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Art. 546 - Requisiti della sentenza

1. La sentenza contiene:

a) l’intestazione «in nome del popolo italiano» e l’indicazione dell’autorità che l’ha pronunciata;

b) le generalità dell’imputato o le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo nonché le generalità delle altre parti private;

c) l’imputazione;

d) l’indicazione delle conclusioni delle parti;

e) la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie, con riguardo:
1) all’accertamento dei fatti e delle circostanze che si riferiscono all’imputazione e alla loro qualificazione giuridica;
2) alla punibilità e alla determinazione della pena, secondo le modalità stabilite dal comma 2 dell’articolo 533, e della misura di sicurezza;
3) alla responsabilità civile derivante dal reato;
4) all’accertamento dei fatti dai quali dipende l’applicazione di norme processuali;

f) il dispositivo, con l’indicazione degli articoli di legge applicati;

g) la data e la sottoscrizione del giudice.

2. La sentenza emessa dal giudice collegiale è sottoscritta dal presidente e dal giudice estensore. Se, per morte o altro impedimento, il presidente non può sottoscrivere, alla sottoscrizione provvede, previa menzione dell’impedimento, il componente più anziano del collegio; se non può sottoscrivere l’estensore, alla sottoscrizione, previa menzione dell’impedimento, provvede il solo presidente.

3. Oltre che nel caso previsto dall’articolo 125 comma 3, la sentenza è nulla se manca o è incompleto nei suoi elementi essenziali il dispositivo ovvero se manca la sottoscrizione del giudice.

Rassegna giurisprudenziale

Requisiti della sentenza (art. 546)

Intestazione della sentenza e indicazione dell’autorità che l’ha emessa

Non è affetta da nullità la sentenza che nella parte relativa all’indicazione dell’autorità riporti Tribunale di … anziché GUP presso il Tribunale di … (Sez. 2, 31576/2017).

La mera mancanza nella sola intestazione della sentenza impugnata dell’indicazione dell’AG che l’ha pronunciata (carenza formale peraltro corretta con la procedura ex art. 130) non è causa di nullità della stessa alla luce - comunque - degli altri elementi contenuti nel testo della sentenza che consentono di individuare con assoluta certezza la Corte che ha pronunciato il provvedimento impugnato (Sez. 2, 28802/2015).

La mancata indicazione, nell’epigrafe del documento, della esatta composizione del giudice non è vizio che integra una ipotesi di nullità, in quanto tra i requisiti formali del provvedimento, è richiesta semplicemente l’indicazione nell’intestazione, dell’Autorità che l’ha pronunciato e non necessariamente il nome dei componenti dell’organo giudicante (Sez. 5, 34680/2015).

 

Generalità dell’imputato e delle altre parti private

L’erronea indicazione del numero identificativo del procedimento, così della data o del luogo di nascita dell’imputato nel dispositivo letto in udienza, non comporta alcuna nullità quando è comunque possibile l’esatta identificazione del soggetto al quale la pronuncia medesima si riferisce e non ingeneri un errore di persona (Sez. 3, 39229/2018).

L’errore o l’incertezza sulla data di nascita riportata nell’intestazione della sentenza non comportano nullità, se è comunque possibile l’esatta identificazione del soggetto al quale la sentenza si riferisce. Trattasi, in realtà, di errore materiale emendabile con il procedimento ex art. 130 (Sez. 6, 50741/2017).

Qualora della persona condannata con sentenza irrevocabile si lamenti l’erronea indicazione delle generalità, è configurabile un incidente di esecuzione riconducibile alla previsione dell’art. 668 e concernente, appunto, l’errore di nome e di data di nascita del condannato, al quale deve ovviare il giudice dell’esecuzione nelle forme previste dall’art. 130, purché ricorra la condizione che la persona contro cui si doveva procedere sia stata citata come imputato, ancorché sotto altro nome, per il giudizio.

Ai sensi, infatti, dell’art. 130, alla correzione dei provvedimenti giudiziali inficiati da errori od omissioni la cui eliminazione non comporta una modifica essenziale dell’atto, provvede il giudice che ha adottato il provvedimento (salva l’ipotesi di intervenuta impugnativa) mentre, ai sensi dell’art. 668, in ipotesi di persona condannata per errore di nome, il giudice provvede alla correzione nelle forme previste dall’art. 130, purché la persona contro cui si doveva procedere sia stata citata come imputata.

