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Art. 307 - Provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini

1. Nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini il giudice dispone le altre misure cautelari di cui ricorrano i presupposti, solo se sussistano le ragioni che avevano determinato la custodia cautelare.

1-bis. Qualora si proceda per taluno dei reati indicati nell’articolo 407, comma 2, lettera a), il giudice dispone le misure cautelari indicate dagli articoli 281, 282 e 283 anche cumulativamente.

2. La custodia cautelare, ove risulti necessaria a norma dell’articolo 275, è tuttavia ripristinata:

a) se l’imputato ha dolosamente trasgredito alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare disposta a norma del comma 1, sempre che, in relazione alla natura di tale trasgressione, ricorra taluna delle esigenze cautelari previste dall’articolo 274;

b) contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna di primo o di secondo grado, quando ricorre l’esigenza cautelare prevista dall’articolo 274 comma 1 lettera b).

3. Con il ripristino della custodia, i termini relativi alla fase in cui il procedimento si trova decorrono nuovamente ma, ai fini del computo del termine previsto dall’articolo 303 comma 4, si tiene conto anche della custodia anteriormente subita.

4. Gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria possono procedere al fermo dell’imputato che, trasgredendo alle prescrizioni inerenti a una misura cautelare disposta a norma del comma 1 o nell’ipotesi prevista dal comma 2, lettera b), stia per darsi alla fuga. Del fermo è data notizia senza ritardo, e comunque entro le ventiquattro ore, al procuratore della Repubblica presso il tribunale del luogo ove il fermo è stato eseguito. Si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni sul fermo di indiziato di delitto. Con il provvedimento di convalida, il giudice per le indagini preliminari, se il pubblico ministero ne fa richiesta, dispone con ordinanza, quando ne ricorrono le condizioni, la misura della custodia cautelare e trasmette gli atti al giudice competente.

5. La misura disposta a norma del comma 4 cessa di avere effetto se, entro venti giorni dalla ordinanza, il giudice competente non provvede a norma del comma 2 lettera a).

Rassegna giurisprudenziale

Provvedimenti in caso di scarcerazione per decorrenza dei termini (art. 307)

Ai sensi dell’art. 307, co. 2, lett. b), in caso di ripristino della custodia cautelare che abbia perduto efficacia per decorrenza dei termini, a seguito di condanna in primo o secondo grado, è doveroso soltanto verificare la ricorrenza di un pericolo di fuga dell’imputato giudicato colpevole. Detto pericolo non può essere ritenuto sulla base della presunzione, ove configurabile, di sussistenza delle esigenze cautelari stabilita dall’art. 275, co. 3, né per la sola gravità della pena inflitta con la sentenza, che è soltanto uno degli elementi sintomatici per la prognosi da formulare al riguardo, la quale va condotta non in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze attinenti al soggetto, idonei a definire non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga (Sez. 5, 34850/2020).

Il precetto recato dall’art. 274, lett. b) (oggetto di rinvio formale recettizio contenuto nel successivo art. 307, comma 2, lett. b), risultante dalla novella del 2015, è nel senso che il pericolo di fuga deve essere concreto e attuale, con la conseguenza che la relativa valutazione giudiziale, ancorché non scollegata rispetto alla misura della pena inflitta in primo grado, deve tenere conto del periodo di custodia cautelare sofferto, del tempo trascorso dai fatti, del comportamento tenuto dall’imputato durante il periodo di libertà, delle frequentazioni della persona, dei precedenti penali, dei procedimenti penali eventualmente in corso, dell’inclinazione della persona a sottrarsi all’esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà personale (Sez. 6, 20304/2017).

La revoca di misura legittimamente disposta a verificata scadenza dei termini di custodia non richiede alcun contraddittorio per il suo ripristino ex art. 307 comma 2, in presenza di valutate esigenze cautelari che la stessa condotta dell’agente ha imposto di riconsiderare alla luce di un comportamento di trasgressione (Sez. 2, 26851/2018).

