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Art. 696 - Prevalenza del diritto dell’Unione europea, delle convenzioni e del diritto internazionale generale

1. Nei rapporti con gli Stati membri dell’Unione europea le estradizioni, le domande di assistenza giudiziaria internazionali, gli effetti delle sentenze penali straniere, l’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e gli altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale, sono disciplinati dalle norme del Trattato sull’Unione europea e del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, nonché dagli atti normativi adottati in attuazione dei medesimi. Se tali norme mancano o non dispongono diversamente, si applicano le norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e le norme di diritto internazionale generale.

2. Nei rapporti con Stati diversi da quelli membri dell’Unione europea le estradizioni, le domande di assistenza giudiziaria internazionali, gli effetti delle sentenze penali straniere, l’esecuzione all’estero delle sentenze penali italiane e gli altri rapporti con le autorità straniere, relativi all’amministrazione della giustizia in materia penale, sono disciplinati dalle norme delle convenzioni internazionali in vigore per lo Stato e dalle norme di diritto internazionale generale.

3. Se le norme indicate ai commi 1 e 2 mancano o non dispongono diversamente, si applicano le norme del presente libro.

4. Il Ministro della giustizia può, in ogni caso, non dare corso alle domande di cooperazione giudiziaria quando lo Stato richiedente non dia idonee garanzie di reciprocità.

Rassegna giurisprudenziale

Prevalenza del diritto dell’Unione europea, delle convenzioni e del diritto internazionale generale (art. 696)

È coerente alla più recente evoluzione del panorama normativo internazionale e comunitario, tesa a rendere non solo e non tanto più rapida, semplice ed efficace la mutua assistenza giudiziaria, ma soprattutto diretta a superare il concetto di “assistenza” per sostituirvi quello di “cooperazione”, ritenuta necessaria per una più efficace lotta contro il crimine transnazionale, sul presupposto della sostanziale conformità degli ordinamenti degli Stati dell’area europea agli stessi fondamentali principi di tutela dei diritti fondamentali della persona e sulla base della mutua fiducia nella capacità degli Stati stessi di garantire un processo equo (Sez. 5, 26885/2016).

Il nucleo centrale della questione controversa è relativo alla possibilità di collegare, in base alla Convenzione di Strasburgo del 21/3/1983, al riconoscimento in Italia ai fini dell’esecuzione di una sentenza penale straniera di condanna effetti giuridici più gravi di quelli che il detenuto avrebbe subito, là dove l’esecuzione della pena fosse stata attuata nello Stato a quo. In questa logica, afferma il ricorrente, risulterebbe anche ininfluente il consenso dell’esecutando poiché, se costui si fosse reso conto degli effetti negativi che il consenso prestato avrebbe comportato, giammai lo avrebbe reso permettendo l’esecuzione della decisione di condanna nello Stato ad quem.

Il perimetro della questione da decidere si incentra, pertanto, su tale questione e sulla sussistenza del presupposto  –  intervenuto il riconoscimento di una sentenza penale straniera con relativo trasferimento – per addivenire alla revoca dei benefici indicati, verificando se l’esecuzione anzidetta nello Stato di trasferimento si risolva, innanzitutto, in una applicazione più gravosa della pena rispetto a quella che l’esecutando avrebbe subito in caso di attuazione di essa pena nello Stato in cui è stata emessa la sentenza poi riconosciuta.

Il principio del divieto di attuazioni più gravose trova fondamento negli artt. 735 comma 3 e 10, paragrafo 2, della Convenzione di Strasburgo del 1983, oltre che nell’art. 10, comma 5, D. Lgs. 161/2010 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2008/909/GAI relativa all’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea).

Sulla scorta di quanto indicato dalle disposizioni richiamate è evidente che il profilo di maggiore gravità esecutiva della pena afferisce alla durata o alle modalità di esecuzione della pena stessa e si incentra sulla misura o sulle modalità esecutive della pena inflitta. Nella specie, pertanto, la “pena inflitta” corrisponde esattamente a quella che il giudice italiano, all’esito del riconoscimento e del trasferimento ha messo in esecuzione, con la conseguenza che non v’è alcuna violazione del principio di pari gravità e afflittività della sanzione da eseguire in caso di riconoscimento delle sentenze penali straniere.

Quanto al rispetto del principio di specialità correttamente il giudice a quo ha ritenuto non sussistente alcuna violazione di esso, né la motivazione resa presenta i denunciati aspetti di illogicità manifesta o di violazione di legge.

