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Art. 314 - Presupposti e modalità della decisione

1. Chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave. L'esercizio da parte dell'imputato della facoltà di cui all'articolo 64, comma 3, lettera b), non incide sul diritto alla riparazione di cui al primo periodo.

2. Lo stesso diritto spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto a custodia cautelare, quando con decisione irrevocabile risulti accertato che il provvedimento che ha disposto la misura è stato emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli articoli 273 e 280.

3. Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano, alle medesime condizioni, a favore delle persone nei cui confronti sia pronunciato provvedimento di archiviazione ovvero sentenza di non luogo a procedere.

4. Il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all’applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo.

5. Quando con la sentenza o con il provvedimento di archiviazione è stato affermato che il fatto non è previsto dalla legge come reato per abrogazione della norma incriminatrice, il diritto alla riparazione è altresì escluso per quella parte di custodia cautelare sofferta prima della abrogazione medesima. 

Rassegna giurisprudenziale

Presupposti e modalità della decisione (art. 314)

È costituzionalmente illegittimo l’art. 314 comma 1 nella parte in cui non prevede che chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non avere commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la detenzione subita a causa di arresto in flagranza o di fermo di indiziato di delitto, entro gli stessi limiti stabiliti per la custodia cautelare.

È costituzionalmente illegittimo l’art. 314 comma 2 nella parte in cui non prevede che lo stesso diritto nei medesimi limiti spetta al prosciolto per qualsiasi causa o al condannato che nel corso del processo sia stato sottoposto ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto quando, con decisione irrevocabile, siano risultate insussistenti le condizioni per la convalida (Corte costituzionale, sentenza 109/1999).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 314 nella parte in cui non prevede il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione (Corte costituzionale, sentenza 310/1996).

È costituzionalmente illegittimo l’art. 314 nella parte in cui, nell’ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all’equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni (Corte costituzionale, sentenza 219/2008).

Si riporta, per la sua affinità al tema dell’equa riparazione, anche una pronuncia del giudice civile di legittimità: l’istanza di accelerazione del processo penale, in assenza di specifiche previsioni del legislatore che garantiscono una sollecita definizione della vicenda processuale, ha portata meramente dichiarativa e non è dotata dei caratteri di rimedio effettivamente sollecitatorio.

L’istanza de qua si risolverebbe, dunque, in una mera prenotazione degli effetti della riparazione per l’irragionevole durata dei processi in un momento in cui il ritardo non ha ancora assunto un’entità tale da legittimare la richiesta indennitaria.

La previsione di un siffatto strumento non sospende né differisce il dovere dello Stato di dare corso al procedimento e, dopo l’esercizio dell’azione penale, al processo, in caso di omesso esercizio dello stesso, né implica il trasferimento sul ricorrente della responsabilità per il superamento del termine ragionevole per la definizione del giudizio, salva restando la valutazione del comportamento della parte al solo fine dell’apprezzamento della entità del lamentato pregiudizio (SU civili, 28507/2006).

 

Legittimazione alla domanda

La domanda di riparazione per ingiusta detenzione costituisce atto personale della parte che l’abbia indebitamente soffertaPertanto la sua proposizione, in quanto espressione della volontà della parte di far valere il diritto alla riparazione in giudizio può avvenire, oltre che personalmente, anche per mezzo di procuratore speciale nominato nelle forme previste dall’art. 122, ma non per mezzo del difensore con procura, avendo la legge voluto garantire sia l’autenticità dell’iniziativa, sia la sua diretta e inequivocabile derivazione dalla volontà dell’interessato; mentre alla presentazione della domanda può provvedere anche il difensore con procura che ha il potere di compiere e ricevere, nell’interesse della parte, tutti gli atti del processo che dalla legge non sono ad essa espressamente riservati (SU, 8/1999).

Tra i casi in cui, in applicazione della sentenza n. 310 del 18-25 luglio 1996 della Corte costituzionale, si è riconosciuta la sussistenza del diritto alla equa riparazione anche nel caso di detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., e violazione dell'art. 5 della Convenzione EDU che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta, rientra anche, naturalmente ove ricorrano le condizioni di cui agli artt. 314-315, l'ipotesi di mancata sospensione della esecuzione della pena detentiva, pari o superiore a tre anni di reclusione, inflitta per fatto commesso e con accertamento avvenuto prima dell'entrata in vigore della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (recante "Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici"), il cui art. 1, c. 6, lettera b), è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32 del 12-16 febbraio 2020 in quanto interpretato nel senso che le modificazioni introdotte all'art. 4-bis, c. 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 c.p. e del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione previsto dall'art. 656, c. 9, lett. a) (Sez. 4, 9721/2022).