La norma che consente l’adozione di misure cautelari personali contestualmente ad una sentenza di condanna – per prevenire il rischio di fuga o la commissione di gravi reati tenendo conto anche dell’esito del procedimento, delle modalità del fatto e degli elementi sopravvenuti (art. 275, comma 1 bis) – deve intendersi riferita ai soli casi di prima applicazione del trattamento cautelare, di talché il ripristino della custodia dopo una precedente scarcerazione per decorrenza dei termini in ordine allo stesso fatto è consentita nei soli casi indicati all’art. 307 comma 2 e cioè a fronte della dolosa trasgressione delle misure imposte all’atto della scarcerazione o quando ricorre o si è concretato il rischio di fuga dell’interessato (Sez. 4, 25874/2018).

La misura coercitiva ex art. 307 comma 1 (e 1-bis) può essere emessa previa domanda del PM il quale è tenuto ai sensi dell’art. 291 comma 1 – norma che regola in generale le richieste del PM – a trasmettere gli elementi su cui la richiesta si fonda, tutti gli elementi a favore dell’imputato e le eventuali deduzioni e memorie difensive già depositate. La mancanza della richiesta del PM determina la nullità assoluta e insanabile dell’ordinanza ex art. 307 comma 1 ai sensi dell’art.178 comma 1 lett. b), rilevabile in ogni stato e grado del processo ai sensi dell’art. 179 comma 1. Il riferimento normativo alla sussistenza delle ragioni che avevano determinato la custodia cautelare impone una verifica in positivo della sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura: dei gravi indizi di colpevolezza, che potrebbero essere venuti meno in tutto o in parte per effetto di atti sopravvenuti non ancora sottoposti alla valutazione del giudice e delle esigenze cautelari. Sussiste uno specifico obbligo di motivazione per l’emissione dell’ordinanza ex art. 307 comma 1 in quanto la verifica della condizione di applicabilità non può consistere nel semplice richiamo dell’accertamento originario, ma deve dar conto delle ragioni per le quali i presupposti applicativi si ritengano persistenti al momento dell’applicazione della nuova misura. Il giudice investito della richiesta è quindi tenuto al relativo accertamento e ad adeguata motivazione sul punto. La giurisprudenza successiva ha confermato tali principi ed ha aggiunto che l’inciso contenuto nel primo comma dell’art. 307, che consente l’adozione di misure sostitutive «solo se sussistono le ragioni che avevano determinato la custodia cautelare», va interpretato nel senso di ricomprendere tanto l’ipotesi di permanenza di tutte, alcune, o una sola delle esigenze originarie, quanto quella di sopravvenienza di nuove esigenze, intervenute alla stessa data della scarcerazione o anche in epoca successiva. In particolare, la sostituzione del concetto di permanenza con quello più generico di sussistenza, deve essere interpretato in senso estensivo, come riferito all’accertamento di una situazione di fatto che imponga, al pari di quella iniziale, una tutela cautelare, sia pure assicurabile, stante la scadenza del termine della custodia, solo mediante misure attenuate, e questo sia nell’ipotesi della persistenza, all’atto della scarcerazione, delle medesime esigenze originarie, sia in quella della sopravvenienza di esigenze diverse, intervenute alla stessa data di tale provvedimento ovvero in epoca anche successiva. Non è necessario che sussistano tutte le esigenze cautelari poste a fondamento del provvedimento genetico, essendo sufficiente anche la sussistenza di una sola fra quelle ex art. 274. È stato però ribadito che occorre una verifica in positivo ed in concreto della sussistenza delle condizioni di applicabilità della misura sostitutiva e non è sufficiente il mero richiamo delle originarie verifiche compiute in relazione al provvedimento cautelare genetico (Sez. 3, 6245/2018).

Ai sensi dell’art. 307, comma 2, lett. b), il pericolo di fuga, idoneo a giustificare la riemissione del titolo custodiale, può essere desunto dalla condanna dell’imputato per l’appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso, a condizione che siano accertati l’attuale esistenza del sodalizio criminale ed il concreto interesse dello stesso a garantire la sottrazione alla cattura dell’imputato, avuto riguardo anche al ruolo svolto dal predetto all’interno del sodalizio medesimo (Sez. 5, 52633/2016).

