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Art. 533 - Condanna dell’imputato

1. Il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio. Con la sentenza il giudice applica la pena e le eventuali misure di sicurezza.

2. Se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso di reati e di pene o sulla continuazione. Nei casi previsti dalla legge il giudice dichiara il condannato delinquente o contravventore abituale o professionale o per tendenza.

3. Quando il giudice ritiene di dover concedere la sospensione condizionale della pena o la non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale, provvede in tal senso con la sentenza di condanna.

3-bis. Quando la condanna riguarda procedimenti per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), anche se connessi ad altri reati, il giudice può disporre, nel pronunciare la sentenza, la separazione dei procedimenti anche con riferimento allo stesso condannato quando taluno dei condannati si trovi in stato di custodia cautelare e, per la scadenza dei termini e la mancanza di altri titoli, sarebbe rimesso in libertà.

Rassegna giurisprudenziale

Condanna dell’imputato (art. 533)

Principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio (sentenze di condanna)

Il principio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, da considerarsi un pilastro del sistema, non costituisce solo una regola di giudizio ma proietta la propria rilevanza anche sul piano della formazione della prova, imponendo l'acquisizione di materiale probatorio di fonte non unilaterale, in modo che la decisione giudiziale possa fondarsi sull'apporto dialettico di elementi dimostrativi di provenienza contrapposta, sì da dar vita a una feconda dialettica conoscitiva e a un quadro probatorio caratterizzato da ricchezza ed affidabilità di apporti cognitivi, nel contesto del quale il giudice possa orientare in modo adeguato le proprie determinazioni. Il giudice, infatti, può fare legittimamente propria l'una piuttosto che l'altra delle tesi scientifiche prospettate dai periti d'ufficio o dai consulenti di parte, nell'ambito della dialettica processuale, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha disatteso ma deve innanzitutto promuovere questa pluralità ed eterogeneità di contributi cognitivi (Sez. 4, 19571/2021).

I principi dell’al di là di ogni ragionevole dubbio e presunzione di innocenza concorrono alla definizione delle regole probatorie e di giudizio e dei metodi di accertamento del fatto, imponendo standard probatori (quello dell’art. 533 comma 1 corrisponde per la sentenza di condanna a quanto l’art. 530 comma 2 stabilisce per la sentenza di assoluzione) e protocolli logici di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive del fatto fondati sulla tendenziale recessività dell’ipotesi d’accusa (in dubio pro reo) e finalizzati alla necessaria giustificazione razionale delle decisioni giudiziarieCon la formula introdotta dalla L. 46/2006 (art. 5) ad integrazione dell’art. 533 si è così proceduto a dare valore normativo alla consolidata affermazione giurisprudenziale secondo la quale la condanna è possibile solo in presenza di certezza processuale della penale responsabilità dell’imputato e si è con maggiore puntualità precisato che il dato probatorio acquisito deve essere tale da lasciar fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del ben che minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umanaSicché, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, occorre che siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi ricostruttiva accolta, in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un’ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile. In tale prospettiva appare del tutto conseguente l’ulteriore approdo di legittimità che ha sintetizzato il principio nella cogenza di un metodo dialettico di verifica dell’ipotesi accusatoria secondo il criterio del “dubbio”, con la conseguenza che il giudicante deve effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (l’autocontraddittorietà o l’incapacità esplicativa) o esterni (l’esistenza di una ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica). La giurisprudenza di legittimità ha ulteriormente precisato che, in tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, né procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve valutare, anzitutto, i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti), saggiarne l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica) e poi procedere ad un esame globale degli elementi certi, per accertare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato “al di là di ogni ragionevole dubbio” e, cioè, con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana. Va infine ribadito, a scanso di ogni equivoco, che il criterio del dubbio ragionevole (il dovere del dubbio) reagisce in modo diverso sugli esiti di condanna e su quelli assolutori: la sentenza di condanna deve superare il ragionevole dubbio sull’attendibilità e concludenza della prova dell’ipotesi accusatoria, mentre quella di assoluzione può (deve) limitarsi al ragionevole dubbio (Sez. 6, 40810/2018).

