili devono essere revocate.

Unica eccezione, si è anticipato, è quella in cui si sia già formato il giudicato sul fatto originariamente previsto dalla legge come reato e sulle stesse statuizioni civili. In questa ipotesi il problema della revoca della sentenza di condanna rileva in sede esecutiva ex art. 673.

Là dove il giudizio di cognizione risulti contrariamente ancora in essere, sia pur in funzione della decisione sui soli effetti civili, e medio tempore il reato sia stato abrogato, l’intervenuta abolitio travolge sia l’accertamento sul titolo delittuoso che le conseguenti e parallele statuizioni civili.

Ciò perché la portata concettuale dell’art. 538 si espande e preclude al giudice penale di statuire sulla materia civile, in difetto della necessaria pronuncia di condanna sul reato. Il potere del giudice penale di statuire sui profili aquiliani, non risulta, invero, generalizzato ex art. 2043 Cod. civ., ma strettamente legato all’accertamento del reato e all’art. 185 Cod. pen. (Sez. 1, 7391/2018).

La Corte costituzionale con sentenza 230/2012 ha tenuto ben salda la distinzione tra mutamento legislativo e mutamento di indirizzo giurisprudenziale ed ha escluso la possibilità di estendere il procedimento della revoca del giudicato in executivis, previsto dall’art. 673 per i casi di abolitio criminis, all’ipotesi di overruling favorevole, che ricorre quando il nuovo orientamento giurisprudenziale, emendando quello precedente, finisce per escludere il fatto, per il quale è già intervenuta la condanna, dalla portata applicativa di una norma penale.

Infatti, ricordando che le pronunce sulla giurisprudenza penale non hanno effetti vincolanti nei confronti dei giudici chiamati ad occuparsi di fattispecie analoghe e che è assolutamente fisiologico che il precedente giurisprudenziale, compreso quello costituito da una pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione, possa essere contraddetto da una decisione successiva, la Corte ha affermato che il mutamento di indirizzo giurisprudenziale non è equiparabile, agli effetti dell’ art. 2 Cod. pen., ad uno jus superveniens, anche in considerazione del rischio al quale sarebbe esposto il principio della sicurezza giuridica, se, per garantire la parità di trattamento, si prevedesse la revisione di tutte le decisioni definitive anteriori contrastanti con il nuovo indirizzo.

E con riferimento specifico al contrasto dell’art. 673 nella sua attuale formulazione con l’art. 117 Cost., in relazione all’art. 7 CEDU, ha affermato che la Corte EDU non aveva mai riferito specificamente il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti di giurisprudenza, presi in considerazione (e ritenuti in contrasto con l’art. 7) solo se in malam partem, in nome del diverso principio dell’irretroattività della norma penale sfavorevole.

A tale ultimo proposito, peraltro, la Corte costituzionale ha rilevato che, dalla giurisprudenza della Corte EDU, emerge un limite all’operatività del principio di retroattività della lex mitior di segno contrario rispetto a quello auspicato dal giudice a quo in quanto la sentenza della Corte EDU, Grande Camera, del 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia, aveva desunto dall’art. 7 la retroattività della lex mitior con esclusivo riferimento alle «leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia definitiva» e, dunque aveva escluso che il principio in questione fosse destinato ad operare oltre il limite del giudicato, diversamente da quanto prevede, nel nostro ordinamento, l’art. 2, commi 2 e 3, Cod. pen.

Ed ha rilevato, altresì, che la Corte di Strasburgo aveva escluso, anche in termini più generali, che l’esigenza di assicurare la parità di trattamento potesse essere invocata al fine di travolgere il principio di intangibilità della res iudicata.

Sul punto posto all’attenzione di questa Corte si sono recentemente pronunciate le Sezioni unite, (SU, 26259/2016) che, nell’ affermare che il giudice dell’esecuzione può revocare, ai sensi dell’art. 673, una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l’evenienza di “abolitio criminis” non sia stata rilevata dal giudice della cognizione, ha precisato che la revocabilità della sentenza deve invece essere esclusa nella diversa ipotesi in cui, in assenza di interventi del legislatore, si verifichi un mutamento dell’interpretazione giurisprudenziale di una disposizione rimasta invariata, in quanto tale mutamento – anche se sancito dalle Sezioni unite della Corte di cassazione – non determina alcun effetto abrogativo della disposizione interpretata.

Principi che, mutatis mutandis, possono essere estesi anche al c.d. overruling correttivo sfavorevole di cui si è detto. E sul quale, peraltro, si è pronunciata recentemente questa Corte, affermando che non viola il principio di legalità, anche convenzionale, l’interpretazione giurisprudenziale della legge penale in senso sfavorevole all’imputato, rispetto a precedenti decisioni, nella misura in cui la possibilità di letture diverse della norma incriminatrice non discenda da una patologica indeterminatezza della fattispecie, e l’interpretazione sfavorevole sia comunque razionalmente correlabile al significato letterale della previsione (Sez. 1, 39165/2017).