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Art. 310 - Appello

1. Fuori dei casi previsti dall’articolo 309 comma 1, il pubblico ministero, l’imputato e il suo difensore possono proporre appello contro le ordinanze in materia di misure cautelari personali, enunciandone contestualmente i motivi.

2. Si osservano le disposizioni dell’articolo 309 commi 1, 2, 3, 4 e 7. Dell’appello è dato immediato avviso all’autorità giudiziaria procedente che, entro il giorno successivo, trasmette al tribunale l’ordinanza appellata e gli atti su cui la stessa si fonda. Il procedimento davanti al tribunale si svolge in camera di consiglio nelle forme previste dall’articolo 127. Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà per il difensore di esaminarli e di estrarne copia. Il tribunale decide entro venti giorni dalla ricezione degli atti con ordinanza depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione. L’ordinanza del tribunale deve essere depositata in cancelleria entro trenta giorni dalla decisione salvi i casi in cui la stesura della motivazione sia particolarmente complessa per il numero degli arrestati o la gravità delle imputazioni. In tali casi, il giudice può indicare nel dispositivo un termine più lungo, non eccedente comunque il quarantacinquesimo giorno da quello della decisione.

3. L’esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l’appello del pubblico ministero, dispone una misura cautelare è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva.

Rassegna giurisprudenziale

Appello (art. 310)

Inammissibilità dell’appello

Non avendo previsto la legge processuale l'accesso del PM allo strumento del riesame di cui all'art. 309 - impugnazione a carattere interamente devolutivo - egli non può limitarsi a sollecitare al giudice dell'appello una nuova valutazione degli elementi originariamente posti a corredo della richiesta cautelare affermandone il carattere gravemente indiziario, ma deve esporre, a pena di inammissibilità, le ragioni specifiche su cui si fonda la critica della decisione impugnata, a meno che, per l'apoditticità o lacunosità di quest'ultima, di fatto risulti omessa la stessa valutazione della richiesta medesima e del suo contenuto (Sez. 5, 1121/2022).

In tema di disciplina pandemica da Covid-19, non costituisce causa di inammissibilità dell'impugnazione di un provvedimento cautelare la mera irregolarità della sottoscrizione digitale, poiché l'art. 24, comma 6-sexies, DL 137/2020, convertito con modifiche dalla L. 176/2020, prevede cause tassative di inammissibilità, tra le quali la lettera a) di tale disposizione indica unicamente la mancanza della sottoscrizione digitale dell'atto di impugnazione da parte del difensore (Sez. 5, 22992/2022).

L'appello cautelare del PM è inammissibile se motivato con il mero richiamo al contenuto della originaria richiesta cautelare, fatta eccezione per l'ipotesi in cui, per motivi formali ritenuti assorbenti o per l'apoditticità della decisione dei giudice per le indagini preliminari, sia mancata qualsiasi valutazione della richiesta medesima, essendo, invece, necessario che anche tale impugnazione, in quanto assimilabile agli ordinari mezzi di impugnazione, soddisfi il requisito della specificità attraverso l'indicazione dei capi e punti ai quali si riferisce e l'enunciazione dei motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta (Sez. 6, 43426/2021).

La violazione dei provvedimenti organizzativi adottati dal dirigente dell'ufficio giudiziario in ordine alla destinazione dei singoli indirizzi di posta elettronica certificata (PEC) assegnati all'ufficio medesimo per il deposito degli atti difensivi non costituisce causa di inammissibilità dell'impugnazione cautelare, in quanto tale sanzione processuale è prevista dall'art. 24, comma 6-sexies, lett. e), DL 137/2020, convertito con modificazioni dalla L. 176/2020, esclusivamente per il caso del mancato rispetto delle indicazioni contenute nel provvedimento del Direttore Generale dei Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia, emesso ai sensi del precedente comma 4 della medesima disposizione, pubblicato il 9.11.2020 (e dunque solo in caso di utilizzo di indirizzi PEC di destinazione non ricompresi nell'Allegato 1 del citato provvedimento direttoriale) (Sez. 5, 24953/2021).