La violazione del principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio che rileva in sede di legittimità esclusivamente ove essa si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza (Sez. 2, 35647/2018).

L’importazione nel nostro codice della formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio (regola BARD) è stata effettuata con la cosiddetta riforma del giusto processo (L. 46/2006), orientata a rafforzare la struttura accusatoria del rito anche attraverso l’importazione di alcuni elementi del processo anglosassone e, segnatamente di quello nordamericano. Nel processo statunitense la esortazione a giudicare “oltre ogni ragionevole dubbio” fa parte delle instructions che il giudice deve impartire alla giuria, che decide con verdetto immotivato: si tratta pertanto di una raccomandazione che, in quell’ordinamento non ha alcun controllabile precipitato nella motivazione. Dopo l’importazione della formula nel tessuto codicistico italiano la dottrina prevalente ha collegato il criterio alla presunzione di non colpevolezza contenuta nell’art. 27 comma 2 Cost., trovando autorevole conferma nella giurisprudenza delle Sezioni unite (SU, 18620/2017 e SU, 14800/2018). La dottrina ha ritenuto altresì che il criterio valutativo in questione segni il superamento del principio del principio del “libero convincimento del giudice” e, quindi, della necessità che la condanna sia fondata sulla valorizzazione delle prove assunte in contraddittorio le quali, per rispettare il canone valutativo, devono avere una capacità dimostrativa sufficiente a neutralizzare la valenza antagonista delle tesi alternative. Il criterio in questione non può tradursi nella valorizzazione di uno “stato psicologico” del giudicante, invero soggettivo ed imperscrutabile, ma è indicativo della necessità che il giudice dell’impugnazione effettui un serrato confronto con gli elementi emersi nel corso della progressione processuale e, segnatamente, con le ragioni poste a sostegno della prima decisione e con gli argomenti di critica proposti dall’appellante. Ricondotta la formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio alla necessità di considerare le tesi antagoniste, risulta visibilmente attenuata l a (straordinaria) capacità conformativa che gli è stata riconosciuta: ogni provvedimento di “secondo grado” su base devolutiva deve infatti necessariamente confrontarsi con gli argomenti spesi dal primo giudice, oltre che con i motivi di impugnazione; sicché l’asimmetria tra procedimento che si conclude con la assoluzione rispetto a quello che si conclude con la condanna permane solo in relazione all’obbligo di rinnovazione delle prove dichiarative, attivo esclusivamente nei casi di reformatio in peius (ora su base legislativa ex art. 603 comma 3-bis). L’obbligo del giudice di appello di confronto con le ragioni del provvedimento impugnato e con i motivi dell’impugnazione si estende peraltro anche all’appello cautelare; tale confronto si sottrae, però, al rispetto del criterio valutativo dell’oltre ogni ragionevole dubbio” che trova in tale limite un ulteriore elemento di definizione. Il criterio in questione si applica infatti solo in un ambiente, quello della cognizione, in cui il confronto con la difesa non soffre alcuna strutturale limitazione correlata alla natura urgente e cartolare del giudizio ed infiltra la stessa formazione della prova, che viene generata attraverso il confronto diretto tra accusa e difesa: il contraddittorio in ambiente dibattimentale ha infatti una dimensione “genetica” e non solo “valutativa”. La cognizione cautelare è, invece, fondata su compendi indiziari cartolari ed assunti (di regola) in via unilaterale, mentre il confronto con la difesa è postumo e non agisce nel momento genetico di formazione degli elementi di prova ma solo nel successivo momento valutativo; così, per esempio, gli elementi dì prova dichiarativa, anche nei casi di progressione non conforme, ovvero di reformatio in peius, non possono che essere valutati sulla base delle “carte”, ovvero dei verbali formati in via unilaterale. È escluso pertanto che in ambiente cautelare debba procedersi alla audizione del dichiarante “decisivo”, ovvero che debba essere rispettato rispetto di uno dei più importanti obblighi correlati della regola BARD. Il che rende evidente l’inidoneità del criterio in esame ad adattarsi al giudizio cautelare fondato su compendi cartolari non generati in contraddittorio e manifesta la incoercibile diversità del giudizio cautelare rispetto a quello di cognizione: in un caso è in valutazione la gravità indiziaria, mentre nell’altro caso è in giudizio la responsabilità; nel primo caso si valutano gli elementi di prova assunti in via unilaterale, mentre nel secondo si giudicano le prove (di regola) generate in contraddittorio (Sez. 2, 30407/2018).

Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione “oltre ogni ragionevole dubbio”, presente nel testo novellato dell’art. 533 quale parametro cui conformare la valutazione inerente all’affermazione di responsabilità dell’imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell’icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale. Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacché, in precedenza, il “ragionevole dubbio” sulla colpevolezza dell’imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell’art. 530, comma 2, sicché non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario, secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell’imputato (Sez. 2, 36902/2018).

La regola di cui all’art. 533 comma 1 non è norma che possa essere adoperata quale parametro di violazione di legge, laddove si finirebbe per censurare, in tal modo, la motivazione al di là dei casi di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), richiedendo così al giudice di legittimità un’autonoma valutazione delle fonti di prova che esula dai suoi poteri; infatti, il parametro di valutazione di cui all’art. 533 ha ampi margini di operatività solo nella fase di merito, quando può essere proposta una ricostruzione alternativa, mentre in sede di legittimità tale regola rileva solo allorché la sua inosservanza si traduca in una manifesta illogicità della motivazione (Sez. 5, 38913/2018).

 

Determinazione della pena

Se l’aumento di pena che è possibile apportare ai sensi dell’art. 81 comma 2 può astrattamente raggiungere il triplo della pena massima, non è sufficiente per la legalità del calcolo determinare la pena nell’ambito quantitativo previsto dalla legge, dovendo il giudice, nella motivazione, dare conto delle decisioni assunte su ogni aspetto dell’esercizio del suo potere discrezionale, ivi compresa la determinazione dell’aumento di pena per la continuazione.

Ciò in forza della previsione contenuta nell’art. 533, comma 2 secondo cui “... se la condanna riguarda più reati, il giudice stabilisce la pena per ciascuno di essi e quindi determina la pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sul concorso dei reati o sulla continuazione”.

Di conseguenza, deve ritenersi che la mancanza di motivazione sulla determinazione dell’aumento di pena per la continuazione, non essendo previsto nell’art. 81 cod. pen. un aumento minimo di pena, ma solo un massimo quantificato nella misura del triplo della pena base, sottrae all’imputato il controllo sull’uso fatto dal giudice del suo potere discrezionale, integrando, quindi, un vizio di motivazione della sentenza rilevante ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e).

Tale principio deve essere applicato tenendo, però, conto del fatto che una specifica e dettagliata motivazione in merito ai criteri seguiti dal giudice nella determinazione della pena sia richiesta nel caso in cui la sanzione sia determinata in misura prossima al massimo edittale o comunque superiore alla media, risultando insindacabile, in quanto riservata al giudice di merito, la scelta implicitamente basata sui criteri di cui all’art. 133 Cod. pen. di irrogare una pena in misura media o prossima al minimo edittale (Sez. 7, 35917/2018).

Quanto ai profili della motivazione in ordine agli aumenti in continuazione, deve rilevarsi non sussistere obbligo di specifica motivazione per ogni singolo aumento, essendo sufficiente indicare le ragioni a sostegno della quantificazione della pena-base (Sez. 5, 29847/2015).

Il dovere per il giudice di una specifica motivazione sulla pena è ancorato allo scostamento dal minimo edittale.