La domanda di riparazione per ingiusta detenzione può essere proposta soltanto dalla parte personalmente o da soggetto munito della procura speciale prevista dall’art. 122, che deve contenere, ai sensi di legge, anche “la determinazione dell’oggetto per cui è conferita e dei fatti a cui si riferisce” (Sez. 4, 16115/2018).

La Corte costituzionale, con la sentenza 413/2004, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità dell’articolo 314, comma 3, chiarendo che “va interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per ‘morte del reo’, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato”.

In virtù della suddetta sentenza, i giudici di legittimità hanno affermato che “l’art. 314, comma 3, deve essere interpretato nel senso che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione opera anche in favore degli eredi dell’indagato la cui posizione sia stata archiviata per morte del reo, qualora nella sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata nei confronti dei coimputati risulti accertata l’insussistenza del fatto a lui addebitato”.

Il principio di diritto vale all’evidenza a regolare anche i casi in cui, in luogo dell’archiviazione, è intervenuta una sentenza dichiarativa di estinzione per morte del reo. Gli eredi hanno quindi modo di veder pienamente tutelato il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione asseritamente patita del loro prossimo congiunto, senza alcuna necessità di far richiesta di estensione della sentenza assolutoria pronunciata nei confronti dei coimputati, a cui non sono, per le ragioni già dette, legittimati (Sez. 1, 31087/2018).

 

Casi indennizzabili di ingiusta detenzione

A seguito dell’intervento della Corte costituzionale con la sentenza 310/1996, l’art. 314 è stato dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva il diritto all’equa riparazione anche per la detenzione ingiustamente patita a causa di erroneo ordine di esecuzione per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. e violazione dell’art. 5 CEDU che prevede il diritto alla riparazione a favore della vittima di arresto o di detenzioni ingiuste senza distinzione di sorta. Il diritto alla riparazione è di conseguenza configurabile anche ove l’ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all’esecuzione della pena, purché sussista un errore dell’autorità procedente e non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato che sia stato concausa dell’errore o del ritardo nell’emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data della fine dell’espiazione della pena (Sez. 4, 35705/2018).

La norma di cui all’art. 314 è stata oggetto di plurimi interventi del giudice delle leggi che ne hanno ampliato la operatività, ponendola in sintonia anche con le fonti di diritto sovranazionale. Tali interventi hanno avuto lo scopo di estendere lo spettro operativo della norma a situazioni che, infatti, sono accomunate da un unico denominatore, costituito dalla privazione della libertà personale conseguente allo stato detentivo ingiustamente subito. Dal raggio di operatività della stessa restano, quindi, escluse le situazioni ricollegabili all’applicazione di misure non custodiali, in relazione a fatti di reato per i quali sia intervenuto proscioglimento nel merito. Pertanto, va ribadito il principio secondo cui, in tema di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della liquidazione equitativa del relativo indennizzo, il periodo durante il quale l’imputato è sottoposto a misure coercitive diverse dalla custodia detentiva non può essere considerato tra le conseguenze afflittive “indirette” dell’ingiusta detenzione subita in quanto, in tali casi, manca ab origine il presupposto giuridico per l’esistenza stessa del diritto alla riparazione. Peraltro, il limite tracciato dall’art. 314 (nella parte in cui letteralmente circoscrive l’istituto dell’equo indennizzo alla custodia cautelare subita) è del tutto coerente con le fonti sovranazionali: l’art. 5 CEDU, infatti, che tutela il diritto alla libertà e alla sicurezza, opera soltanto in caso di violazione delle prescrizioni da esso poste ai paragrafi 1, 2, 3 e 4 nei quali si fa espresso riferimento alla privazione della libertà (Sez. 4, 32233/2018).

Il diritto alla riparazione ai sensi dell'art. 314 sussiste anche ove l'ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all'esecuzione della pena, purché non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell'interessato che sia stato concausa dell'errore o del ritardo nell'emissione del nuovo ordine di esecuzione recante la corretta data del termine di espiazione della pena (Sez. 4, 28542/2022).

È ammissibile la richiesta di riparazione per la ingiusta detenzione in relazione alla restrizione della libertà indebitamente sofferta per l’applicazione della misura di sicurezza del ricovero in una casa di cura (Sez. 4, 5001/2009).

Il diritto alla riparazione è configurabile anche ove l’ingiusta detenzione patita derivi da vicende successive alla condanna, connesse all’esecuzione della pena purché sussista un errore dell’autorità procedente e non ricorra un comportamento doloso o gravemente colposo dell’interessato che sia stato concausa dell’errore relativo all’esecuzione della pena (Sez. 4, 54838/2018).