Nella specie è stata individuata, infatti, come normativa regolatrice quella di cui al D. Lgs. 161/2010. Invero, gli artt. 731 e ss. assumono carattere residuale per effetto del disposto di cui all’art 696 e la Convenzione di Strasburgo del 1983 cede il passo alla disciplina di cui al D. Lgs. anzidetto con cui la normativa interna dello Stato italiano si è, appunto, conformata alle regole dell’Unione Europea.

Il principio di specialità, egualmente previsto anche dall’art. 18 del D. Lgs 161/2010, si applica anche nei casi di trasferimento dall’estero per l’esecuzione della pena e si traduce nel divieto di sottoporre il condannato trasferito ad esecuzione di pena, per fatti anteriormente commessi rispetto allo stesso trasferimento, salvo che risulti il consenso della persona al trasferimento. Con la conseguenza che, là dove il soggetto abbia prestato consenso al trasferimento può essere sottoposto a esecuzione anche per fatti anteriori al trasferimento stesso.

Né valgono i riferimenti alla mancata comprensione delle conseguenze che sarebbero scaturite dal consenso al trasferimento, conseguenze che, se note, giammai avrebbero indotto a prestare consenso alcuno da parte del detenuto. Si deve sul punto egualmente osservare che si tratta di rilievi di decisa valenza fattuale che non permettono a questa Corte alcuno scrutinio e che non possono essere dedotti in sede di legittimità, attenendo essenzialmente al merito della vicenda e risultando superati, contrariamente, dalla dichiarazione cui il giudice a quo ha fatto riferimento, resa alle anzidette autorità straniere, con cui si è dato consenso al trasferimento in territorio italiano per l’esecuzione.

Del resto, è appena il caso di aggiungere che le conseguenze ulteriori e legate alla revoca dei benefici concessi al ricorrente risultano discendere direttamente dalla legge come effetti automatici, trattandosi, appunto, di una revoca della sospensione condizionale della pena di diritto e, dunque, operante ope legis per effetto del materializzarsi della condizione revocatoria oltre che, egualmente, di una causa automatica di revoca del condono delle pene, per effetto della reiterazione di delitti qualificanti.

Dette condizioni, realizzate all’esito dell’intervenuto riconoscimento della decisione di condanna straniera, hanno determinato l’effetto della revoca dei benefici stessi su cui non residuavano margini di discrezionalità e che si collocavano come conseguenze “dovute” all’esito dell’intervenuto riconoscimento della sentenza penale straniera. Invero, riconoscimento siffatto se, da un lato, “legittima” la decisione nello Stato ad quem e ne permette l’esecuzione, con il trasferimento cui abbia dato consenso il condannato, dall’altro, involge che esso riconoscimento e consenso al trasferimento determini tutte le conseguenze di legge che dal titolo “legittimato” discendono. Prima fra esse è la “rimozione” di benefici eventualmente e precedentemente concessi con altri titoli e rispetto ai quali la sentenza riconosciuta accerta la causa di revoca.

Non vale, dunque, –  in presenza del consenso prestato al trasferimento e all’esecuzione nello Stato ad quem della decisione straniera – opporre che non vi sarebbe adesione anche all’esecuzione delle pene che risultano all’esito della revoca di eventuali benefici precedentemente riconosciuti.

In questo caso, proprio il consenso prestato ab initio al trasferimento in relazione alla sentenza “madre” inibisce l’applicazione del principio di specialità e si estende a tutte le conseguenze che nello Stato ad quem da essa decisione discendono, come effetti legali o connessi a provvedimenti di revoca che traggono scaturigine proprio dalla statuizione di condanna “riconosciuta” (Sez. 1, 47071/2018).

Per quanto interessa i rapporti fra giurisdizione italiana e svizzera ai fini dell’esecuzione, in tali Stati, delle sentenze penali di condanna da esse rispettivamente emesse, l’art. 10 della Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate adottata il 21 marzo 1983 (sottoscritta anche da Italia e  Svizzera) e ratificata con L. 334/1988, prevede che lo Stato di esecuzione della pena è vincolato quanto alla natura giuridica ed alla durata della sanzione così come stabilite dallo Stato di condanna, salvo il limite della compatibilità con la legge dello Stato di esecuzione quanto alla natura ed alla durata stessa della pena.

