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Art. 425 - Sentenza di non luogo a procedere

1. Se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo.

2. Ai fini della pronuncia della sentenza di cui al comma 1, il giudice tiene conto delle circostanze attenuanti. Si applicano le disposizioni dell’articolo 69 del codice penale.

3. Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio.

4. Il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

5. Si applicano le disposizioni dell’articolo 537.

Rassegna giurisprudenziale

Sentenza di non luogo a procedere (art. 425)

L’obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice rispetto all’epilogo decisionale, attraverso gli strumenti di integrazione probatoria previsti dagli artt. 421-bis e 422, non attribuisce allo stesso il potere di giudicare in termini di anticipata verifica della innocenza/colpevolezza dell’imputato, poiché la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato letterale del novellato disposto dell’art. 425, comma 3, è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento (SU, 39915/2002).

Ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il criterio di valutazione per il giudice dell'udienza preliminare non è l'innocenza dell'imputato, ma l'inutilità del dibattimento, anche in presenza di elementi probatori contraddittori od insufficienti (Sez. 4, 8494/2022).

Il GUP, nel pronunciare sentenza di non luogo a procedere, a norma dell’art. 425, comma 3, deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio, non potendo procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio ed esprimere, quindi, un giudizio di colpevolezza dell’imputato ed essendogli inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate (Sez. 2, 48831/2013).

Ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il GUP deve, in presenza di fonti di prova che si prestano ad una molteplicità ed alternatività di soluzioni valutative, limitarsi a verificare se tale situazione possa essere superata attraverso le verifiche e gli approfondimenti propri della fase del dibattimento, senza operare valutazioni di tipo sostanziale che spettano, nella predetta fase, al giudice naturale (Sez. 6, 6108/2018).

Ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, il criterio di valutazione per il GUP non è l’innocenza dell’imputato, ma l’inutilità del dibattimento, anche in presenza di elementi probatori contraddittori od insufficienti, conseguendone che, in casi in cui si è di fronte a diverse ed opposte valutazioni tecniche, non spetta al GUP decidere quale perizia sia maggiormente attendibile, dovendo egli solo verificare se gli elementi acquisiti a carico dell’imputato risultino irrimediabilmente insufficienti o contraddittori, in ragione di eventuali manifeste incongruenze del contributo dell’esperto posto a sostegno dell’accusa o dell’errata piattaforma fattuale assunta ovvero della palese insipienza tecnica del metodo o dell’elaborazione (Sez. 4, 32574/2016).

Il controllo in sede di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 deve mirare solo a verificare l’osservanza del criterio prognostico adottato dal GUP nell’escludere la sostenibilità dell’accusa in giudizio e nell’ambito della competenza propria della fase dell’udienza preliminare ovvero quella di procedere ad una valutazione sommaria delle fonti di prova offerte dal PM e dalle parti (Sez. 2, 5669/2014).

La valutazione del GUP non può prescindere da quella della rilevanza penale dei fatti come ascritti.

Sul punto è costante, infatti, la giurisprudenza di legittimità nel senso di ritenere che vada dichiarato immediatamente il proscioglimento (l’inesistenza del fatto, l’irrilevanza penale, il non averlo l’imputato commesso) se ne risultano i presupposti dagli atti in modo incontrovertibile, tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

Necessita, in altri termini, che la prova dell’innocenza dell’imputato emerga “positivamente” dagli atti e senza necessità di ulteriori accertamenti (SU, 35490/2009). E laddove tale accertamento sia possibile in udienza preliminare sulla base degli atti, il giudice deve emettere sentenza di non luogo a procedere, essendo superflua la fase dibattimentale.

Né l’obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice rispetto all’epilogo decisionale, attraverso gli strumenti di integrazione probatoria previsti dagli artt. 421-bis e 422 bis, hanno attribuito al medesimo il potere di giudicare in termini di anticipata verifica della innocenza- colpevolezza dell’imputato, poiché la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori è sempre e comunque diretta a determinare, all’esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell’accusa in giudizio e, con essa, l’effettiva, potenziale, utilità del dibattimento (SU, 39915/2002) (decisioni entrambe valorizzate da Sez. 4, 851/2018).

Il GUP, ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere, deve esprimere una valutazione prognostica in ordine alla “completabilità degli atti di indagine” e alla “inutilità del dibattimento”, anche in presenza di elementi di prova contraddittori o insufficienti, dando conto del fatto che il materiale dimostrativo acquisito è insuscettibile di completamento e che il proprio apprezzamento in ordine alla prova positiva dell’innocenza o alla mancanza di prova della colpevolezza dell’imputato è in grado di resistere ad un approfondimento nel contraddittorio dibattimentale (Sez. 6, 36210/2014).

