Art. 630 - Casi di revisione
1. La revisione può essere richiesta:
a) se i fatti stabiliti a fondamento della sentenza o del decreto penale di condanna non possono conciliarsi con quelli stabiliti in un’altra sentenza penale irrevocabile del giudice ordinario o di un giudice speciale;
b) se la sentenza o il decreto penale di condanna hanno ritenuto la sussistenza del reato a carico del condannato in conseguenza di una sentenza del giudice civile o amministrativo, successivamente revocata, che abbia deciso una delle questioni pregiudiziali previste dall’articolo 3 ovvero una delle questioni previste dall’articolo 479;
c) se dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’articolo 631;
d) se è dimostrato che la condanna venne pronunciata in conseguenza di falsità in atti o in giudizio o di un altro fatto previsto dalla legge come reato.
Rassegna giurisprudenziale
Casi di revisione (art. 630)
È costituzionalmente illegittimo l’art. 630 nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, paragrafo 1 CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte costituzionale, sentenza 113/2011).
È ammissibile la revisione della sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, condanni l’imputato al risarcimento del danno in favore della parte civile (SU, udienza del 25.10.2018, allo stato disponibile la sola informazione provvisoria).
In tema di revisione, con riguardo alla specifica previsione di cui all’art. 630, lett. c), quando le nuove prove offerte dal condannato (costituite, nella specie, da testimonianze), abbiano natura speculare e contraria rispetto a quelle già acquisite e consacrate nel giudicato penale, il giudice della revisione può e deve saggiare mediante comparazione la resistenza di queste ultime rispetto alle prime giacché, altrimenti, il giudizio di revisione si trasformerebbe indebitamente in un semplice e automatico azzeramento, per effetto delle nuove prove, di quelle a suo tempo poste a base della pronuncia di condanna (Sez. 4, 24291/2005).
Le prove nuove idonee a sostenere una richiesta di revisione ex art. 630 comma 1, lett. c), non possono consistere nelle dichiarazioni liberatorie di un coimputato, atteso che tali dichiarazioni soggiacciono alle limitazioni valutative dettate dall’art. 192 commi 3 e 4, che attribuisce ad esse la natura di semplici elementi di prova non suscettibili di valutazione autonoma, potendo le stesse essere prese in considerazione solo unitamente agli altri elementi che ne confermano l’attendibilità (Sez. 6, 2943/2000).
Ai fini dell’accoglimento o meno della richiesta di revisione, quando il giudicato di condanna si fonda soprattutto su prove testimoniali, ove queste abbiano concorso a formare il libero convincimento del giudice, solo la dimostrazione (positiva) della loro falsità è suscettibile di essere utilizzata come supporto ad una richiesta di revisione della sentenza, e non già il mero dubbio postumo della loro affidabilità (Sez. 3, 1554/1999).
L’art. 630 comma 1 lettera c) prevede che la revisione può essere richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, “dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631”. Questa seconda disposizione impone che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere tali da dimostrare, ove accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli articoli 529, 530 o 531, ovvero perché l’azione non doveva essere iniziata o proseguita; perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; perché il reato è stato commesso da non imputabile o da soggetto non punibile per altra ragione, o il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità; o, infine, perché il reato è estinto. Risulta evidente che un vizio nella costituzione del rapporto processuale in capo all’imputato non può mai condurre ad una sentenza di proscioglimento. D’altronde, simili ipotesi sono oggetto di una disciplina specifica, che mira a garantire il giusto processo a chi, pur in caso di procedimenti di notificazione non più contestabili, non abbia avuto, ed incolpevolmente, conoscenza del processo: la restituzione nel termine di cui all’art. 175, comma 2, nel caso di decreto penale di condanna, e la rescissione del giudicato prevista dall’art. 629- bis (Sez. 7, 42743/2018).