Il procedimento relativo all’applicazione di misure cautelari a carico degli enti collettivi si fonda sulla previsione di un contraddittorio “anticipato” delle parti, poiché l’art. 47, comma 2, del D. Lgs. 231/2001 dispone che “se la richiesta di applicazione della misura cautelare è presentata fuori udienza, il giudice fissa la data dell’udienza e ne fa dare avviso al pubblico ministero, all’ente e ai difensori. L’ente e i difensori sono altresì avvisati che, presso la cancelleria del giudice, possono esaminare la richiesta dal pubblico ministero e gli elementi sui quali la stessa si fonda”. L’adozione della misura, dunque, non è rimessa ad una decisione de plano, pronunciata dal giudice inaudita altera parte, ma si fonda sulla valorizzazione del contributo dialettico offerto dalle parti quale strumento più efficace per porre il giudice nella condizione di adottare una misura interdittiva, che può avere conseguenze particolarmente invasive sulla vita e sulle modalità di funzionamento della persona giuridica. Si richiede, in tal modo, un vaglio giurisdizionale penetrante sulle ragioni dell’intervento cautelare a carico dell’ente, la cui oggettiva praticabilità può richiedere un’approfondita analisi in ordine ad una serie di profili rilevanti, che investono, ad es., l’analisi dell’assetto organizzativo, la valutazione dell’adeguatezza del programma di attività riparatorie, ovvero la verifica della necessità di consentire la prosecuzione dell’attività dell’ente e disporre, in caso di accoglimento della richiesta, il commissariamento ai sensi dell’art. 45, comma 3, del citato decreto legislativo. Entro tale disegno normativo trova la sua razionale collocazione l’istanza – che la società può avanzare, per l’ipotesi in cui l’interdizione sia disposta, ai sensi dell’art. 49 – di sospensione della misura cautelare per porre in essere le attività riparatorie cui viene condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17. Se il giudice, infatti, ritiene di accogliere la richiesta dell’ente, determina una somma di denaro a titolo di cauzione e dispone la sospensione della misura, indicando il termine per la realizzazione delle condotte riparatorie di cui all’art. 17. La finalità dell’istituto è quella di incentivare il ravvedimento post factum dell’ente secondo una logica premiale che mira a privilegiare la compensazione dell’offesa rispetto alla mera punizione dell’illecito: se la società adempie tempestivamente ed in modo corretto, il giudice revoca la misura cautelare e ordina la restituzione della somma depositata o la cancellazione dell’ipoteca, mentre in caso di mancata, incompleta o inefficace esecuzione delle attività nel termine fissato, la misura cautelare viene ripristinata e la somma depositata, o per la quale è stata data garanzia, viene devoluta alla cassa delle ammende (art. 49, comma 3). Se si realizzano le condizioni previste dall’art. 17 interviene la fattispecie estintiva della misura, sicché il giudice ne dispone la revoca insieme alla restituzione della cauzione ovvero la cancellazione dell’ipoteca, mentre la fideiussione prestata si estingue. Nel momento in cui il giudice prende cognizione della vicenda per valutare la condotta dell’ente alla luce dei parametri dettati dall’art. 49, può disporre la revoca della misura cautelare anche a prescindere dalla valutazione positiva di idoneità e tempestività delle attività riparatorie, ogni qual volta ritenga siano venute meno, anche alla luce di fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità della cautela. L’art. 50, comma 1 consente, infatti, un’immediata decisione liberatoria, anche d’ufficio, nelle ipotesi in cui il quadro indiziario della responsabilità sia del tutto mancante, anche per fatti sopravvenuti, ovvero quando non risulti più attuale l’originaria individuazione delle esigenze cautelari, o, ancora, al verificarsi delle condizioni stabilite dall’art. 17. L’art. 49, comma 4, ripropone, a sua volta, all’interno del procedimento incidentale finalizzato alla sospensione della misura cautelare su richiesta dell’ente, la medesima regola fissata dalla norma generale dell’art. 50, comma 1, secondo cui s’impone la revoca della misura allorché intervengano gli adempimenti di cui al citato art. 17, ossia il risarcimento del danno, la messa a disposizione del profitto, l’adozione e l’efficace attuazione dei cd. compliance programsLa revoca, pertanto, può