L’uso del potere discrezionale del giudice, nella graduazione della pena, è insindacabile nei casi in cui la pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, sia applicata in misura media e, ancor più, se prossima al minimo, essendo sufficiente in tali casi richiamare criteri di adeguatezza, congruità, non eccessività, di equità e simili (Sez. 3, 32902/2018).

Una specifica e dettagliata motivazione in ordine alla quantità di pena irrogata, specie in relazione alle diminuzioni o aumenti per circostanze, è necessaria soltanto se la pena sia perlomeno superiore alla misura media di quella edittale, potendo altrimenti essere sufficienti a dare conto dell’impiego dei criteri di cui all’art. 133 Cod. pen. le espressioni del tipo: “pena congrua”, “pena equa” o “congruo aumento”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 2, 23041/2018).

L’indicazione nella motivazione sulla determinazione dell’entità della pena degli elementi negativi ritenuti di dominante rilievo non rende necessario l’esame dettagliato degli ulteriori elementi rappresentati.

È quindi sufficiente, in considerazione dell’entità della pena determinata nella sentenza impugnata, il richiamo, tra i criteri di valutazione previsti dall’art. 133 Cod. pen., unicamente alla capacità a delinquere dell’imputato, desunta dai precedenti penali, e alla gravità dei fatti per le particolari modalità di commissione.

Peraltro, allorché la pena, pur in presenza di differenti trattamenti sanzionatori finali, non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, l’obbligo motivazionale previsto dall’art. 125, comma 3, deve ritenersi assolto anche attraverso espressioni che - come nella fattispecie - manifestino sinteticamente il giudizio di congruità della pena o richiamino sommariamente i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 Cod. pen.

Invero, costituisce principio consolidato della giurisprudenza di legittimità che - in tal caso l’obbligo di motivazione del giudice si attenua ed è sufficiente il richiamo al criterio di adeguatezza della pena, nel quale sono impliciti gli elementi di cui all’art. 133 Cod. pen (Sez. 2, 25922/2018).

Le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell’equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l’adeguatezza della pena irrogata in concreto (SU, 10713/2010).

In tema di determinazione della pena, nel caso in cui venga irrogata una pena al di sotto della media edittale, non è necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo è desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena (Sez. 3, 33374/2018).

La decisione sulla concessione o sul diniego delle attenuanti generiche è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito, che nell’esercizio del relativo potere agisce con insindacabile apprezzamento, sottratto al controllo di legittimità, a meno che non sia viziato da errori logico-giuridici (Sez. 3, 33374/2018).

Le circostanze attenuanti generiche non possono essere intese come oggetto di benevola e discrezionale “concessione” del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni non contemplate specificamente, non comprese cioè tra le circostanze da valutare ai sensi dell’art. 133 Cod. pen., che presentano tuttavia connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare, considerazione ai fini della quantificazione della pena (Sez. 2, 23041/2018).

Ai fini della determinazione della pena e della valutazione delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può tenere conto di uno stesso elemento (nella specie: la gravità della condotta) che abbia attitudine a influire su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini senza che ciò comporti lesione del principio del “ne bis in idem” (Sez. 2, 24995/2015), non essendo comunque necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, 23041/2018).

 

Applicazione di misure di sicurezza

Il nostro sistema (artt. 205 comma 1 e 236 comma 2 Cod. pen.; artt. 530 comma 4 e 533 comma 1) attribuisce al giudice della cognizione il potere, nel pronunciare sentenza di assoluzione o di condanna dell’imputato, di applicare le eventuali misure di sicurezza, consentendo - solo in via subordinata - che la confisca possa essere ordinata, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di merito, dal giudice dell’esecuzione, su domanda di parte e secondo le regole e le garanzie stabilite per relativo procedimento dall’art. 676, comma 1.

A norma del combinato disposto dell’art. 205, comma 1, Cod. pen. e 236 Cod. pen., le misure di sicurezza debbano essere disposte “nella stessa sentenza di condanna”, come risulta anche dal tenore dell’art. 579, il quale espressamente prevede l’impugnazione contro il capo della sentenza concernente le misure di sicurezza.