Mette conto ripercorrere, in sintesi, l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità circa l’attitudine degli accertamenti tecnico-scientifici ad assumere valenza di prova nuova ex art. 630, comma 1, lett. c). Il più risalente indirizzo si muoveva all’interno di coordinate che escludevano in radice l’idoneità di una diversa e nuova valutazione tecnico-scientifica dei dati già noti ad integrare la prova nuova ai fini della revisione: si affermava, infatti, che siffatta valutazione è destinata a risolversi in apprezzamenti critici di elementi già conosciuti e valutati nel giudizio, come tali inammissibili (Sez. 2, 5494/1995), ossia nella reiterazione di apprezzamenti critici in ordine a dati ontologici ed emergenze oggettive già conosciuti e apprezzati nel giudizio, in violazione del principio dell’improponibilità, mediante la revisione, di ulteriori prospettazioni di situazioni già constatate (Sez. 1, 1095/1998). Nei termini indicati, l’orientamento più risalente svalutava il dinamismo intrinseco alla ricerca scientifica e il suo procedere attraverso progressive falsificazioni: sotto questo profilo, l’orientamento più risalente «rifiuta l’idea che nella nozione di scienza sia insito il concetto di fallibilità, di relatività, di evoluzione; rifugge il metodo della smentita e della falsificabilità, nonché la ricerca e la valutazione di altre differenti ricostruzioni del fatto storico al fine di dimostrare che le alternative non sono ragionevolmente configurabili; non accetta la prospettiva che l’utilizzazione di un diverso metodo, pur se applicato agli stessi elementi, possa produrre esiti affatto diversi; rifugge la dimostrazione dell’applicabilità di leggi scientifiche alternative che diano al fatto provato una spiegazione differente» (Sez. 1, 15139/2011). In questa prospettiva (e fermo restando il limite invalicabile posto dall’art. 637, comma 3, in forza del quale, in sede di revisione, il proscioglimento non può essere pronunciato esclusivamente sulla base di una diversa valutazione delle prove assunte nel precedente giudizio), si apprezza l’approdo della giurisprudenza di legittimità verso una ridefinizione della valenza della valutazione tecnico-scientifica: si è infatti affermato che, ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione, una diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti ai periti e al giudice può costituire “prova nuova” ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), quando risulti fondata su nuove metodologie, dal momento che la novità di queste ultime e, correlativamente, dei principi tecnico-scientifici applicati, può, in effetti, condurre alla conoscenza non solo di valutazioni diverse, ma anche di veri e propri fatti nuovi, a condizione che si tratti di applicazioni tecniche accreditate e rese pienamente attendibili dal livello del sapere acquisito dalla comunità scientifica. Se, dunque, costituisce “prova nuova” quella che mira ad introdurre elementi di fatto diversi da quelli già presi in considerazione nel precedente giudizio (Sez. 6, 53428/2014), alla stessa conclusione deve giungersi con riferimento alla diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali, quando risulti fondata su nuove metodologie, più raffinate ed evolute idonee a cogliere dati obiettivi nuovi, sulla cui base vengano svolte differenti valutazioni tecniche (Sez. 6, 13930/2017). Di qui, una duplice, ulteriore conclusione: in primo luogo, il superamento – ovviamente alle condizioni indicate – di quello che in dottrina è stato indicato come il dogma della “non novità” di una perizia, posto che, come affermato da questa Corte, una perizia può costituire prova nuova se, appunto, basata su nuove acquisizioni scientifiche idonee di per sé a superare i criteri adottati in precedenza e, quindi, suscettibili di fornire sicuramente risultati più adeguati (Sez. 6, 34531/2013); in secondo luogo, il rilievo che anche le prove incidenti su un tema già divenuto oggetto di indagine nel corso della cognizione ordinaria possono rivestire carattere di novità ai fini del giudizio di revisione, purché siano fondate su tecniche diverse e innovative, tali da fornire risultati non raggiungibili con le metodiche in precedenza disponibili, sicché la novità della prova scientifica può essere correlata all’oggetto stesso dell’accertamento oppure al metodo scoperto o sperimentato successivamente a quello applicato nel processo ormai definito, di per sé idoneo a produrre nuovi elementi fattuali (la riassunzione si deve a Sez. 5, 10523/2018).