Sul punto, soccorre il testo dell’art. 546, che, fra i requisiti della sentenza, comprende, alla lettera b), dopo “le generalità dell’imputato” e in alternativa con esse (vedi la disgiuntiva “o”), “le altre indicazioni personali che valgono a identificarlo” (Sez. 1, 22134/2016).

 

Imputazione

Non è affetta da alcuna invalidità la sentenza la cui epigrafe non riporta i capi di imputazione, ben potendo l’enunciazione dei fatti e delle circostanze che formano oggetto della contestazione essere contenuta nel corpo del provvedimento, in quanto l’art. 546, comma 3, sanziona a pena di nullità la sola mancanza o incompletezza del dispositivo (Sez. 3, 9875/2018).

La mancata annotazione formale nella sentenza di secondo grado del capo di imputazione non costituisce causa di nullità della sentenza, stante la tassatività della previsione di cui all’art. 546, comma 3 (Sez. 7, 37650/2017).

Stante anche la previsione tassativa dei casi di nullità della sentenza, di cui all’art. 546, comma 3, non sussiste nullità della sentenza qualora essa riporti la indicazione della imputazione non già nella epigrafe ma nel suo stesso contesto, in modo tale da lasciare intendere in ordine a quale complessiva contestazione sia stata adottata la decisione.

Dunque la mancata o incompleta indicazione in sentenza - nel caso di specie di appello - del capo di imputazione non ne determina la nullità, in quanto l’enunciazione dei fatti e delle circostanze ascritti all’imputato può essere desunta dal contenuto complessivo della decisione (Sez. 3, 31846/2014).

 

Motivazione

L'obbligo motivazionale di cui all’art. 546 può dirsi correttamente assolto soltanto se le prove sulle quali si è basata una sentenza di condanna (o di assoluzione, ferma la differenza derivante dalla diversa incidenza del canone valutativo dell'oltre ogni ragionevole dubbio dettato dall'art. 533) siano state non soltanto indicate ma anche e soprattutto valutate nei loro risultati in termini di convincimento del giudice, il quale è tenuto a dichiarare e rendere leggibili, altresì, i criteri di valutazione adottati: tutto al fine di rendere comprensibile, ai soggetti coinvolti ed a quelli ai quali spetta il controllo sulla correttezza della decisione assunta, la base fattuale del ragionamento del giudice. In tal senso, l'onere di valutazione dei mezzi istruttori e di esposizione dei passaggi logici che fondano il convincimento del giudice non può essere un "adempimento formale", soddisfatto, ad esempio, dalla mera trascrizione delle dichiarazioni testimoniali, non accompagnata da una riconsiderazione critica di esse (Sez. 5, 28667/2022).

È da considerare illegittima la motivazione del giudice di appello che si fondi sulla pedissequa riproduzione - realizzata mediante l'applicazione informatica del "copia-incolla" - di intere pagine dell'ordinanza custodiale e che trascuri pressoché interamente le motivazioni della sentenza di primo grado, risolvendosi in abnorme "contemplatio" dell'attività di indagine preliminare e tradendo la sua precipua fisionomia di "revisio prioris istantiae", pur se nel circoscritto ambito del "devolutum"; d'altro canto, detto inusuale sistema motivazionale non è nemmeno riconducibile al paradigma della motivazione "per relationem", considerato che in nessun caso la motivazione del provvedimento genetico della custodia cautelare può ritenersi congrua rispetto alle esigenze di giustificazione di una sentenza di appello. (Sentenza che si sofferma sui limiti di ammissibilità della cd. motivazione per relationem e, in altro passo del provvedimento, testualmente rimarca che “la finta motivazione si risolve nella abdicazione del giudice al suo dovere principale, é la negazione della sua funzione di garanzia, connaturale alla sua indispensabile terzietà, è una porta chiusa frapposta a ogni tipo di controllo, che non consente di ripercorrere la via che collega la regola astratta al fatto esaminato”) (Sez. 3, 19633/2022).

Non è violato il diritto all’equo processo sotto il profilo della adeguatezza della motivazione dei provvedimenti nel caso in cui il giudice di ultimo grado decida di non procedere a un rinvio pregiudiziale d’interpretazione alla CGUE, richiamando nell’ordinanza unicamente le norme rilevanti, senza una motivazione dettagliata, qualora non si pongano importanti questioni giuridiche (Corte EDU, Sez. 3, Ilkay Baydar c. Olanda, decisione del 24 aprile 2018).

