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Art. 535 - Condanna alle spese

1. La sentenza di condanna pone a carico del condannato il pagamento delle spese processuali.

2. Abrogato

3. Sono poste a carico del condannato le spese di mantenimento durante la custodia cautelare, a norma dell’articolo 692.

4. Qualora il giudice non abbia provveduto circa le spese, la sentenza è rettificata a norma dell’articolo 130.

Rassegna giurisprudenziale

Condanna alle spese (art. 535)

L’esclusione del vincolo di solidarietà conseguente all’abrogazione dell’art. 535, comma 2, recata dalla Legge 69/2009, non ha effetto sulle statuizioni di condanna alle spese emesse anteriormente in tal senso e passate in giudicato (SU, 491/2012).

Il debito da rimborso delle spese processuali dallo Stato anticipate nel processo penale costituisce sanzione economica accessoria alla pena, in qualche modo partecipe del relativo regime giuridico; con la conseguenza che, quanto alla nuova disciplina delle spese processuali recata dalla L. 69/2009, trova applicazione l’art. 2 comma 4 Cod. pen. che esclude dall’applicazione della legge più favorevole al reo (nella specie, quella che ha eliminato il vincolo della solidarietà passiva sopra indicato, limitando l’obbligazione in discorso alle spese relative ai reati per la cui commissione ciascun imputato sia stato condannato) l’ipotesi in cui prima della sua entrata in vigore sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna (SU, 491/2012).

La domanda con la quale il condannato contesti la correttezza della quantificazione delle spese processuali quale operata dall’ufficio addetto a tale compito, sotto il profilo sia del calcolo del concreto ammontare delle voci di spesa sia della loro pertinenza ai reati cui si riferisce la condanna, quali desumibili dalla statuizione predetta, deve essere proposta al giudice civile nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 Cod. proc. civ. (SU, 491/2012).

La cognizione del giudice della esecuzione penale resta limitata alle questioni relative all’esistenza del titolo esecutivo, mentre ogni altra questione concernente la procedura esecutiva va dedotta dinanzi al giudice civile, con le forme dell’opposizione agli atti esecutivi, ove venga posta in discussione la regolarità formale del titolo esecutivo o del precetto (e perciò anche la omessa notifica al condannato dell’estratto del titolo esecutivo), ovvero con le forme dell’opposizione all’esecuzione, ove si contestino le causali di spesa o il loro ammontare (Sez. 1, 27767/2017).

Il giudice penale erroneamente investito nelle forme dell’incidente di esecuzione della domanda del condannato di accertamento dell’inesistenza dell’obbligazione di pagamento di determinate partite delle spese processuali deve dichiarare (non il proprio difetto di giurisdizione ma solo il) non luogo a provvedere sull’istanza, senza che tale declaratoria possa costituire in sé preclusione alla risottoposizione della stessa, nel rispetto dei presupposti procedurali necessari, al giudice civile competente in materia di opposizioni all’esecuzione forzata (SU, 491/2012).

Le spese di mantenimento in carcere, a prescindere dal fatto che la pena detentiva applicata sia o meno superiore ad anni due, debbono comunque essere poste a carico dell’imputato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 535, comma 3, e 692, comma 1, trattandosi di costi sostenuti dall’amministrazione penitenziaria.

Si è anche rilevato che la condanna al pagamento delle spese di mantenimento in carcere è compatibile con l’applicazione della pena su richiesta dell’imputato, in quanto la sentenza di patteggiamento è equiparata ad una sentenza di condanna, sicché ogni deroga al regime di tali sentenze deve risultare da una espressa disposizione; stante la diversa natura delle spese di mantenimento in carcere rispetto a quelle processuali, la disposizione dell’art. 445, comma 1, che è di carattere eccezionale, non consente, invero, interpretazioni estensive (Sez. 3, 50461/2015).

È pacifico che la statuizione sulle spese processuali non è essenziale alla decisione, come conferma l’art. 535 ultimo comma, laddove espressamente prevede la correzione, ex art. 130, in caso di omissione di una statuizione espressa in proposito (Sez. 4, 42041/2017).

L’art. 535 comma 4 prevede espressamente la rettificazione della sentenza ex art. 130 solo per l’ipotesi in cui essa abbia omesso di statuire in ordine alle spese processuali che il condannato è tenuto a versare allo Stato.

Ben diversa è l’ipotesi relativa alla omessa statuizione da parte del giudice in ordine alle spese processuali, pure espressamente chieste dalla parte civile a carico del soggetto condannato, atteso che, in tal caso, non sussiste alcun automatismo ed inderogabilità in ordine all’ammontare di tali spese, potendo il giudice far luogo ad una compensazione totale o parziale per soccombenza reciproca, accoglimento solo parziale della domanda, anche per novità o complessità delle questioni da essa implicate, ovvero potendole determinare diversamente con riferimento agli onorari, determinati com’è noto dalle tariffe professionali entro un minimo ed un massimo.

L’errore non è tale da pregiudicare alcun diritto della persona offesa, potendo essere fatto valere il diritto in sede civile. La mancata pronunzia, infatti, non preclude alla parte il suo diritto di esercitare nella sede propria l’azione di risarcimento, che comprende anche il rimborso delle spese sostenute nel processo penale, poiché dette spese rientrano nell’ambito del danno subito (Sez. 5, 32017/2017).

Recita l’art. 204 del DPR 115/2002, relativo al recupero delle spese, ai primi due commi: 1. Le spese ripetibili sono recuperate in caso di condanna alle spese, secondo il codice di procedura penale e l’articolo 69, del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, nonché, nei casi di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, secondo le disposizioni della parte III del presente testo unico. 2. Nel processo di prevenzione, di esecuzione e di sorveglianza si procede al recupero solo in caso di condanna alle spese da parte della Corte di cassazione.

Quindi, la disposizione normativa di cui al secondo comma del suddetto articolo delimita in modo espresso la condanna alle spese nell’ambito del processo di prevenzione, di esecuzione e di sorveglianza alla sola sede di legittimità.

E ciò in piena sintonia col disposto dell’art. 666, comma 6, che nell’ultima parte prevede che, a seguito di ricorso per cassazione (ricollegandosi alla parte immediatamente precedente), “si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni sulle impugnazioni e quelle sul procedimento in camera di consiglio davanti alla Corte di cassazione”, col disposto dell’art. 592, comma 1, che prevede che “con il provvedimento che rigetta o dichiara inammissibile l’impugnazione, la parte privata che l’ha proposta è condannata alle spese del procedimento”, nonché con quello della prima parte del comma 1 dell’art. 616, che sancisce che “con il provvedimento che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso, la parte privata che lo ha proposto è condannata al pagamento delle spese del procedimento” (Sez. 1, 35722/2017).