costituire il risultato di una valutazione ex ante, nel senso che il giudice ritenga insussistenti ab origine i presupposti legittimanti il provvedimento cautelare, ovvero ex post, nel caso in cui questi ultimi, ancorché sussistenti al momento della disposizione della cautela, siano successivamente venuti meno: interpretazione, questa, esplicitamente desumibile dal disposto normativo, ove si specifica che la mancanza delle condizioni applicative possa derivare anche da fatti sopravvenuti. In tal senso, ad es., assumono rilievo una eventuale evoluzione del quadro probatorio in senso favorevole all’indagato, oppure un miglioramento dello stato organizzativo aziendale, suscettibile di escludere la permanenza del periculum. Quest’ultimo profilo risulta solo in parte assorbito dalla seconda condizione legittimante un provvedimento di revoca, ovvero dall’adempimento delle condotte di cui all’art. 17: nonostante lo stretto collegamento con l’art. 49, infatti, la revoca disciplinata nell’art. 50, comma 1, rappresenta un istituto a sé, operante anche in conseguenza dell’adempimento delle condotte riparatorie prescritte dall’art. 17, avuto riguardo al fatto che le stesse possono maturare durante tutto il periodo di applicazione della misura, anche a prescindere dalla richiesta di sospensione formulata ai sensi dell’art. 49, comma 1.  Si pone, dunque, la questione del rapporto  di concorrenza o di alternatività  fra le ipotesi di revoca delle misure cautelari applicate agli enti collettivi cui fa riferimento l’art. 50: da un lato, la revoca per mancanza, anche sopravvenuta, delle condizioni di applicabilità di cui all’art. 45, dall’altro lato la revoca disposta in presenza delle condizioni disciplinate dal combinato disposto degli artt. 17 e 49 (sospensione delle misure cautelari su richiesta dell’ente di realizzare gli adempimenti di tipo riparatorio cui può essere condizionata l’esclusione delle sanzioni interdittive a norma dell’art. 17, con la successiva revoca della misura cautelare, in presenza dell’accertata verificazione della condizione sospensiva). Non pertinente, in primo luogo, deve ritenersi il richiamo ad un precedente giurisprudenziale di questa Corte (Sez. 6 penale, 32627/2006), che ha ravvisato l’interesse dell’ente ad impugnare l’ordinanza con la quale era stata applicata nei suoi confronti la misura cautelare interdittiva di cui all’art. 45, ancorché la stessa fosse stata revocata nelle more del procedimento di impugnazione. Con tale pronuncia, infatti, questa Corte ha affermato che non è consentito al giudice, nel revocare la misura cautelare interdittiva, imporre all’ente l’adozione coattiva di modelli organizzativi. Dall’annullamento dell’ordinanza, invero, poteva derivare, quale sua diretta conseguenza, l’immediata inefficacia degli adempimenti coattivamente imposti con il provvedimento di revoca. Nella specifica evenienza ivi esaminata, infatti, il giudice non si era limitato a revocare la misura cautelare interdittiva, ma aveva “ordinato” alla società di adottare i modelli organizzativi predisposti dal commissario giudiziario e di risarcire il danno arrecato alle pubbliche amministrazioni appaltanti, con la restituzione del profitto illecito, dando incarico al commissario di accertare l’avvenuta ed effettiva adozione dei modelli organizzativi. Nel caso ora menzionato, dunque, il giudice cautelare aveva sostanzialmente imposto l’adozione di un modello organizzativo alla società, secondo una procedura che, come evidenziato dalla Corte, non trova appiglio nella normativa in materia di responsabilità degli enti collettivi, ove non si prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre spontanea, in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare, nella fase cautelare, la sospensione o la non applicazione delle misure interdittive (ex art. 49). Da tale precedente, pertanto, non può logicamente inferirsi la conseguenza che il ricorrente prospetta riguardo alla permanenza dell’interesse all’impugnazione qualora la misura cautelare interdittiva sia stata revocata nelle more del relativo procedimento, così imponendosi la forma del contraddittorio camerale partecipato, ostativa all’operatività della disposizione di cui all’art. 127, comma 9. Dal tenore letterale dell’art. 50 sembra evincersi, di contro, che il legislatore ha inteso porre in alternativa, quali fattori di revoca della misura cautelare