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Art. 300 - Estinzione delle misure per effetto della pronuncia di determinate sentenze

1. Le misure disposte in relazione a un determinato fatto perdono immediatamente efficacia quando, per tale fatto e nei confronti della medesima persona, è disposta l’archiviazione ovvero è pronunciata sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento.

2. Se l’imputato si trova in stato di custodia cautelare e con la sentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere è applicata la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario, il giudice provvede a norma dell’art. 312.

3. Quando, in qualsiasi grado del processo, è pronunciata sentenza di condanna, le misure perdono efficacia se la pena irrogata è dichiarata estinta ovvero condizionatamente sospesa.

4. La custodia cautelare perde altresì efficacia quando è pronunciata sentenza di condanna, ancorché sottoposta a impugnazione, se la durata della custodia già subita non è inferiore all’entità della pena irrogata.

5. Qualora l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia successivamente condannato per lo stesso fatto, possono essere disposte nei suoi confronti misure coercitive quando ricorrono le esigenze cautelari previste dall’articolo 274 comma 1 lettere b) o c).

Rassegna giurisprudenziale

Estinzione delle misure per effetto della pronuncia di sentenze (art. 300)

In relazione all’art. 300, comma 4, secondo cui la custodia cautelare perde efficacia quando, essendo stata pronunciata sentenza di condanna, la sua durata risulti non inferiore all’entità della pena inflitta, non può tenersi conto, nel computo di detta durata, del periodo in cui il soggetto sia stato detenuto anche in forza di un sopravvenuto titolo di espiazione di una pena a lui inflitta per altri fatti, atteso che il regime della compatibilità fra custodia cautelare ed espiazione opera soltanto nei limiti di cui all’art. 297, comma 5, e cioè ai fini del computo dei termini di durata massima della custodia cautelare (Sez. 6, 17750/2017).

Non si può tenere conto, ai fini dell’art. 300, comma 4, della pena irrogata per il reato più grave di cui all’art. 81, comma 2, Cod. pen., per il quale non vi sia, attualmente, un provvedimento dell’autorità che legittimi la privazione della libertà personale.

Conseguentemente, un’interpretazione dell’art. 300, comma 4 che sia rispettosa del principio costituzionale enunciato dall’art.13, comma 2, Cost., impone di comparare la pena in concreto irrogata con esclusivo riferimento al reato o ai reati in relazione ai quali sia stato adottato il provvedimento cautelare, al fine di evitare che il riconoscimento del vincolo della continuazione con altri reati, non assistiti da analogo titolo custodiale, incrementi la pena irrogata con conseguenze sfavorevoli per l’imputato; ma da tale principio non sembra si possa incondizionatamente desumere che, qualora il riconoscimento del vincolo della continuazione abbia determinato una riduzione della pena già espiata per un reato satellite, si possa equiparare la pena eccedente già espiata alla “pena irrogata”.

Con quest’ultimo termine, infatti, deve intendersi che il legislatore abbia fatto riferimento alla pena in concreto determinata con riguardo al medesimo reato che giustifica il titolo custodiale, posto che “la sentenza può anche essere titolo per la custodia cautelare, ma non lo è ex se, in quanto sentenza, perché, come tale, è, una volta divenuta irrevocabile, l’indefettibile presupposto  titolo  per la espiazione della pena” (SU, 1/1997).