In tema di riparazione per ingiusta detenzione, ai fini della liquidazione equitativa del relativo indennizzo, il periodo durante il quale l’imputato è sottoposto a misure coercitive diverse dalla custodia detentiva non può essere considerato tra le conseguenze afflittive “indirette” dell’ingiusta detenzione subita in quanto, in tali casi, manca “ah origine” il presupposto giuridico per l’esistenza stessa del diritto alla riparazione (Sez. 3, 55787/2017).

Non è configurabile il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione in caso di estinzione del reato per prescrizione, a meno che la durata della custodia cautelare sofferta risulti superiore alla misura della pena astrattamente irrogabile o a quella in concreto inflitta, ma soltanto per la parte di detenzione subita in eccedenza, ovvero quando risulti accertata in astratto la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell’ingiustizia formale della privazione della libertà personale (Sez. 3, 2451/2014).

 

Onere della prova

La procedura riparatoria, quantunque si riferisca ad un rapporto obbligatorio di diritto pubblico e comporti perciò il rafforzamento dei poteri officiosi del giudice, è tuttavia ispirata ai principi del processo civile, con la conseguenza che l’istante ha l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda (la custodia cautelare subita e la successiva assoluzione), mentre alla parte resistente incombe di provare il dolo o la colpa grave da parte dell’istante medesimo quali causa o concausa del provvedimento restrittivo (Sez. 4, 36029/2018).

 

Ambito di cognizione del giudice

Nei procedimenti per riparazione per ingiusta detenzione la cognizione del giudice di legittimità deve intendersi limitata alla sola legittimità del provvedimento impugnato, anche sotto l’aspetto della congruità e logicità della motivazione, e non può investire naturalmente il merito. Ciò ai sensi del combinato disposto di cui all’articolo 646 secondo capoverso, da ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nel terzo comma dell’articolo 315 (Sez. 4, 32232/2018).

L’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni, accertata nel giudizio penale di cognizione, ha effetti anche nel giudizio promosso per ottenere la riparazione per ingiusta detenzione (Sez. 4, 58001/2017).

 

Poteri istruttori del giudice

Il giudice adito è tenuto ad avvalersi, se necessario, della possibilità, prevista dagli artt. 213 e 738, comma 3, Cod. proc. civ., di chiedere anche d’ufficio alla pubblica amministrazione informazioni scritte su atti e documenti di cui essa sia in possesso (Sez. 4, 36029/2018).

 

Criteri di valutazione e autonomia tra giudizio riparatorio e giudizio penale

Costituisce principio consolidato quello dell’autonomia del processo di riparazione rispetto a quello di cognizione, nel senso che il giudice della riparazione non può ritenere l’esistenza di fatti esclusi dal giudice del processo, ma può rivalutare, non ai fini dell’accertamento della penale responsabilità ma ai fini dell’accertamento del diritto alla riparazione, i fatti anche penalmente irrilevanti, accertati e non esclusi dal giudice del merito (Sez. 4, 34886/2018).

Vi è totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione anche atteso che i due afferiscono piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni affatto differenti pur se fondanti sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametri di valutazione del tutto differenti.

Ciò perché è prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice (Sez. 4, 32232/2018).

 

Dolo o colpa grave dell’interessato

In tema di presupposti per la riparazione dell’ingiusta detenzione, deve intendersi dolosa - e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, comma 1 - non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’ “id quod plerumque accidit” secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’AG a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (SU, 43/1995).

Il giudice, nell’accertare la sussistenza o meno della condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’equa riparazione per ingiusta detenzione, consistente nell’incidenza causale del dolo o della colpa grave dell’interessato rispetto all’applicazione del provvedimento di custodia cautelare, deve valutare la condotta tenuta dal predetto sia anteriormente che successivamente alla sottoposizione alla misura e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (SU, 32383/2010).

Il giudice, per valutare la sussistenza del requisito della diretta efficacia del dolo o della colpa grave dell'interessato sull'emissione della misura cautelare, deve effettuare uno specifico raffronto tra la condotta dell'indagato e le ragioni esposte nella motivazione dell'ordinanza che ha disposto la misura stessa, perché solo qualora sussista un apprezzabile collegamento causale tra la condotta stessa e la custodia cautelare, in relazione sia al suo momento genetico sia al suo mantenimento (e che non può essere desunta da semplici elementi di sospetto, posto che gli stessi non possono fondare la misura cautelare, che esige la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza), potrà essere ragionevolmente escluso il riconoscimento del diritto all'equa riparazione (Sez. 3, 28012/2022).