applicata, l’effettuazione degli adempimenti in questione e la mancanza sopravvenuta delle condizioni indicate dal precedente art. 45, tra le quali è compreso anche il rischio di recidiva. Muovendo da tale opzione ermeneutica (Sez. 6 penale, 18635/2015) questa Corte ha conseguentemente affermato il principio secondo cui la revoca della misura interdittiva può essere disposta, nel caso di sospensione della misura cautelare concessa ai sensi dell’art. 49, anche qualora il rischio di recidiva cessi per fattori sopravvenuti e diversi dall’attuazione delle misure riparatorie volte all’eliminazione delle carenze organizzative. L’alternatività delle ipotesi di revoca previste dall’art. 50 potrebbe indurre a ritenere, unitamente al rilievo dell’effetto immediato della vicenda estintiva della cautela, che il provvedimento debba adottarsi de plano, risultando difficile configurare, prima facie, un contraddittorio orale anticipato alla stregua di quanto previsto dall’art. 47 in sede di applicazione della misura. È pur vero, tuttavia, che il vaglio delibativo in ordine alla ricorrenza delle condizioni previste dall’art. 17 potrebbe esigere una puntuale verifica circa l’effettivo adempimento delle condotte riparatorie da parte dell’ente e che il giudice, attraverso il richiamo alla possibilità prevista nell’ordinamento processuale dall’art. 299, comma 4-ter, c.p.p. - ove tale norma sia ritenuta compatibile con la disciplina degli enti collettivi ai sensi dell’art. 34 - potrebbe disporre tutti gli accertamenti necessari al fine di valutare il rispetto delle condizioni sottostanti alla realizzazione delle condotte di cui all’art. 17. Sotto altro, ma connesso profilo, deve rilevarsi, infatti, che il procedimento di applicazione delle misure cautelari a carico degli enti collettivi mostra connotati tipicamente “dialogici” e si fonda sulla esigenza di un contraddittorio anticipato rispetto all’adozione della cautela, senza alcuna manifestazione di rinuncia preventiva dell’ente alla contestazione dei presupposti di legittimità della misura nel caso in cui venga avanzata la richiesta di realizzazione degli adempimenti riparatori al cui perfezionamento la legge condiziona l’esclusione delle sanzioni interdittive. In tal senso, dunque, potrebbe ritenersi la permanenza dell’interesse ad impugnare, al fine di ottenere una decisione sulla legittimità della misura interdittiva anche in presenza della sua intervenuta revoca, allorché ad una eventuale pronuncia in sede di gravame possa ricollegarsi, come si è già osservato, una situazione di vantaggio, ovvero una concreta ed attuale incidenza sulla posizione complessiva del ricorrente, con effetti significativi, ad es., sul mantenimento o meno di cauzioni provvisorie prestate a mezzo di fideiussioni per la partecipazione a gare d’appalto, sulla eventuale restituzione di cospicue somme di denaro già versate per ottenere la sospensione della misura interdittiva, ovvero per dimostrare l’insussistenza del profitto, o, infine, sulla rimozione di tutte le possibili conseguenze dannose derivanti per la società dall’applicazione della cautela. Il sopravvenire della fattispecie estintiva della misura cautelare potrebbe richiedere inoltre, quale causa non originaria di inammissibilità del ricorso, lo svolgimento di una puntuale opera di verifica in ordine alla realizzazione delle condizioni previste dalla connessa disposizione di cui all’art. 17, sì da imporre un approfondito accertamento sulla persistenza o meno dell’interesse ad impugnare, che solo un contraddittorio camerale in forma partecipata consentirebbe di realizzare nel pieno rispetto dei diritti e delle garanzie della difesa. Sulla base delle su esposte considerazioni s’impone, dunque, in ragione del contrasto giurisprudenziale formatosi riguardo alle forme procedimentali prodromiche alla declaratoria di inammissibilità dell’impugnazione, la rimessione degli atti alle Sezioni Unite di questa Corte ai sensi dell’art. 618 c.p.p., in relazione al seguente quesito: «se l’appello avverso un’ordinanza applicativa di una misura cautelare - nella specie, una misura interdittiva disposta a carico di una società - possa essere dichiarato inammissibile “anche senza formalità”, ex art. 127, comma 9, c.p.p., dal tribunale che ritenga la sopravvenuta mancanza di interesse a seguito della revoca della misura stessa» (ordinanza di rimessione alle SU emessa da Sez. 6, 26032/2018).