Da ciò discende: a) che il rimedio, predisposto per l’omessa decisione sul punto, è solo ed esclusivamente l’impugnazione e non certo una separata decisione, assunta dal tribunale dopo l’emissione della sentenza; b) che, non a caso, l’art. 676 attribuisce al giudice dell’esecuzione la decisione in ordine alla confisca, quando la pronuncia sia passata in giudicato ed il giudice della cognizione non abbia provveduto alla confisca obbligatoria.

Non risulta, quindi, previsto che il giudice della cognizione possa provvedere con separata ordinanza, una volta che il processo sia stato definito con la lettura del dispositivo (Sez. 3, 9476/2018).

La confisca facoltativa di cui all’art. 240, comma 1, Cod. pen. è misura di sicurezza patrimoniale fondata sulla pericolosità derivante dalla disponibilità delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato ovvero delle cose che ne sono il prodotto o il profitto, talchè l’istituto, che consiste nell’espropriazione di quelle cose a favore dello Stato, tende a prevenire la commissione di nuovi reati e, come tale, ha carattere cautelare e non punitivo, anche se, al pari della pena, i suoi effetti ablativi si risolvono in una sanzione pecuniaria (SU, 1/1983), il giudice è, in effetti, tenuto a motivare in ordine alle ragioni per le quali ritiene di dover disporre la confisca di specifici beni in quanto serviti o destinati a commettere il reato, ovvero prodotto o profitto dello stesso (Sez. 5, 51106/2017).

Sono abnormi i provvedimenti con i quali, dopo la pronuncia della sentenza dibattimentale o di applicazione della pena su richiesta delle parti, fuori udienza e senza alcun confronto preventivo con le parti, si disponga la confisca di beni patrimoniali dell’imputato al quale si è applicata la pena concordata.

Il sistema processuale contempla la possibilità di imporre la confisca o altre misure di sicurezza soltanto con la sentenza di assoluzione o di condanna dell’imputato; solo in via subordinata, tale provvedimento può essere adottato dopo il passaggio in giudicato della sentenza di merito dal giudice dell’esecuzione su domanda di parte e secondo le regole e le garanzie stabilite per relativo procedimento dall’art. 676, comma 1.

Pertanto, se la relativa statuizione sia stata omessa al momento della pronuncia della sentenza, vi si può porre rimedio esclusivamente con l’impugnazione, esperibile anche “per ciò che concerne le misure di sicurezza” ai sensi dell’art. 579, non con un intervento successivo assunto d’iniziativa dal giudicante e senza il rispetto di alcuna formalità dopo la lettura del dispositivo alle parti in udienza, che il sistema normativo non consente anche a fronte di una confisca obbligatori (Sez. 6, 10623/2014).

 

Dichiarazione di delinquenza abituale

È nulla per difetto di contestazione, limitatamente alla dichiarazione di abitualità nel reato, la sentenza di condanna pronunciata in relazione ad imputazione che si limiti genericamente ad indicare la recidiva reiterata specifica ed infraquinquennale e l’esistenza delle condizioni per la dichiarazione di delinquenza abituale, in assenza d’espresso riferimento alla fattispecie d’abitualità presunta per legge ovvero a quella ritenuta dal giudice (Sez. 6, 17884/2009).

 

Concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna

In tema di sospensione condizionale della pena, il giudice di merito, nel valutare la concedibilità del beneficio, non ha l’obbligo di prendere in esame tutti gli elementi indicati nell’art. 133 Cod. pen., potendo limitarsi ad indicare quelli da lui ritenuti prevalenti (Sez. 2, 19298/2015).

L’istituto della sospensione condizionale della pena è ispirato a criteri che trascendono la limitata sfera dell’interesse particolare dell’imputato, con la conseguenza che il giudice, nel subordinare il beneficio al pagamento della somma accordata a titolo di risarcimento danni, non è nemmeno tenuto a compiere alcuna indagine sulle condizioni economiche dell’interessato, salvo l’approfondimento della questione in sede esecutiva (Sez. 2, 33786/2018).