L’articolo 6 § 1 CEDU obbliga le giurisdizioni interne a motivare le decisioni con le quali rigettano l’istanza di rinvio pregiudiziale alla CGUE, specialmente quando la legge consente tale rifiuto solo in via d’eccezione (Corte EDU, Ullens de Schooten e Rezabek c. Belgio, decisione del 20 settembre 2011).

L’obbligo di rinvio pregiudiziale alla CGUE non è assoluto, in quanto le giurisdizioni nazionali non sono tenute a rinviare quando constatano che la questione non è rilevante o che la disposizione comunitaria pertinente è già stata oggetto di interpretazione da parte della CGUE o, infine, quando l’applicazione corretta del diritto comunitario è così evidente da non lasciare spazio ad alcun ragionevole dubbio (CGUE, sentenza S.r.l. CILFIT e Lanificio di Gavardo S.p.a. c. Ministero della Salute (C-283/81); CGUE, sentenza György Katz c. István Roland Sós (C-404/07); CGUE, sentenza VB Pénzügyi Lízing Zrt. c. Ference Schneider (C-137/08); CGUE, sentenza Lucio Cesare Aquino c. Belgische Staat (C-3/16)).

Non sono consentiti in sede di legittimità i motivi di ricorso che sollecitino a una rilettura autonoma delle emergenze processuali. Spetta esclusivamente alla Corte di Cassazione la verifica della completezza dell’iter argomentativo del giudice di merito e dell’eventuale esistenza di vizi logici della motivazione percepibili ictu oculi. Non le spetta invece la valutazione della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (Sez. F, 39698/2018).

I limiti all’ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall’art. 606, comma primo, lett. e), non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui all’art. 606, comma 1, lett. c), nella parte in cui consente di dolersi dell’inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità.

La valutazione richiesta dall’art. 192 spetta pertanto al giudice di merito mentre la Corte di Cassazione, cui sia stata denunciata la violazione della citata disposizione di legge, deve limitare il suo giudizio all’accertamento della sussistenza dei vizi di legittimità indicati dall’art. 606, comma primo, lett. e) (Sez. F, 37761/2018).

La valutazione del peso probatorio degli indizi è compito riservato al giudice di merito e, in sede di legittimità, tale valutazione può essere contestata unicamente sotto il profilo della sussistenza, adeguatezza, completezza e logicità della motivazione, mentre sono inammissibili le censure che, pure investendo formalmente la motivazione, si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze già esaminate dal giudice, spettando alla corte di legittimità il solo compito di verificare se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni che l’hanno indotto ad affermare la gravità del quadro indiziario a carico dell’indagato, controllando la congruenza della motivazione riguardante la valutazione degli elementi indizianti rispetto ai canoni della logica e ai principi del diritto che governano l’apprezzamento delle risultanze probatorie (Sez. 2, 39978/2018).

Sono inibite al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, 40262/2018).

Non possono trovare spazio nel giudizio di legittimità i rilievi relativi alla valutazione probatoria concernente la ricostruzione dei fatti, l’attendibilità delle testimonianze e la ricorrenza della scriminante della legittima difesa, in quanto sollecitano una rivalutazione di merito preclusa in sede di legittimità; infatti, pur essendo formalmente riferiti a vizi riconducibili alla categoria del vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, lett. e) sono in realtà diretti a richiedere un inammissibile sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dal giudice che ha emesso la sentenza impugnata (SU, 24/2000).

È solo apparente il contrasto tra motivazione e dispositivo che dipenda da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo, con la conseguenza che, in tal caso, è legittimo il ricorso alla motivazione per chiarirne l’effettiva portata, individuarne l’errore ed eliminarne gli effetti (Sez. 5, 7427/2014).

In riferimento ai criteri di risoluzione di incongruenze tra dispositivo e motivazione, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale l’uno e l’altra, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l’applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice; invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest’ultima per determinare l’effettiva portata del dispositivo, individuare l’ errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacché essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione (Sez. F, 47576/2014).

La regola della “concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata”, enunciata dall’art. 546, comma 1, lett. e) rende non configurabile il vizio di legittimità allorquando nella motivazione il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese perché del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate (Sez. 5, 40099/2018).

Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, 44418/2103).

Non determinano l’annullamento della decisione minime incongruenze argomentative o l’omessa esposizione di elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero potuto dar luogo ad una diversa decisione, sempreché tali elementi non siano muniti di un chiaro e inequivocabile carattere di decisività e non risultino, di per sé, obiettivamente e intrinsecamente idonei a determinare una diversa decisione (Sez. 3, 35964/2015).