Il predetto conflitto è stato risolto dalle Sezioni unite le quali hanno osservato che l’appello avverso una misura interdittiva, che nelle more sia stata revocata a seguito delle condotte riparatorie ex art. 17 D. Lgs. 231/2001 poste in essere dalla società indagata, non può essere dichiarato inammissibile de plano, secondo la procedura prevista dall’art. 127, comma 9, cod. proc. pen., ma, considerando che la revoca può implicare valutazioni di ordine discrezionale, deve essere deciso nell’udienza camerale e nel contraddittorio tra le parti, previamente avvisate. Difatti, la revoca della misura interdittiva disposta a seguito delle condotte riparatorie poste in essere ex art. 17 D. Lgs. 231/2001, intervenuta nelle more dell’appello cautelare proposto nell’interesse della società indagata, non determina autonomamente la sopravvenuta carenza di interesse all’impugnazione (SU, 51515/2018).

 

Effetto devolutivo dell’appello

L'appello del PM, ex art. 310, avverso ordinanza cautelare i cui motivi siano riferiti al solo punto dell'adeguatezza della misura emessa, non attribuisce al TDR la cognizione anche sui punti della gravità indiziaria e delle esigenze cautelari, fatta salva l'applicazione dell'art. 299, comma 1, in ordine ad elementi nuovi o diversi, non precedentemente valutati dal giudice che ha emesso la misura. (Fattispecie in cui la Suprema corte ha ritenuto erronea la valutazione operata dal Tribunale, che, eccedendo i limiti dell'appello cautelare proposto e del correlato effetto devolutivo, non si era limitato a valutare il punto dell'adeguatezza della misura applicata dedotto dal PM nel gravame, ma aveva esteso la propria cognizione alla verifica di un'ulteriore esigenza cautelare, quella di cui all'art. 274, comma 1, lett. c),  fondando su di essa la propria decisione, tanto da escludere per tale motivo l'ipotesi della concessione in sede di giudizio del beneficio della sospensione condizionale della pena ed omettendo di spiegare le ragioni per cui avrebbe dovuto reputarsi inadeguata la misura applicata in relazione all'unica esigenza segnalata nell'ordinanza genetica) (Sez. 6, 36620/2020).

La regola della devoluzione propria del giudizio di appello nel processo di merito è stata ritenuta, applicabile all’appello nel processus libertatis, di cui all’art. 310. Mentre il giudizio di riesame, di cui all’art. 309, ha carattere totalmente e pienamente devolutivo e non ha bisogno del sostegno di motivi, quello di appello, di cui al successivo art. 310, è condizionato dall’esplicitazione delle ragioni di doglianzaNel giudizio di appello, contestualmente alla richiesta debbono enunciarsi motivi a sostegno, i quali fungono, analogamente a quanto previsto dal richiamato art. 597 comma 1, da delimitatori del potere di cognizione e di decisione attribuito al giudice del gravame (eccettuato il caso di applicazione della misura di cautela personale su impugnazione del PM avverso l’ordinanza di rigetto della richiesta da parte del GIP). Si ripropone quella stretta relazione tra “punti” della doglianza e “perimetro” del potere di cognizione dell’organo della revisio prioris instantiae, nel senso che viene in evidenza la facoltà (processuale) di chi si ritiene ingiustamente danneggiato dal dato provvedimento di individuare la parte della decisione giudicata errata o ingiusta e, limitatamente ad essa, di investire il giudice funzionalmente superiore. L’impugnazione motivata è, dunque, espressione del potere dispositivo della parte di circoscrivere l’ambito della doglianza e così “perimetrare” l’area della cognizione dell’organo deputato al riesame. L’appello nel processo di merito e l’appello nel procedimento incidentale in materia di libertà personale partecipano, dunque, della stessa natura, poiché integrano lo stesso strumento di verifica del provvedimento del primo giudice; giustificata appare, pertanto, l’estensione all’appello de libertate delle regole dell’appello sul merito, tra le quali, per quanto qui riguarda, quella del tantum devolutum quantum appellatumLa predetta regola, peraltro, si applica al procedimento di cui all’art. 310 con tutte le sue implicazioni, compresa quella della libertà di autonoma valutazione e motivazione attribuita al giudice del gravame, pur sempre entro il limite dei punti attinti dai motivi di appello (Sez. 2, 36958/2018).