Legittimamente il beneficio della sospensione condizionale della pena è negato dal giudice in base a prognosi sfavorevole nella quale rientrano, oltre le sentenze di condanna riportate dall’imputato, anche i precedenti giudiziari di cui all’art. 133 Cod. pen. in quanto il giudizio prognostico ex art. 164, comma 1, Cod. pen., per altro, è del tutto indipendente dai limiti relativi alla misura della pena fissati dall’art. 163 Cod. pen. che determinano la concedibilità in astratto del beneficio ma non certo il contenuto favorevole della prognosi (Sez. 4, 1245/2018).

Il beneficio della non menzione della condanna di cui all’art. 175 Cod. pen. è fondato sul principio dell’emenda, e tende a favorire il processo di recupero morale e sociale, sicché la sua concessione è rimessa all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, e non è necessariamente conseguenziale a quella della sospensione condizionale della pena, fermo restando tuttavia l’obbligo del giudice di merito di indicare le ragioni della mancata concessione sulla base degli elementi di cui all’art. 133 Cod. pen. (Sez. 2, 22967/2018).

Il beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale è diverso da quello della sospensione condizionale della pena perché, mentre quest’ultima ha l’obiettivo di sottrarre alla punizione il colpevole che presenti possibilità di ravvedimento e di costituire, attraverso la possibilità di revoca, un’efficace remora ad ulteriori violazioni della legge penale, il primo persegue lo scopo di favorire il ravvedimento del condannato mediante l’eliminazione della pubblicità quale particolare conseguenza negativa del reato, sicché non è contraddittorio il diniego di uno dei due benefici e la concessione dell’altro (Sez. 6, 34489/2012).

 

Riforma in appello di una sentenza di condanna

Nell’ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado.

Tuttavia, il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado (SU, 14800/2018).

In tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello sia che riformi la decisione di condanna di primo grado, sia che riformi una decisione assolutoria, ha l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (SU, 33748/2005).

 

Riforma in appello di una sentenza di assoluzione

La previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) CEDU implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del PM avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma 3, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado: principio, questo, valido anche in caso di riforma ai soli fini civili, come nel caso di specie; costituiscono prove decisive, ai fini in esame, quelle che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l’assoluzione (SU, 27620/2016).

Lo stesso principio è applicabile al caso in cui la Corte d’appello riformi la sentenza di assoluzione disposta all’esito del giudizio abbreviato non condizionato (SU, 18620/2017).

In senso contrario: il giudice di appello, qualora il primo grado si sia svolto con rito abbreviato non condizionato, non è tenuto alla rinnovazione dell’istruzione ai fini della riforma della sentenza di assoluzione (Sez. 3, 43242/2016).

 

Casistica

La chiamata di correo è una prova, che non si trova sottoordinata in una immaginaria piramide, fino al punto che – come talvolta si pretende – sarebbe apprezzabile solo nei casi in cui si affianchi ad una prova diversa e da sola sufficiente. Si deve aggiungere, con chiarezza, che gli “altri elementi” utili per confermarne l’attendibilità sono ugualmente sottratti all’inesistente gerarchia, e dunque possono consistere in una qualunque fonte di conoscenza, alla sola condizione che il loro valore confermativo sussista veramente.

Così, perfino una chiamata di correo o una dichiarazione eteroaccusatoria de relato possono essere riscontrate da una fonte narrativa del medesimo genere, sia pure a condizione dell’utilizzo di parametri proporzionati all’entità dei “rischi” connaturati alla situazione (SU, 20804/2013).

Allo stesso modo, non è necessario che l’elemento di riscontro sia rappresentato da una prova diretta o storica, ben potendo accadere, sempre con le cautele del caso, che la conferma sia ottenuta per il mezzo della prova logica (Sez. 3, 44882/2014). La garanzia di efficacia della funzione confermativa dell’elemento di riscontro richiede ulteriori presupposti. Oggetto della prova sono i fatti che si riferiscono all’imputazione (art. 187 comma 1).