In tema di motivazione della sentenza, l’art. 546, comma primo, lettera e) non impone al giudice di merito di fare espresso riferimento ad orientamenti giurisprudenziali, essendo sufficiente la corretta interpretazione e applicazione delle disposizioni rilevanti per la decisione (Sez. 3, 45606/2013).

In riferimento ai rapporti tra determinazione della pena nell’ambito della cornice edittale ed obbligo di motivazione, si registra una sorta di rapporto di diretta proporzionalità tra discostamento dal minimo e dovere di giustificazione, nel senso che quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 Cod. pen. quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio, non essendo a tal fine sufficiente il ricorso ad espressioni del tipo “pena congrua”, “pena equa”, come pure il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere (Sez. 5, 50505/2018).

 

Dispositivo

È solo apparente il contrasto tra motivazione e dispositivo che dipenda da un errore materiale, obiettivamente riconoscibile, contenuto nel dispositivo, con la conseguenza che, in tal caso, è legittimo il ricorso alla motivazione per chiarirne l’effettiva portata, individuarne l’errore ed eliminarne gli effetti (Sez. 5, 7427/2014).

In caso di contrasto tra dispositivo e motivazione della sentenza, la regola della prevalenza del dispositivo, in quanto immediata espressione della volontà decisoria del giudice, non è assoluta, ma va contemperata, tenendo conto del caso specifico, con la valutazione degli elementi tratti dalla motivazione, che conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni della decisione e che, pertanto, ben può contenere elementi certi e logici che facciano ritenere errato il dispositivo o parte di esso (Sez. 5, 28669/2022).

In riferimento ai criteri di risoluzione di incongruenze tra dispositivo e motivazione, il carattere unitario della sentenza, in conformità al quale l’uno e l’altra, quali sue parti, si integrano naturalmente a vicenda, non sempre determina l’applicazione del principio generale della prevalenza del primo in funzione della sua natura di immediata espressione della volontà decisoria del giudice; invero, laddove nel dispositivo ricorra un errore materiale obiettivamente riconoscibile, il contrasto con la motivazione è meramente apparente, con la conseguenza che è consentito fare riferimento a quest’ultima per determinare l’effettiva portata del dispositivo, individuare l’ errore che lo affligge ed eliminarne gli effetti, giacché essa, permettendo di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente la volontà del giudice, conserva la sua funzione di spiegazione e chiarimento delle ragioni fondanti la decisione (Sez. F, 47576/2014).

L’erronea indicazione del numero identificativo del procedimento, così della data o del luogo di nascita dell’imputato nel dispositivo letto in udienza non comporta alcuna nullità quando è comunque possibile l’esatta identificazione del soggetto al quale la pronuncia medesima si riferisce e non ingeneri un errore di persona (Sez. 3, 39229/2018).

Vizia radicalmente la sentenza, né è emendabile mediante la procedura di correzione dell’errore materiale, l’omissione, nel dispositivo letto in udienza e riprodotto in calce alla motivazione, del nominativo di uno degli imputati, a nulla rilevando che nella stessa motivazione sia esaminata la relativa posizione e sia argomentata, trattandosi di decisione d’appello, la conferma della condanna nei suoi confronti, essendo stato chiarito che secondo la sequenza del rito dibattimentale, il dispositivo costituisce il mezzo con il quale è immediatamente estrinsecata la volontà del giudice mentre la motivazione adempie una finalità permanente strumentale ed è improduttiva di conseguenze giuridiche se non trova la sua conclusione nel dispositivo (Sez. 6, 27985/2018).

L’art. 546 ultimo comma commina la nullità della sentenza ove manchi o sia incompleto il dispositivo; tuttavia nei casi di assoluta mancanza del dispositivo, la sentenza deve considerarsi inesistente, anche perché insuscettibile di passare in giudicato, sicché la lacuna decisoria può essere rilevata in assenza di impugnazione delle parti (Sez, 6, 27985/2018).

La sentenza che manchi del dispositivo per omessa statuizione decisoria su un capo di imputazione per il quale è stato disposto il rinvio a giudizio dell’imputato è inesistente; detto vizio, rilevabile d’ufficio, è insuscettibile di essere sanato dal giudicato (Sez. 6, 39435/2017).