 

Interesse all’impugnazione

In tema di arresti domiciliari, sono impugnabili mediante appello, ai sensi dell'art. 310 c.p.p., i provvedimenti che incidono sulla misura per periodi permanenti o prolungati ex art. 284, comma 3, c.p.p., come ad esempio il diniego dell'autorizzazione allo svolgimento di attività lavorativa, trattandosi di provvedimenti che si riverberano in misura apprezzabile sul regime cautelare e si qualificavano pertanto come ordinanze cautelari; viceversa, sono inoppugnabili i provvedimenti relativi alla autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di restrizione domiciliare riferiti a singoli eventi o necessità, in quanto non incidenti in modo stabile e significativo sul tasso di afflittività della misura cautelare (Sez. 3, 45973/2021).

L’interesse all’impugnazione proposta ex art. 310, quando essa abbia ad oggetto la custodia in carcere e contesti i gravi indizi di colpevolezza, come verificatosi nella specie, non viene meno per l’intervento nel frattempo della sostituzione dell’originaria misura, asseverando tale sostituzione la permanenza dei gravi indizi di colpevolezza che l’impugnazione aveva inteso contestare al fine di ottenere la completa liberazione da restrizioni coercitive e potendo, comunque, l’esclusione di tali indizi giovare in seguito all’indagato ai fini del procedimento di riparazione ex art. 314 (Sez. 1, 32326/2018).

L'appello cautelare del pubblico ministero è inammissibile se motivato con il mero richiamo al contenuto della originaria richiesta cautelare, fatta eccezione per l'ipotesi in cui, per motivi formali ritenuti assorbenti o per l'apoditticità della decisione dei giudice per le indagini preliminari, sia mancata qualsiasi valutazione della richiesta medesima, essendo, invece, necessario che anche tale impugnazione, in quanto assimilabile agli ordinari mezzi di impugnazione, soddisfi il requisito della specificità attraverso l'indicazione dei capi e punti ai quali si riferisce e l'enunciazione dei motivi, con l'indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta (Sez. 6, 42936/2021).

 

Errore nella scelta del mezzo di gravame

In tema di impugnazioni, allorché un provvedimento giurisdizionale sia impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso da quello legislativamente prescritto, il giudice che riceve l’atto deve limitarsi, a norma dell’art. 568, comma 5, a verificare l’oggettiva impugnabilità del provvedimento, nonché l’esistenza di una “voluntas impugnationis”, consistente nell’intento di sottoporre l’atto impugnato a sindacato giurisdizionale, e quindi trasmettere gli atti, non necessariamente previa adozione di un atto giurisdizionale, al giudice competente.