La disciplina dettata dal codice di procedura penale in tema di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, per quanto interessa i rapporti fra Italia e Stati non membri dell’Unione europea, ha come principio direttivo quello della prevalenza delle convenzioni e del diritto internazionale generale (art. 696, comma 2); nel riconoscere ai fini della loro esecuzione in Italia due o più sentenze di condanna emesse da AG di Stato non membro dell’Unione europea, è precluso al giudice del riconoscimento l’applicazione dell’istituto della continuazione, non potendo ritenersi operante per analogia il disposto dell’art. 671 (Sez. 5, 3597/1993, Di Carlo); inoltre, il principio direttivo in tema di rapporti fra Italia e Stati membri dell’Unione europea quanto agli effetti in Italia delle sentenze emesse da giudici di altri Stati membri dell’Unione è quello (art. 696, comma 1) della prevalenza delle norme dell’Unione (contenute nel Trattato sull’Unione europea, nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, negli atti normativi adottati in attuazione dei medesimi); disciplina non dissimile da quella recata dalla citata Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983 (costituente fonte di diritto interno per effetto dell’ordine di esecuzione recato dalla legge n. 334 del 1988), si rinviene nell’art. 10, comma 1, lett. f), del D.Lgs. 161/2010, di attuazione della decisione quadro 2008/909/GAI sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale, ai fini della loro esecuzione nell’Unione europea, che, nel caso di trasmissione dall’estero, vincola il giudice italiano a rispettare la durata e la natura della pena stabilita dallo Stato di condanna, membro dell’Unione europea, salvo il caso della loro incompatibilità con la legge italiana (ricorrendo il quale è consentito un circoscritto potere di adattamento simile a quello previsto dall’art. 10 della citata Convenzione di Strasburgo; v. anche art. 8 della decisione quadro); pertanto, anche nel caso di riconoscimento, ai fini della loro esecuzione in Italia, di due o più sentenze emesse da AG di uno Stato membro dell’Unione europea, è precluso al giudice italiano che quel riconoscimento attui l’applicazione della disciplina legale interna della continuazione, essendo egli vincolato a rispettare la durata e la natura della pena stabilita nello Stato di condanna (Sez. 6, 52235/2017); nello stesso ordine di concetti, la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere non applicabile in sede di esecuzione (art. 671) la disciplina di cui all’art. 81, comma 2, Cod. pen. tra reato giudicato in Italia e reato giudicato con sentenza straniera riconosciuta nell’ordinamento italiano, non essendo l’ipotesi del vincolo della continuazione contemplata tra quelle cui può essere finalizzato il riconoscimento della sentenza ai sensi dell’art. 12, comma 1, Cod. pen. (Sez. 5, 8365/2014); in conclusione, il giudice dell’esecuzione, al pari del giudice che il riconoscimento di tali sentenze effettuò in funzione della loro esecuzione in Italia, non può applicare la norma recata dall’art. 81, comma 2, Cod. pen. quanto ai reati accertati ed alle pene inflitte dal giudice elvetico, essendo obbligato, per vincolo derivato dal precetto contenuto nell’art. 10 della Convenzione di Strasburgo del 21 marzo 1983, resa esecutiva con legge n. 334 del 1988, al rispetto della natura giuridica e della misura della sanzione così come stabilite dall’AG elvetica (Sez. 1, 16146/2018).

La Convenzione di Strasburgo sul trasferimento delle persone condannate prevede che gli Stati aderenti possano optare per uno dei due regimi indicati nell’art. 9 della stessa per dare esecuzione alla sentenza di condanna straniera: quello della “conversione” della condanna, che implica una autonoma sostituzione (se pur con alcuni limiti indicati all’art. 11) della sanzione inflitta con altra prevista dallo Stato di esecuzione per lo stesso reato; ovvero quello della “continuazione” della condanna, in base al quale lo Stato d’esecuzione è vincolato (salve, anche in tal caso, talune eccezioni indicate all’art. 10) dalla natura giuridica e dalla durata della sanzione quali risultano dalla sentenza straniera.

Lo Stato italiano, in sede di ratifica della Convenzione, ha dichiarato di applicare il secondo dei descritti regimi. L’art. 3 L. 257/1989, di esecuzione della suddetta Convenzione, stabilisce infatti che, “nel determinare la pena, la corte di appello applica i criteri previsti nell’articolo 10 della convenzione” e che solo nel caso in cui l’entità della pena non sia stabilita nella sentenza straniera, “la corte la determina sulla base dei criteri indicati negli articoli 133, 133-bis e 133-ter del codice penale”.

Pertanto, a differenza di quanto dispone il codice di rito all’art. 735 (la cui applicazione è, ex art. 696, comma 3, condizionata al presupposto che manchino o non dispongano diversamente le convenzioni in vigore per lo Stato), il giudice non deve “convertire” la pena inflitta dal giudice straniero, ma deve semplicemente recepirla, fatti salvi i limiti indicati dall’art. 10 della citata Convenzione che possono giustificare un circoscritto “adattamento” della sanzione stessa.