Ai fini del ripristino, determinato da sopravvenuta condanna, della custodia cautelare nei confronti di imputato scarcerato per decorrenza dei termini, la sussistenza del pericolo di fuga non può essere ritenuta né sulla base della presunzione, ove configurabile, di sussistenza delle esigenze cautelari stabilita dall’art. 275, comma 3, né per la sola gravità della pena inflitta con la sentenza, che è soltanto uno degli elementi sintomatici per la prognosi da formulare al riguardo, la quale va condotta non in astratto, e quindi in relazione a parametri di carattere generale, bensì in concreto, e perciò con riferimento ad elementi e circostanze attinenti al soggetto, idonei a definire, nel caso specifico, non la certezza, ma la probabilità che lo stesso faccia perdere le sue tracce (personalità, tendenza a delinquere e a sottrarsi ai rigori della legge, pregresso comportamento, abitudini di vita, frequentazioni, natura delle imputazioni, entità della pena presumibile o concretamente inflitta), senza che sia necessaria l’attualità di suoi specifici comportamenti indirizzati alla fuga o a anche solo a un tentativo iniziale di fuga (Sez. 2, 115/2018).

Il principio consolidato espresso dalla giurisprudenza di legittimità implica l’autonomia della valutazione espressa dal giudice di merito rispetto alla significatività, in termini di probabilità, del pericolo di fuga dell’imputato già scarcerato per decorrenza dei termini custodiali; il presupposto, costituito, come previsto dall’art. 307, comma 2, lett. b), da una decisione di condanna, non ne inficia l’indipendenza, la condanna potendo assumere rilievo indiretto unicamente in ragione della entità della pena inflitta, restando il giudizio incidentale sulle esigenze cautelari connesse al pericolo di fuga dell’imputato provvisoriamente condannato, del tutto autonomo dal giudizio di merito. Il richiamo, contenuto nell’art. 307, comma 2, lett. b), al pericolo di fuga di cui all’art. 274, comma 1, lett. b), non può prescindere dai connotati specifici che devono caratterizzare il detto pericolo secondo la citata formulazione normativa, la quale richiede che il menzionato pericolo di fuga sia concreto ed attuale, con la specificazione  a seguito dell’intervento del legislatore con la L. 47/2015  che la sola gravità del titolo di reato per cui si procede non esaurisce i parametri di concretezza ed attualità (Sez. 1, 5156/2018).

Il provvedimento col quale il giudice adotta altra misura cautelare nei confronti dell’imputato scarcerato per decorrenza dei termini, ai sensi dell’art. 307 comma 1 trova l’unica ragione giustificativa nella persistenza delle esigenze cautelari. Pertanto, esso è impugnabile non già col riesame (impugnazione che rimette in discussione l’intero quadro probatorio, esigendo la valutazione degli indizi di colpevolezza), bensì con l’appello, mirante ad una pronuncia sulla persistenza delle esigenze cautelari e sull’adeguatezza della misura prescelta. Quando la misura custodiale cessa di avere efficacia per effetto di un automatismo (per intervenuta assoluzione o per scadenza dei termini massimi di custodia cautelare), senza previa valutazione della permanenza o meno delle esigenze cautelari originariamente poste a fondamento del titolo custodiale – la successiva ordinanza cautelare, emessa a seguito del venir meno dell’impedimento oggettivo, non fa altro che riespandere l’originaria efficacia e perciò si lega indissolubilmente alla prima. Dunque, ogni qual volta vi sia una valutazione di sussistenza di esigenze cautelari ed una successiva valutazione di cessazione delle suddette esigenze, l’ordinanza genetica di applicazione della misura custodiale va ritenuta caducata, con la conseguenza che ogni successiva misura deve considerarsi “nuova” e, quindi, suscettibile di essere impugnata a mezzo di richiesta di riesame. Al contrario, allorquando è la stessa legge che prevede effetti automatici legati a determinati eventi (quali per l’appunto, si ribadisce, la scadenza dei termini massimi di custodia o l’assoluzione), senza che abbia alcuna rilevanza l’esame nel merito della persistenza delle esigenze cautelari, allora l’ordinanza genetica non viene eliminata, ma semplicemente perde efficacia, ed ogni successiva ordinanza, non potendo essere considerata propriamente genetica, può essere impugnata esclusivamente mediante appello (Sez. 4, 29090/2017).