Al riguardo, in particolare, sono stati enunciati i seguenti principi: a) se un provvedimento giurisdizionale è impugnato dalla parte interessata con un mezzo di gravame diverso dal tipo (unico) legislativamente prescritto e/o proposto dinanzi a giudice incompetente, il giudice adito  prescindendo da qualunque analisi valutativa in ordine alla indicazione di parte, se frutto cioè di errore ostativo o di scelta deliberata  deve limitarsi semplicemente, a norma della regula iuris dettata dall’art. 568, comma 5, a prendere atto della voluntas impugnationis (elemento minimo questo che dà esistenza giuridica all’atto proposto e lascia impregiudicata la sua validità) e a trasmettere gli atti al giudice competente; b) tale fenomeno è dogmaticamente inquadrabile nella categoria dell’esatta qualificazione giuridica dell’atto; c) il potere di procedere a tale qualificazione e di accertare l’esistenza dei requisiti di validità dell’atto è riservato in via esclusiva al giudice competente a conoscere, secondo la previsione del sistema delineato dal codice, sia dell’ammissibilità che della fondatezza dell’impugnazione; d) la trasmissione degli atti al giudice competente non richiede necessariamente un provvedimento giurisdizionale, ma può avvenire anche con un atto di natura meramente amministrativa; e) unico limite all’operatività della menzionata disposizione di cui all’art. 568, comma 5, è costituito dall’inimpugnabilità del provvedimento, la quale concettualmente esclude qualunque possibilità di diversa qualificazione del gravame eventualmente proposto (Sez. 6, 38253/2018).

 

Termine per l’appello

Il termine per la proposizione da parte del PM dell’appello ai sensi dell’art. 310 avverso l’ordinanza del GIP che, con un unico provvedimento, accolga parzialmente la richiesta di misura cautelare personale, rigettandola per alcuni indagati o per alcune imputazioni, decorre dal momento in cui il provvedimento medesimo viene comunicato per l’esecuzione all’Ufficio di Procura mediante consegna in segreteria (Sez. 2, 31318/2018).

 

Modalità di proposizione dell’appello

È inammissibile l’impugnazione cautelare proposta dal PM mediante l’uso della PEC, in quanto le modalità di presentazione e di spedizione dell’impugnazione, disciplinate dall’art. 583 - esplicitamente indicato dall’art. 309, comma 4, a sua volta richiamato dall’art. 310, comma 2  - e applicabili anche al PM sono tassative e non ammettono equipollenti, stabilendo soltanto la possibilità di spedizione dell’atto mediante lettera raccomandata o telegramma, al fine di garantire l’autenticità della provenienza e la ricezione dell’atto, mentre nessuna norma prevede la trasmissione mediante l’uso della PEC (Sez. 5, 24332/2015).

Visione e copia degli atti

Nel procedimento cautelare alla parte interessata non è garantito il diritto di estrarre copia degli atti, essendo i diritti della difesa adeguatamente tutelati dalla possibilità di prenderne visione. Nelle procedure ex artt. 309 e 310 non sussiste un diritto della parte interessata ad ottenere de plano copia degli atti di indagine poiché i diritti della difesa risultano comunque tutelati adeguatamente dalla possibilità di esaminare gli atti depositati in cancelleria e, quindi, di estrarne copia informale, mentre il riconoscimento di un diritto in senso tecnico ad ottenere copia degli atti del procedimento, oltre ad essere escluso dalla lettera della legge, urterebbe contro lo stesso interesse dell’indagato a una rapida decisione in ordine al suo status libertatis (Sez. 3, 31196/2020).

 

Contraddittorio nell’appello cautelare e non necessità dell’interrogatorio di garanzia

Qualora il Tribunale, in accoglimento dell’appello del PM avverso la decisione di rigetto del GIP, applichi una misura cautelare coercitiva, non è necessario procedere all’interrogatorio di garanzia di cui all’art. 294 in quanto il provvedimento emesso in sede di appello cautelare è preceduto dall’instaurazione di un contraddittorio pieno, finalizzato ad approfondire anticipatamente tutti i temi dell’azione cautelare anche attraverso i contributi forniti dalla difesa (Sez. 2, 38828/2017).

 

Elementi valutabili dal giudice dell’appello

In tema di misure cautelari personali vale il principio per cui, una volta intervenuta la sentenza di condanna anche non definitiva, la valutazione, in sede di riesame o di appello, degli elementi rilevanti ai fini del giudizio incidentale, deve mantenersi nell'ambito della ricostruzione operata dalla pronuncia di merito, non solo per quel che attiene all'affermazione di colpevolezza, ma anche con riferimento alla qualificazione giuridica e alle circostanze del fatto, che non possono essere apprezzate in modo diverso dal giudice della cautela (Sez. 4, 18426/2022).

