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Art. 342 - Richiesta di procedimento

1. La richiesta di procedimento è presentata al pubblico ministero con atto sottoscritto dall’autorità competente.

Rassegna giurisprudenziale

Richiesta di procedimento (art. 342)

Richiesta di procedimento, autorizzazione a procedere, e querela costituiscono, in linea generale e dal punto di vista oggettivo e funzionale, condizioni per il promovimento dell’azione penale ed hanno dunque natura non amministrativa ma squisitamente processuale, pur quando provengano a parte subiecti da un organo dell’apparato di governo o amministrativo che tipicamente implicano «una valutazione di politica opportunità» sulla utilità dell’azione penale.

La richiesta di procedimento rappresenta, dunque, atto assolutamente discrezionale  non suscettibile d’autotutela, non revocabile (tali facoltà, diversamente che nella querela, non essendo previste da alcuna norma) e non sindacabile  interamente rimesso alla scelta del Ministro della Giustizia in base al «principio generale» che esso Ministro rappresenta «l’organo tecnicamente qualificato e politicamente idoneo a presiedere alle relazioni tra il Governo e l’Amministrazione della giustizia, esplicando a tal fine il potere di dare o rifiutare le autorizzazioni a procedere, nonché di fare istanza e richiesta di procedimento nei casi previsti dalla legge».

Tanto chiarito, nulla vieta o contraddice la possibilità che l’esercizio della relativa potestà sia delegata dal Ministro ad articolazioni tecniche del suo apparato.

Deve per conseguenza ritenersi che compete al Ministro la facoltà, parimenti insindacabile, di delegare tale atto e che è valida ed efficace la richiesta di procedimento sottoscritta da un Direttore generale come da qualsiasi altro funzionario del Ministero della Giustizia in virtù di espressa delega, anche di carattere generale, conferitagli dallo stesso Ministro (Sez. 1, 30127/2015).

La richiesta di procedimento, l’istanza di procedimento e la querela risultano regolate nel sistema penalistico quali condizioni che non attengono alla struttura del fatto-reato o alla sua punibilità, bensì alla procedibilità dell’azione penale.

L’art. 346, peraltro, prevede che, in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possano essere compiuti gli atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo, possano essere assunte le prove previste dall’art. 392 (Sez. 1, 48673/2015).

La qualificazione «politica» di un determinato reato non spetta al Ministro della giustizia, ma all’AG, incombendo al primo solo «una scelta, vincolata al perseguimento di fini legislativamente determinati, di politica criminale circa la opportunità, tenuto conto della rispondenza agli interessi del Paese, di sottoporre a processo in Italia quel reato, appunto «politico», quand’anche commesso all’estero.

Condizione perché il Ministro possa esprimere quella valutazione è che l’organo della pubblica accusa intenda procedere in relazione a un delitto qualificato come «politico», perché solo in tal caso si rivela necessaria la manifestazione del volere del Ministro. Nel caso di specie, in effetti, il Ministro della giustizia, posto a conoscenza del fatto per cui si procede e  impropriamente  investito della richiesta di valutare se il delitto avesse i caratteri propri di cui all’art. 8 Cod. pen., si è limitato a sollecitare il PM a compiere detta valutazione, così rispettando il principio di separazione dei poteri e l’art. 101, comma 2, Cost.

Spetta, infatti, all’AG la valutazione della natura «politica» di un reato, con la precisazione che detta valutazione non si esaurisce nella fase delle indagini preliminari, ma si sviluppa per tutto il corso del giudizio, competendo al giudice di confermare la ridetta qualificazione poiché rientra nell’oggetto della cognizione allo stesso attribuita dalla legge (Sez. 1, 24795/2018).

La giurisprudenza di legittimità è giunta a riconoscere l’esistenza di una definizione di reato politico con funzione repressiva, dettata dal codice penale, e di una definizione con funzione di garanzia della persona umana, rinvenibile nelle norme costituzionali (art. 26 Cost.) e nelle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10 Cost.), tra cui spiccano la CEDU e la Convenzione europea per la prevenzione del terrorismo firmata a Strasburgo il 27 gennaio 1977.

La qualificazione di un delitto come politico data dall’art. 8 Cod. pen. va letta alla luce dell’art. 10 Cost., secondo il quale l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale, tra le quali si pone in particolare la CEDU, che obbliga gli Stati al rispetto di alcuni diritti fondamentali nei confronti di ogni persona sottoposta alla loro giurisdizione.

D’altra parte, i crimini di guerra sono integrati da quei comportamenti posti in essere nell’ambito di un conflitto armato, i quali, pur risultando privi dei connotati di estensione e di sistematicità propri dei crimini contro l’umanità, si caratterizzano per la lesione dei valori universali di rispetto della dignità umana, che trascendono gli interessi delle singole comunità statali impegnate nel contesto bellico (Sez. 1, 24795/2018).