Il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’articolo 630, comma primo, lettera a) non deve essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui si fondano le diverse sentenze (Sez. 3, 30678/2018).
In tema di giudizio di revisione, nel caso in cui la richiesta si fondi sull’inconciliabilità tra giudicati ai sensi dell’art. 630, comma primo, lett. a), il controllo giurisdizionale che può condurre alla declaratoria dell’inammissibilità dell’istanza per manifesta infondatezza deve avere ad oggetto la verifica dell’irrevocabilità della sentenza che si vuole abbia introdotto il fatto antagonista e la mera pertinenza di tale decisione ai fatti oggetto del giudizio di condanna, non potendo tale controllo estendersi alla “tenuta” della sentenza oggetto della domanda di revisione rispetto ai contenuti della ulteriore pronuncia, che va obbligatoriamente realizzato in contraddittorio (Fattispecie nella quale il richiedente aveva allegato due pronunce delle quali una lo aveva condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. mentre l’altra lo aveva assolto per il medesimo reato relativo allo stesso periodo di tempo interessato dalla prima sentenza. La Corte, ritenendo che la corte di appello aveva rilevato la manifesta infondatezza della richiesta di revisione entrando illegittimamente nel merito delle due sentenze allegate, ha disposto l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio alla corte di appello competente per nuovo esame). (Sez. 2, 3450/2021).
In tema di revisione il concetto di inconciliabilità tra sentenze irrevocabili non deve essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni, ma come oggettiva incompatibilità tra gli accertati elementi di fatto su cui esse si fondano. Conseguentemente, la sentenza passata in giudicato ha un’efficacia preclusiva soltanto nei confronti del medesimo imputato e in relazione al medesimo fatto, mentre non sussistono rimedi in caso di contrasto sostanziale di giudicati formatisi - come nel caso di specie - sullo stesso fatto in procedimenti diversi per imputati diversi; pertanto, il contrasto di giudicati rilevante ai fini della revisione di una sentenza definitiva non ricorre nell’ipotesi in cui lo stesso verta sulla valutazione giuridica dello stesso fatto operata da giudici diversi (Sez. 2, 40344/2019).
Ai fini dell’ammissibilità della richiesta di revisione, una diversa valutazione tecnico-scientifica di elementi fattuali già noti può costituire “prova nuova”, ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), quando risulti fondata su nuove metodologie, più raffinate ed evolute, idonee a cogliere dati obiettivi nuovi, sulla cui base vengano svolte differenti valutazioni tecniche (Sez. 6, 13930/2017), gravando comunque sull’istante l’onere di specifica allegazione in ordine alla novità del metodo applicato ed alla capacità di quest’ultimo di divenire strumento di apprensione di dati nuovi (Sez. 5, 12751/2011). È, dunque, necessario che il mezzo di prova abbia attitudine alla rilettura dei dati scientifici in termini tali da consentirne diverse valutazioni tecniche (Sez. 5, 14255/2013), mentre non può costituire prova “nuova” una diversa valutazione tecnica o scientifica di dati già valutati, in quanto quest’ultima si traduce in un apprezzamento critico di emergenze già conosciute e delibate nel procedimento, sostanziandosi in una mera “rilettura” di un medesimo dato di fatto già processualmente accertato in via definitiva (Sez. 6, 53428/2014) (la riassunzione si deve a Sez. 5, 10091/2018).
Per l’ammissibilità della richiesta di revisione basata sulla prospettazione di una nuova prova, il giudice deve valutare non solo l’affidabilità della stessa, ma anche la sua persuasività e congruenza nel contesto probatorio già acquisito nel giudizio di cognizione, del quale occorre quindi identificare il tessuto logico-giuridico (Sez. 1, 20196/2013).