È opportuno precisare al riguardo che l’adattamento della pena, previsto dal citato art. 10 della Convenzione, presuppone in ogni caso l’ipotesi estrema in cui la continuazione della pena non sia giuridicamente possibile in quanto la natura o la durata della sanzione inflitta dallo Stato di condanna si presentino incompatibili con la legislazione di quest’ultimo: in tal caso, lo Stato di esecuzione può, mediante una decisione giudiziaria o amministrativa, adattare questa sanzione alla pena o alla misura previste dalla propria legge per “reati della stessa natura”; quanto alla natura, tale pena o misura deve corrispondere, per quanto possibile, a quella inflitta dalla condanna da eseguire; in ogni caso, essa non può aggravare, per sua natura o durata, la sanzione pronunciata nello Stato di condanna né eccedere il massimo previsto dalla legge dello Stato d’esecuzione.

Quindi il presupposto perché si faccia luogo all’adattamento della pena in quella prevista dalla legge dello Stato di esecuzione “per reati della stessa natura” è pur sempre che la sanzione inflitta dallo Stato di condanna sia “incompatibile” per durata e natura con la legislazione dello Stato di esecuzione.

Si tratta di “una griglia a maglie ben definite e strette” (Sez. 6, 2195/2006), che se da un lato non consente di far rilevare la diversità dei limiti edittali rispettivamente previsti per il fatto-reato dalle due legislazioni (in tal senso si è pronunciata la citata sentenza), dall’altro richiede soltanto che la pena inflitta non sia diversa per natura o più lunga di quella edittale prevista dallo Stato di esecuzione per lo stesso reato, dovendo in caso contrario essere adattata con quella “equivalente più vicina” a quella prevista dalla legge dello Stato di condanna, purché non più grave o lunga (in tal senso si è espressa la Raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa n. 11 del 21 giugno 1984 sull’applicazione della citata Convenzione)  (la riassunzione si deve a Sez. 6, 14505/2018).

In tema di rogatorie internazionali all’estero, l’acquisizione di copie, non singolarmente autenticate, di atti investigativi non rende tali atti inutilizzabili, considerato che, in base alla consolidata prassi internazionale instauratasi in materia, che prevale rispetto agli enunciati testuali degli artt. 696 comma 1 e 729 comma 1, l’atto formale di trasmissione da parte dell’autorità straniera richiesta garantisce implicitamente l’autenticità e la conformità degli atti trasmessi in semplice fotocopia (Sez. 6, 46249/2016).

In tema di rogatorie internazionali all’estero, la disciplina del codice di rito, pur dopo la novella operata con la L. 367/2001, e le disposizioni della Convenzione in materia di assistenza giudiziaria in ambito europeo non impongono che i documenti provenienti da un Paese aderente alla Convenzione del Consiglio d’Europa, per essere ritualmente acquisiti, siano forniti ciascuno di una certificazione di autenticità, perché è la stessa trasmissione, per mezzo degli ordinari canali codificati anche nella concreta prassi applicativa, a costituire rituale risposta alla richiesta di assistenza giudiziaria” (Sez. 6, 33519/2006).

Per il principio di prevalenza delle convenzioni internazionali, rammentato dall’art. 696, l’art. 715 viene in applicazione solo nei limiti di compatibilità con la convenzione europea di estradizione del 1957, applicabile nel caso in esame, che nella specie prevede all’art. 16 le modalità per avanzare la domanda di arresto provvisorio, tra le quali anche quella della diramazione tramite Interpol (organismo che veicola la domanda di arresto provvisorio, avente le caratteristiche previste dalla convenzione, attraverso i cosiddetti «avvisi rossi» (Sez. 6, 24572/2017).

In tema di estradizione per l’estero, fatto salvo il disposto di cui all’art. 696, comma 2, l’intervento dello Stato richiedente è consentito fino a quando non siano compiuti gli adempimenti relativi al controllo della regolare costituzione delle parti nel procedimento camerale dinanzi alla Corte d’appello.

Deve infine rilevarsi che, pur non essendo formalmente prevista un’opposizione all’intervento dello Stato richiedente, come invece accade nel procedimento, l’estradando può senz’altro richiamare l’attenzione dell’Autorità procedente sulla eventuale mancanza dei requisiti  –  ed in primo luogo della condizione di reciprocità  –  cui il legislatore subordina la partecipazione dello Stato estero, con la conseguenza che, ove le condizioni ed i presupposti di legittimità dell’atto di intervento risultino mancanti, la Corte d’appello deve disporre l’esclusione del rappresentante (Sez. 6, 14237/2017).