Ciò non vuol dire che siano ammissibili e valutabili solo prove concernenti gli elementi essenziali della fattispecie contestata (la condotta, l’evento, la causalità, l’elemento soggettivo), poiché il criterio di pertinenza attiene a tutte le circostanze utili per la verifica delle ipotesi ricostruttive formulate dalle parti (Sez. 2, 2622/2003).

Nondimeno, l’oggetto diretto, minimo ed indispensabile dell’accertamento demandato al giudice è costituito proprio dagli elementi che fondano la colpevolezza dell’imputato per il reato ascrittogli, secondo il criterio dell’esclusione di ogni ragionevole dubbio (art. 533, comma 1).

Per esempio, la prova che un reato sia stato commesso non implica la responsabilità della persona nella specie accusata. Occorre che gli elementi di conferma dell’ipotesi di accusa attengano anzitutto alla sussistenza dello specifico fatto criminoso in contestazione, in termini di sussistenza e di corrispondenza alla fattispecie incriminatrice; ma è necessario, ancora, che gli elementi in discorso confermino in modo specifico la partecipazione al fatto della persona accusata, nei termini che fondano la relativa contestazione.

Ciò non impedisce che l’elemento confermativo possa consistere nella prova logica desumibile dall’accertamento di una circostanza diversa: occorre, però, che si tratti di una prova logica effettivamente pertinente al fatto, che lo confermi in modo puntuale, e non valga semplicemente ad incrementare, in termini generali ed astratti, la credibilità dell’accusa.

Ad esempio, la prova di un effettivo interesse alla soppressione della vittima non si risolve, ex se, in riscontro della indicazione che abbia attribuito all’accusato il ruolo di mandante dell’omicidio, valendo al più quale fattore di orientamento favorevole circa l’attendibilità della ricostruzione accusatoria (SU, 20804/2013).

La cosiddetta convergenza del molteplice non esige che gli elementi concorrenti riguardino la medesima circostanza di fatto che assume rilievo nell’economia della contestazione (ad esempio, che una determinata persona abbia partecipato ad una determinata riunione preparatoria del reato concorsuale); se così fosse, verrebbe meno il criterio di sufficienza del riscontro logico che si è richiamato e che non risulta oggetto di particolari contestazioni nel dibattito giurisprudenziale (Sez. 6, 1249/2014).

Tuttavia la convergenza deve riguardare circostanze pertinenti alla specifica partecipazione criminosa (Sez. 1, 28221/2014). In definitiva, tra gli “altri elementi di prova che confermano l’attendibilità” delle dichiarazioni dei coimputati del medesimo reato vi sono anche i riscontri di natura logica; questi possono essere costituiti anche da prove di fatti storici diversi purché si tratti di riscontro logico effettivamente pertinente al fatto, che lo confermi in modo puntuale, e non valga semplicemente ad incrementare, in termini generali ed astratti, la credibilità dell’accusa (ricostruzione dovuta a Sez. 1, 34352/2018).

Le dichiarazioni della persona offesa possono essere legittimamente poste da sole a base dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della loro credibilità soggettiva e dell’attendibilità intrinseca del racconto. In sintesi il vaglio positivo dell’attendibilità del dichiarante deve essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello generico cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone.

A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico-giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa.

Può essere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di una specifica pretesa economica la cui soddisfazione discenda dal riconoscimento della responsabilità dell’imputato.

Costituisce, infine, principio incontroverso nella giurisprudenza di legittimità l’affermazione che la valutazione della credibilità della persona offesa dal reato rappresenta una questione di fatto che ha una propria chiave di lettura nel compendio motivazionale fornito dal giudice e non può essere rivalutata in sede di legittimità, salvo che il giudice non sia incorso in manifeste contraddizioni (Sez. 2, 36902/2018).