In tema di revisione, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta, il preliminare esame della Corte di appello circa il presupposto della non manifesta infondatezza deve limitarsi a una sommaria delibazione dei nuovi elementi di prova addotti e della loro astratta idoneità, sia pure attraverso una necessaria disamina del loro grado di affidabilità e di conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione alla loro potenziale efficacia di incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e sul connesso giudizio di colpevolezza, essendo invece ad essa preclusa, in tale stadio, una approfondita valutazione che comporti un’anticipazione del giudizio di merito, avulsa dal contraddittorio fra le parti e fondata su prove non ancora compiutamente acquisite (Sez. 6, 58099/2017).
Univoci, nella elaborazione del Giudice delle leggi e nella giurisprudenza di legittimità sono l’ambito di operatività e i limiti del contrasto tra giudicati che può dare luogo ad un caso di revisione ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a). Nella prospettiva della Corte delle leggi si è affermato che “il contrasto, che legittima - e giustifica razionalmente - l’istituto della revisione (per come esso è attualmente disciplinato) non attiene alla difforme valutazione di una determinata vicenda processuale in due diverse sedi della giurisdizione penale. Esso ha la sua ragione d’essere esclusivamente nella inconciliabile alternativa ricostruttiva che un determinato accadimento della vita - essenziale ai fini della determinazione sulla responsabilità di una persona, in riferimento ad una certa regiudicanda - può aver ricevuto all’esito di due giudizi penali irrevocabili”. “D’altra parte, - prosegue la Corte Costituzionale - ove così non fosse, la revisione, da rimedio impugnatorio straordinario, si trasformerebbe in un improprio strumento di controllo (e di eventuale rescissione) della “correttezza”, formale e sostanziale, di giudizi ormai irrevocabilmente conclusi. Non è la erronea (in ipotesi) valutazione del giudice a rilevare, ai fini della rimozione del giudicato; bensì esclusivamente “il fatto nuovo” (tipizzato nelle varie ipotesi scandite dall’art. 630 del codice di rito), che rende necessario un nuovo scrutinio della base fattuale su cui si è radicata la condanna oggetto di revisione”. Anche secondo una affermazione costante della giurisprudenza di legittimità, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili, evocato dall’art. 630, comma 1, lettera a), non può essere inteso in termini di contraddittorietà logica tra le valutazioni effettuate nelle due decisioni. Tale concetto deve, invece, essere inteso in termini di oggettiva incompatibilità tra i “fatti” – ineludibilmente apprezzati nella loro dimensione storico-naturalistica – su cui si fondano le diverse sentenze”. Uniformi decisioni di legittimità hanno affermato e ribadito che ciò che è emendabile, attraverso il giudizio di revisione, è l’errore di fatto e non la valutazione del fatto, che costituisce l’essenza della giurisdizione, sicché non è ammissibile, per esempio, l’istanza di revisione che fa perno sul fatto che lo stesso quadro probatorio sia stato diversamente utilizzato per assolvere un imputato e condannare un concorrente nello stesso reato in due diversi procedimenti e che il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’art. 630, comma 1, lett. a), non deve essere inteso in termini di mero contrasto di principio tra due sentenze, bensì con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici su cui queste ultime si fondano (Sez. 6, 58099/2017).
In tema di revisione, il concetto di inconciliabilità fra sentenze irrevocabili di cui all’art. 630, comma primo, lett. a), deve essere inteso con riferimento ad una oggettiva incompatibilità tra i fatti storici stabiliti a fondamento delle diverse sentenze, non già alla contraddittorietà logica tra le valutazioni operate nelle due decisioni; ne consegue che gli elementi in base ai quali si chiede la revisione devono essere, a pena di inammissibilità, tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve esser prosciolto e, pertanto, non possono consistere nel mero rilievo di un contrasto di principio tra due sentenze che abbiano a fondamento gli stessi fatti (Sez. 2, 53950/2018).
In tema di revisione, per prove nuove rilevanti a norma dell’art. 630 lett. c) ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte di quest’ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario. A tanto va aggiunto che la presunzione di legale conoscenza di un atto vale nel giudizio civile, ma non anche in quello penale, dove, discutendosi della libertà personale, occorre la prova della conoscenza effettiva, per poterne inferire conclusioni sfavorevoli al destinatario dell’atto (Sez. 5, 12763/2020).