La mancata menzione nel dispositivo degli articoli di legge applicati non è causa di nullità della sentenza, essendo prevista la sanzione della nullità (art. 546 comma 3) solo quando il dispositivo manchi del tutto, ovvero manchino gli elementi essenziali per individuarne il contenuto (Sez. 2, 21014/2018).

La difformità tra dispositivo letto in udienza e dispositivo in calce alla motivazione non è causa di nullità della sentenza, che ricorre nei soli casi in cui difetti totalmente il dispositivo, ma, prevalendo il dispositivo di udienza, detta difformità è sanabile mediante il procedimento di correzione dell’errore materiale (Sez. 6, 24942/2018).

L’omessa o incompleta trascrizione nell’originale della sentenza del dispositivo letto in pubblica udienza non integra la nullità di cui all’art. 546, comma 3, trattandosi di una mera assenza grafica sanabile con la procedura di correzione degli errori materiali di cui all’art. 130 (Sez. 3, 125/2009).

È modificabile per integrazione, mediante il procedimento di correzione dell’errore materiale, il decreto dispositivo di misura di prevenzione personale ovvero patrimoniale soltanto con elementi che necessariamente ne dovevano far parte, con esclusione di qualsiasi modifica che introduca elementi estranei alle ragioni della decisione e che comporti l’esercizio di un potere discrezionale.

Occorre ricordare a tal proposito che l’art. 8, comma 4, del D. Lgs. 159/2011 dispone che il decreto dispositivo di misura di prevenzione personale rechi «in ogni caso» le specifiche prescrizioni dalla stessa norma di legge indicate e che tali doverose prescrizioni sono, da un lato, affatto estranee alle ragioni della decisione di applicazione della misura di sicurezza e, dall’altro, sono dalla legge predeterminate nei relativi contenuti, con la conseguenza che il giudice non dispone di alcuna discrezionalità al riguardo (Sez. 1, 14794/2018).

La sentenza di appello mancante della sottoscrizione del presidente del collegio non giustificata espressamente da un suo impedimento legittimo e firmata dal solo giudice estensore configura una nullità relativa che comporta l’annullamento senza rinvio e la restituzione degli atti affinché si provveda alla sanatoria mediante nuova redazione della sentenza-documento (SU, 14978/2013).

 

Sottoscrizione

La sentenza emessa dal giudice monocratico è nulla se priva della sua sottoscrizione anche quando sia presente in atti il dispositivo letto in udienza dallo stesso (Sez. 6, 23738/2010).

La mancata sottoscrizione della sentenza d’appello da parte del presidente del collegio non giustificata espressamente da un suo impedimento legittimo e sottoscritta dal solo estensore configura una nullità relativa che non incide né sul giudizio né sulla decisione consacrata nel dispositivo, e che, ove dedotta dalla parte nel ricorso per cassazione, comporta l’annullamento della sentenza-documento e la restituzione degli atti al giudice di appello, nella fase successiva alla deliberazione, affinché si provveda ad una nuova redazione della sentenza-documento che, sottoscritta dal presidente e dall’estensore, deve essere nuovamente depositata, con l’effetto che i termini di impugnazione decorreranno, ai sensi dell’art. 585, dalla notificazione e comunicazione dell’avviso di deposito della stessa sentenza (SU, 14978/2013).

La nullità della sentenza, derivante, ai sensi dell’art. 546, comma 3, dalla mancata sottoscrizione del giudice, ha carattere relativo, che non travolge né si estende agli atti pregressi né intacca la validità della decisione, riguardando unicamente la regolarità della sentenza-documento ed è sanabile mediante la mera rinnovazione dell’atto viziato.

Non va, pertanto, disposto un nuovo giudizio, in quanto il procedimento si è svolto correttamente sino all’emissione del dispositivo letto in udienza, ma unicamente rinnovato l’atto nullo ad opera dei giudici che parteciparono alla decisione, i quali provvederanno alla redazione della sentenza-documento, sottoscrivendola regolarmente e con nuovo deposito in cancelleria (Sez. 6, 54461/2017).

È validamente sottoscritta dal presidente del collegio relatore ed estensore la sentenza penale depositata dopo il suo collocamento a riposo, in quanto l’accertamento delle condizioni di capacità del giudice deve essere compiuto con riferimento alla emissione della decisione, non incidendo sulla sostanza dell’atto ormai emanato il venir meno della suddetta capacità al momento della redazione della motivazione (Sez. 5, 17795/2017).