In tema di riparazione per l'ingiusta detenzione, la condotta dolosa o gravemente colposa di cui all'art. 314 costituisce una condizione ostativa al riconoscimento del diritto all'equa riparazione solo qualora sussista un apprezzabile collegamento causale tra la condotta stessa e la custodia cautelare, in relazione sia al suo momento genetico sia al suo mantenimento, e non può essere desunta da semplici elementi di sospetto (nella specie, derivanti dal contenuto di una telefonata intercettata e dalla frequentazione di un soggetto dedito allo spaccio di stupefacenti), posto che gli stessi non possono fondare la misura cautelare, che esige la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza (Sez. 3, 20253/2022).

In tema di riparazione per ingiusta detenzione, l'aver dato o concorso a dare causa alla custodia cautelare per dolo o colpa grave non opera, quale condizione ostativa al riconoscimento del diritto, qualora l'accertamento della insussistenza ab origine delle condizioni di applicabilità della misura avvenga sulla base di una diversa valutazione dei medesimi elementi trasmessi al giudice che ha emesso il provvedimento cautelare, non potendo il giudice della riparazione neppure valutare - al diverso fine della eventuale riduzione dell'entità dell'indennizzo - la condotta colposa lieve (Sez. 4, 9850/2021).

Sussiste il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione qualora la durata della custodia cautelare sia superiore alla pena inflitta, sempre che nella condotta del richiedente non siano individuabili condotte gravemente colpose che abbiano avuto un ruolo eziologico nell'adozione della cautela o nella protrazione della restrizione della libertà (Sez. 4, 9772/2021).

Ai fini del riconoscimento dell’indennizzo può anche prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la “ratio” solidaristica che è alla base dell’istituto (SU, 51779/2013).

La facoltà di non rispondere può assumere rilievo ai fini dell’accertamento della condizione ostativa del dolo o della colpa grave qualora l’interessato non abbia riferito circostanze, ignote agli inquirenti, utili ad attribuire un diverso significato agli elementi posti a fondamento del provvedimento cautelare.

Il giudice infatti, per valutare la sussistenza della colpa grave ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, può prendere in esame il comportamento silenzioso  pur legittimamente tenuto nel corso del procedimento penale  poiché il diritto all’equa riparazione presuppone una condotta dell’interessato idonea a chiarire la sua posizione mediante l’allegazione di quelle circostanze a lui note, che contrastino l’accusa o vincano le ragioni di cautela e che, se conosciute tempestivamente, non avrebbero consentito il determinarsi o il protrarsi della privazione della libertà.

Nel caso in cui solo la persona sottoposta alle indagini sia in grado di fornire una logica spiegazione degli elementi di accusa, al fine di eliminare il valore indiziante degli elementi acquisiti nel corso delle indagini, non il silenzio o la reticenza, in quanto tali, rilevano, ma il mancato esercizio di una facoltà difensiva quanto meno sul piano dell’allegazione di fatti favorevoli, che se non può essere da solo posto a fondamento della colpa grave, vale però a far ritenere l’esistenza di un comportamento omissivo causalmente efficiente nel permanere della misura cautelare, del quale può tenersi conto nella valutazione globale della condotta, in presenza di altri elementi di colpa  (Sez. 4, 25252/2016).

Poiché la nozione di colpa è data dall’art. 43 Cod. pen., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto alla riparazione, ai sensi del predetto primo comma dell’art. 314, quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’AG che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso (Sez. 4, 32232/2018).

Va apprezzata la condotta che si sia sostanziata nella consapevolezza dell’attività criminale altrui e, nondimeno, nel porre in essere una attività che si presti sul piano logico ad essere contigua a quella criminale (Sez. 4, 4159/2008).

 

Componenti della riparazione e criteri di commisurazione dell’indennizzo

In materia di riparazione per l’ingiusta detenzione, gli interessi corrispettivi sulla somma attribuita a titolo di indennizzo vanno riconosciuti solo qualora l’interessato abbia proposto, nel corso del giudizio, la relativa domanda, in mancanza della quale la pronuncia di riconoscimento deve ritenersi emanata “ultra petita”, in quanto resa in violazione del principio di cui all’art. 112 Cod. proc. civ., secondo cui il giudice non può pronunciarsi oltre i limiti della domanda (Sez. 4, 1856/2016).

Il giudice può utilizzare per la liquidazione del danno sia il criterio risarcitorio con riferimento ai danni patrimoniali e non patrimoniali, sia il criterio equitativo limitatamente alle voci non esattamente quantificabili.