Non è ammessa la revisione della sentenza di condanna fondata sugli stessi dati probatori utilizzati dalla sentenza di assoluzione nei confronti di un concorrente nello stesso reato e pronunciata in un diverso procedimento, in quanto la revisione giova a emendare l’errore di fatto e non la valutazione del fatto. Questa distinzione (tra fatti e giudizi o valutazioni) ha una sua ragion d’essere perché, se la differenza di valutazioni è connaturata all’attività giurisdizionale che trova il suo momento conclusivo in un apprezzamento – logicamente motivato ma discrezionale – sul materiale probatorio acquisito al processo, l’ordinamento non può invece consentire che i fatti, il cui accertamento costituisce la premessa del giudizio, siano ritenuti esistenti da un giudice e inesistenti da un altro giudice. Insomma la realtà fattuale utilizzata a fondamento delle decisioni giudiziarie deve essere incontrovertibile; la valutazione di questa realtà può invece essere diversa. È quindi inevitabile che, fermi restando i fatti accertati nei diversi processi, giudici diversi possano apprezzarli diversamente (Sez. 5, 10405/2015).
In tema di revisione, non costituisce prova nuova ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), il decreto di archiviazione, quale decisione allo stato degli atti, di natura endo-procedimentale, non irrevocabile, alla quale può sempre seguire la riapertura delle indagini (Sez. 2, 2933/2022).
Non può farsi rientrare tra le ipotesi di revisione della condanna, ex art. 630, la sopravvenuta inutilizzabilità delle intercettazioni poste a fondamento della decisione, non prevista da una norma del codice di procedura penale, ma 'frutto' di un overruling giurisprudenziale dettato da una sentenza delle Sezioni Unite penali della Corte di cassazione. Il mutamento di orientamento interpretativo, infatti, non costituisce di per sé fonte del diritto, ma solamente il risultato di una evoluzione esegetica, che non può travolgere il principio di intangibilità della res iudicata, espressivo dell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici esauriti (Sez. 6, 19429/2022).
Nella nozione di nuove prove rilevanti a norma dell'art. 630, comma 1, lett. c), ai fini dell'ammissibilità della relativa istanza, non rientrano quelle esplicitamente valutate dal giudice di merito, anche se erroneamente per effetto di travisamento, potendo, in tal caso, essere proposti gli ordinari mezzi di impugnazione (Sez. 1, 13057/2021).
Non è discutibile che in tema di revisione, le prove nuove, rilevanti per gli effetti di cui all’art. 630, comma 1, lett. c) siano costituite non solo da prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna, ma anche da quelle preesistenti non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite ma (purché non dichiarate inammissibili o superflue dal giudice di merito) non idoneamente considerate (SU, 624/2002).
In tema di revisione, ai fini del giudizio di ammissibilità della richiesta, il preliminare esame della Corte di appello circa il presupposto della non manifesta infondatezza deve limitarsi a una sommaria delibazione dei nuovi elementi di prova addotti e della loro astratta idoneità, sia pure attraverso la necessaria disamina del loro grado di affidabilità e di conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione alla loro potenziale efficacia di incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e sul connesso giudizio di colpevolezza, essendo invece ad essa preclusa, in tale stadio, una approfondita valutazione che comporti un’anticipazione del giudizio di merito, avulsa dal contraddittorio fra le parti e fondata su prove non ancora compiutamente acquisite (Sez. 6. 40545/2017).
È inammissibile la richiesta di revisione intesa a fare valere una causa estintiva del reato, quale ad esempio la prescrizione maturata prima della sentenza di condanna, ma non dedotta dalla parte o rilevata dal giudice e ciò perché il concetto di prova nuova non può essere dilatato fino al punto di comprendere anche la prescrizione maturata prima della decisione ma non dedotta dalla parte o rilevata dal giudice. La prescrizione, se effettivamente compiutasi, avrebbe dovuto essere dichiarata dal giudice in esito al procedimento di appello. La revisione è pur sempre un mezzo d’impugnazione straordinario e non un rimedio utilizzabile per dedurre o fare valere successivamente qualsiasi negligenza della parte o omesso rilievo del giudice (Sez. 2, 29517/2017).