Il giudice dell’appello cautelare, chiamato a decidere dopo una sentenza di condanna appellabile relativa ai fatti per i quali era stata emessa la misura coercitiva, può valutare, al fine di verificare la permanenza dei gravi indizi di colpevolezza, solo gli eventuali elementi sopravvenuti che siano idonei ad incidere sul quadro probatorio, ma non quelli che siano in grado di inficiare la legittimità delle prove su cui la condanna medesima è fondata, circostanze queste ultime che vanno proposte al giudice di appello nel giudizio di merito. Si tratta del cosiddetto «principio dell’assorbimento» per il quale l’intervento di una decisione sul merito dell’imputazione preclude al giudice cautelare un autonomo esame dell’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza, solo a patto che sussista identità di imputato, di reato e di procedimento, dovendosi escludere efficacia vincolante, ai fini predetti, alla sentenza eventualmente sopravvenuta nei confronti dei coimputati giudicati separatamente (Sez. 5, 36206/2018).

Se, nelle more della decisione sull’appello proposto contro l’ordinanza reiettiva della richiesta di misura cautelare personale, il PM rinnovi la domanda nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, allegando elementi probatori “nuovi”, preesistenti o sopravvenuti, è precluso al giudice, in pendenza del procedimento di appello, decidere in merito alla medesima domanda cautelare (SU, 18339/2004).

Qualora il PM, nelle more della decisione su una impugnazione incidentale de libertate, intenda utilizzare, nei confronti dello stesso indagato e per lo stesso fatto, elementi probatori “nuovi” può scegliere se riversarli nel procedimento impugnatorio ovvero porli a fondamento di una nuova richiesta cautelare, ma, una volta effettuata, la scelta gli preclude di coltivare l’altra iniziativa cautelare (SU, 7931/2011).

 

Termine per il deposito dell’ordinanza

In materia di impugnazione di misure cautelari personali, il termine di trenta giorni per il deposito dell’ordinanza del TDR decorre dalla data del deposito del dispositivo e non dalla eventuale diversa data della camera di consiglio (Sez. 6, 22818/2016).

 

Notifica dell’ordinanza del TDR

Le ordinanze emesse dal TDR a norma degli artt. 309 e 310 non devono essere notificate per intero, bensì attraverso avviso di deposito del provvedimento stesso e da tale notifica decorre il termine per proporre ricorso per cassazione. (Sez. 4, 21340/2013).

 

Diversa qualificazione giuridica del fatto e suoi effetti

In tema di misure cautelari personali, la decisione con la quale il tribunale del riesame, in accoglimento dell’appello del PM, dia al fatto una diversa qualificazione giuridica, ovvero riconosca la sussistenza di una circostanza aggravante a effetto speciale esclusa nell’ordinanza genetica, ha efficacia immediatamente esecutiva e incide, pertanto, anche sul computo dei termini di durata massima della custodia cautelare (fattispecie nella quale il tribunale per il riesame aveva confermato il provvedimento del GIP di rigetto della richiesta intesa ad ottenere la declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere per decorrenza dei termini di durata massima. Ciò in quanto la circostanza aggravante della agevolazione mafiosa, inizialmente esclusa nell’ordinanza genetica e successivamente ritenuta sussistente dal tribunale per il riesame a seguito dell’accoglimento dell’appello del pubblico ministero, aveva portato a un anno il termine di durata massima della custodia cautelare, che nella prima fase risultava invece di sei mesi. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha rigettato il ricorso proposto nell’interesse dell’imputato) (Sez. 2, 21826/2022).

 

Sospensione dell’esecuzione della decisione di accoglimento dell’appello del PM

L’articolo 310 comma 3 dispone che l’esecuzione della decisione con la quale il tribunale, accogliendo l’appello del PM, disponga una misura cautelare, è sospesa fino a che la decisione non sia divenuta definitiva. Ne consegue che, la statuizione contenuta nel provvedimento impugnato, di immediata esecuzione della misura cautelare disposta in appello, è illegittima e deve essere cassata senza rinvio (Sez. 5, 46344/2013).