Si ammette dunque, finalmente, che le valutazioni del giudice dell’udienza preliminare possano comunque calibrarsi sui parametri dell’innocenza e della colpevolezza, sia pure nella prospettiva – in vista dell’eventuale giudizio dibattimentale – della sicura conferma della prima o dell’impossibilità di acquisire prove concrete a sostegno della seconda.

Ancor più di recente, con riferimento al tema del controllo in sede di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere, questa Corte giunge all’affermazione che esso «non deve incentrarsi su distinzioni astratte tra valutazioni processuali e valutazioni di merito, ma deve avere riguardo  come per le decisioni emesse all’esito del dibattimento  alla completezza ed alla congruità della motivazione stessa, in relazione all’apprezzamento, sempre necessario da parte del GUP, dell’aspetto prognostico dell’insostenibilità dell’accusa in giudizio, sotto il profilo della insuscettibilità del compendio probatorio a subire mutamenti nella fase dibattimentale» (Sez. 6, 29156/2015).

Ed ancora «il GUP è chiamato ad una valutazione di effettiva consistenza del materiale probatorio posto a fondamento dell’accusa, eventualmente avvalendosi dei suoi poteri di integrazione delle indagini, e, ove ritenga sussistere tale necessaria condizione minima, deve disporre il rinvio a giudizio dell’imputato, salvo che vi siano concrete ragioni per ritenere che il materiale individuato, o ragionevolmente acquisibile in dibattimento, non consenta in alcun modo di provare la sua colpevolezza».  

Così come «la regola di giudizio della udienza preliminare non è più (se lo è mai stata) limitata alla verifica superficiale che non vi siano ostacoli al rinvio a giudizio; consiste, invece, nel valutare innanzitutto la esistenza di un corpo indiziario da qualificare come “serio” e, poi ed in aggiunta, nella valutazione di una seria prospettiva di un risultato positivo per l’accusa nel dibattimento. Laddove si ammettesse il rinvio a giudizio in assenza di un minimum probatorio, si consentirebbe la sottoposizione al processo al di fuori di qualsiasi verifica della necessità di una tale compressione dei diritti della persona imputata» (Sez. 6, 33763/2015).

Tale conclusione, oltre che fondata sul rilievo della nuova formulazione del comma 3 dello stesso art. 425, appare avvalorata anche dalla disciplina dell’ordinanza per la integrazione delle indagini, di cui all’art. 421-bis: «nella introduzione di nuovi e forti poteri del giudice per l’udienza preliminare, quello di procedere alla raccolta di prove nel corso della udienza ex art. 422 è potere che può essere esercitato solo al fine di giungere al proscioglimento mentre un tale limite, invece, non è stato posto alla ordinanza per la integrazione delle indagini.

La possibilità di integrare le indagini è, ragionevolmente, un indice della necessità di acquisire un quadro probatorio minimo per il rinvio a giudizio.

La necessità di completamento delle indagini ha ragione d’essere solo se, a fronte di elementi a carico insufficienti, il giudice sia tenuto al proscioglimento.

Se non fosse necessario ottenere tale quadro probatorio minimo non vi sarebbe necessità della integrazione delle indagini: il giudice potrebbe rinviare a giudizio per il possibile sviluppo dibattimentale; ed anzi, proprio nel caso della possibilità di integrazione delle indagini, sarebbe innegabile la esistenza di uno spazio per un ulteriore sviluppo probatorio e, quindi, non vi sarebbe ragione di ritardare il rinvio a giudizio [...]. Il potere di integrazione introdotto con l’art. 421-bis, invece, appare finalizzato, laddove sia in concreto possibile, al completamento della acquisizione in caso di mancanza di un quadro probatorio minimo per giustificare il giudizio. Se bastasse la mera notizia di reato per giustificare il rinvio a giudizio, accompagnata dalla possibilità teorica di ulteriore sviluppo, tale integrazione non avrebbe alcuna possibile funzione» (questa ricognizione giurisprudenziale si deve a Sez. 5, 43619/2017).

La sentenza ex art. 425 emessa all’esito di udienza preliminare non rientra nella nozione di “altra sentenza penale irrevocabile” di cui all’art. 630, comma primo, lett. a).

La pronunzia in esame è priva dei caratteri di stabilità e di definitività che sarebbero necessari per renderla processualmente incontrovertibile e tale da scardinare un giudicato, essendo revocabile ai sensi dell’art. 434; essa inoltre non accerta “fatti”, ma valuta il diverso profilo della sostenibilità dell’accusa in giudizi (Sez. 5, 27963/2018).