Invocando l’applicazione della speciale causa di non punibilità ex art. 131-bis Cod. pen., avendo richiesto l’istante la revisione, non ci si avvede che si finisce per introdurre una domanda concettualmente incompatibile con l’istanza stessa di revisione. Invero, l’istituto di cui all’art. 630, ha come scopo finalistico quello di ottenere il proscioglimento del condannato (art. 631), unica finalità per la quale è ammesso lo stesso giudizio e la revisione delle decisioni di condanna di cui all’art. 629. Di converso, l’istituto di cui all’art. 131-bis Cod. pen., opera sul piano della punibilità e lascia sussistere, sul piano sostanziale, colpevolezza e l’antigiuridicità del fatto. Le due domande, dunque, di revisione e di applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis sono incompatibili concettualmente. Tali restano anche se formulate in subordine e alternativamente. Con la seconda, invero, volta ad ottenere la declaratoria di tenuità, si tende a superare il giudicato, oramai formatosi sulla fattispecie, così eludendo i limiti che caratterizzano la cognizione e l’intervento del giudice dell’esecuzione (Sez. 7, 16794/2017).
Il caso di revisione di cui all’art. 630 comma 1, lett. a), sussiste anche se i fatti ritenuti inconciliabili - e stabiliti a fondamento della decisione - siano contenuti in una sentenza di patteggiamento e in una sentenza emessa a seguito di giudizio ordinario. Infatti, l’art. 629, come modificato dalla L. 134/2003, prevede espressamente la revisione delle sentenze emesse ai sensi dell’art. 444, comma 2 (Sez. 2, 6289/2017).
Se non è la natura del giudizio prescelto che condiziona la praticabilità della revisione, non può sottacersi che i criteri di valutazione del materiale di indagine sono, nel patteggiamento, diversi da quelli che regolano la valutazione della prova nel dibattimento (o nel giudizio abbreviato), posto che, nel primo caso, la valutazione del giudice avviene “sulla base degli atti” ed è diretta ad escludere la sussistenza di una causa di proscioglimento a norma dell’art. 129, mentre, nel secondo caso, la cognizione del giudice è completa ed è diretta alla valutazione di ogni aspetto della regiudicanda. Ne consegue – a maggior ragione – che non possono essere i giudizi formulati intorno alla capacità dimostrativa delle prove – o, peggio ancora, intorno all’interpretazione delle norme – che possono fondare una domanda di revisione ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), invocato nella specie (Sez. 5, 10405/2015).
La revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove comporta una valutazione di queste ultime alla luce della regola di giudizio posta per il rito alternativo, con la conseguenza che le stesse devono consistere in elementi tali da dimostrare la sussistenza di cause di proscioglimento dell’interessato secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 sì come applicabile nel patteggiamento (Sez. 6, 10299/2013).
"Revisione europea"
È inammissibile il ricorso volto ad ottenere la c.d. revisione europea quando la richiesta sia relativa a situazione processuale esaurita e coperta da giudicato, in assenza di esito favorevole dinanzi alla Corte EDU da eseguire in Italia, a prescindere dalla natura pilota o ordinaria della sentenza europea richiamata a sostegno dell'istanza (La Corte ha così stabilito in merito alla posizione di uno solo dei ricorrenti mentre per l’altro ha annullato l'ordinanza impugnata in quanto questi propose ricorso alla Corte europea la quale accertò l'avvenuta compressione del diritto convenzionale al cd. giusto processo nel processo conclusosi con la condanna, e ciò per l'omessa rinnovazione in grado di appello, al cui esito la pronuncia assolutoria fu ribaltata in condanna, della prova dichiarativa) (Sez. 1, 35600/2021).