Nella liquidazione della somma per la riparazione dell’errore giudiziario, deve tenersi conto di tutte le peculiari sfaccettature di cui il danno non patrimoniale si compone nella sua globalità, avendo in particolare riguardo all’interruzione della attività lavorative e ricreative, dei rapporti affettivi e degli altri rapporti interpersonali, ed al mutamento radicale, peggiorativo e non voluto, delle abitudini di vita (Sez. 4, 36025/2018).

La liquidazione dell’indennizzo previsto a titolo dì riparazione per l’ingiusta detenzione va disancorata da criteri o parametri rigidi e deve, al riguardo, essere ispirato a principi di equità (anche perché la delicatezza della materia e le difficoltà per l’interessato di provare nel suo preciso ammontare la lesione patita ha indotto il legislatore a non prescrivere al giudice l’adozione di rigidi parametri valutativi, lasciandogli, al contrario, sia pure entro i confini della ragionevolezza e della coerenza, ampia libertà di apprezzamento delle circostanze del caso concreto), valutandosi la durata della custodia cautelare ed anche le conseguenze personali, familiari, patrimoniali, dirette o mediate, che siano derivate dalla privazione della libertà.

A tale riguardo, dato di partenza della valutazione indennitaria, è costituito dal parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art. 315, comma 2, il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303, comma 4, espresso in giorni, moltiplicato per il periodo, anch’esso espresso in giorni, di ingiusta detenzione subita, dovendosi poi procedere alla liquidazione dell’indennizzo entro il tetto massimo del quantum liquidabile, con apprezzamento di tutte le conseguenze pregiudizievoli che la durata della custodia cautelare ingiustamente subita ha determinato per l’interessato. Il riferimento al criterio aritmetico - che risponde all’esigenza di garantire un trattamento tendenzialmente uniforme, nei diversi contesti territoriali - non esime il giudice dall’obbligo di valutare le specificità, positive o negative, di ciascun caso e, quindi, di integrare tale criterio, ove ne ricorrano le condizioni, innalzando ovvero riducendo il risultato del calcolo aritmetico per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alle diverse situazioni sottoposte al suo esame (Sez. 4, 29358/2018).

La giurisprudenza di legittimità, in tema di liquidazione del quantum relativo alla riparazione per ingiusta detenzione, è ormai consolidata nell’affermare la necessità di contemperare il parametro aritmetico  costituito dal rapporto tra il tetto massimo dell’indennizzo di cui all’art. 315, comma 2, (€ 516.456,90) e il termine massimo della custodia cautelare di cui all’art. 303 comma 4, lett. c), espresso in giorni (sei anni ovvero 2190 giorni), moltiplicato per il periodo anch’esso espresso in giorni, di ingiusta restrizione subita  con il potere di valutazione equitativa attribuito al giudice per la soluzione del caso concreto, che non può mai comportare lo sfondamento del tetto massimo normativamente stabilito.

In più pronunce successive si è poi affermato che la liquidazione dell’indennizzo per la riparazione dell’ingiusta detenzione è svincolata da parametri aritmetici o comunque da criteri rigidi, e si deve basare su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto non solo della durata della custodia cautelare, ma anche, e non marginalmente, delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà, tenendo conto non soltanto dei parametri aritmetici, ma anche delle sofferenze morali patite e della lesione della reputazione conseguente allo strepitus fori (Sez. 4, 29339/2018).

Nella giurisprudenza di legittimità, ai fini della determinazione del quantum dell’indennizzo, il punto di partenza è costituito dal parametro aritmetico costituito dal rapporto tra il tetto massimo legale dell’indennizzo (€ 516.456,90) e il tempo massimo di custodia cautelare (6 anni ovvero 2.190 giorni), pari a € 235,82 al giorno moltiplicato per i giorni di ingiusta detenzione, dimezzato a € 117,91 per la detenzione agli arresti domiciliari (Sez. 4, 47286/2017).

In tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la liquidazione del relativo indennizzo deve basarsi su una valutazione equitativa che tenga globalmente conto anche delle conseguenze personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà le quali, tuttavia, non possono essere presunte, ma necessitano di essere provate, in quanto la sofferenza causalmente riconducibile alla separazione dal nucleo familiare costituisce conseguenza psicologica ed emotiva normale per un soggetto privato della propria libertà personale, donde la necessità, al fine di ottenere il soddisfacimento anche dei predetti pregiudizi “personali e familiari”, di allegare elementi giustificativi a sostegno dell’istanza (Sez. 3, 55787/2017).