Non costituisce causa di nullità della sentenza la illeggibile sottoscrizione del presidente e del relatore nel dispositivo e nella motivazione, considerato che il requisito della sottoscrizione della sentenza, ex art. 546, non implica che la firma debba essere apposta in maniera tale da consentire l’individuazione del giudice o dei giudici da cui la decisione promana, non essendo ciò richiesto da alcuna norma giuridica; né costituisce causa di nullità della sentenza la mancata o errata indicazione dell’estensore o del relatore (Sez. 5, 36712/2012).

Qualora il presidente di un collegio giudicante abbia provveduto personalmente a redigere la motivazione della sentenza, è sufficiente la sola firma dello stesso per ritenere rispettato il disposto dell’art. 546 (Sez. 7, 51772/2016).

In virtù dell’art. 559 comma 4, il potere sostitutivo attribuito al presidente del tribunale, in caso di impedimento del giudice monocratico, non è circoscritto alla sola sottoscrizione della sentenza, ma si estende anche alla stesura dei motivi della decisione (fattispecie in cui il presidente del tribunale, in conseguenza del decesso del giudice monocratico che ha emesso una sentenza, ha designato altro giudice per la stesura della motivazione (SU, 3287/2009 e, più di recente, Sez. 2, 50992/2016).

L’apposizione della firma del presidente del collegio ha una funzione di garanzia dal momento che attesta l’avvenuto controllo della conformità della motivazione a quanto deliberato in camera di consiglio. La mancanza della firma del presidente, non giustificata espressamente dal suo impedimento legittimo, determina la nullità della sentenza ai sensi dell’art. 546 comma 3 (Sez. 4, 22719/2016).

L’impedimento del presidente del collegio, diverso dalla morte, di cui fa menzione l’art. 546 comma 2, deve essere effettivo, serio, grave e duraturo, tale da legittimare la sottoscrizione da parte del giudice più anziano (SU, 600/2010).

L’impedimento alla sottoscrizione può essere costituito dal trasferimento ad altra sede o dal congedo ordinario e, in ogni caso, non può essere oggetto di valutazione di legittimità, trattandosi di valutazione di merito (Sez. 2, 41728/2015).

Va distinto il dispositivo - redatto e sottoscritto dal presidente non appena conclusa la deliberazione, nel quale è indicata la volontà dello Stato in relazione alla pretesa punitiva - dalla motivazione, in cui vi è l’esposizione dei motivi di fatto e di diritto sui quali la sentenza stessa è fondata.

L’accertamento delle condizioni di capacità del giudice deve essere compiuto con riferimento al momento della emissione della sentenza-decisione, mentre il venir meno delle stesse nel momento della redazione della motivazione non incide sulla sostanza dell’atto ormai emanato: d’altra parte, l’art. 546, comma 2, esclude qualsiasi rilevanza di carattere sostanziale al venir meno della stessa persona fisica del giudice (“per morte o per altro impedimento”) dopo la deliberazione della sentenza, limitandosi soltanto ad impartire disposizioni dirette a disciplinare in quale modo sostituire la sottoscrizione, ove non più possibile.

Pertanto, pur essendo la motivazione elemento essenziale di validità dell’atto, non è prescritto che, per la redazione della stessa, il giudice debba continuare a possedere quei requisiti di capacità prescritti per la deliberazione, attenendo, come detto, le condizioni per le quali una sentenza si debba ritenere validamente emessa al momento della decisione, , con la conseguenza che è, dunque, irrilevante che, dopo la lettura del dispositivo e prima del deposito della motivazione, il giudice abbia cessato di far parte dell’ordine giudiziario, essendo implicito, comunque, che egli debba esaurire il lavoro processuale introitato prima della cessazione dall’incarico (Sez. 5, 521/2017).

 

Nullità (si rinvia alla giurisprudenza esposta nelle precedenti partizioni dell’art. 546)

 

Casistica

L’estratto della sentenza contumaciale che, unitamente all’avviso di deposito, dev’essere in ogni caso notificato all’imputato e comunicato al procuratore generale presso la corte di appello, non consiste nella copia integrale della sentenza e non deve quindi contenere tutti gli elementi formali di cui all’art. 546, ma soltanto quelli essenziali al fine di dare notizia all’imputato che una sentenza è stata pronunciata nei suoi confronti, in sua contumacia, sì da porlo nelle condizioni di esercitare il diritto di impugnazione nel termine prescritto (Sez. 5, 14581/2014).