Art. 624 - Furto
1. Chiunque s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da euro 154 a euro 516 (1).
2. Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico.
3. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra una o più delle circostanze di cui agli articoli 61, numero 7), e 625 (2).
(1) Comma così modificato dall’art. 2, L. 128/2001
(2) Comma aggiunto dall’art. 12, L. 205/1999.
Rassegna di giurisprudenza
Distinzione tra reato consumato e tentato
L’elemento che permette di distinguere tra fattispecie consumata e fattispecie tentata nel reato di furto va individuato nel conseguimento, anche momentaneo, o meno, in capo all’agente, dell’autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo del soggetto passivo (nella specie l’imputato, assieme ai complici, si era allontanato dall’abitazione da cui aveva sottratto la refurtiva garantendosi così la piena ed effettiva disponibilità della stessa fino all’arrivo della pattuglia della polizia) (Sez. 5, 15715/2018).
Impossessamento
Il furto è integrato dalla realizzazione dell’impossessamento. È sufficiente che la cosa mobile altrui passi, anche solo temporaneamente, dalla disponibilità del detentore a quella del ladro (Sez. 5, 7047/2009).
Nei supermercati con sistema a self-service lo spossessamento si perfeziona con l’apprensione e l’occultamento della merce, salvo che l’avente diritto o persona da lui incaricata abbia sorvegliato l’intera azione furtiva, così da poterla interrompere in qualsiasi momento, ricorrendo in tal caso solo il tentativo (Sez. 5, 7042/2011).
Cosa mobile altrui
Per cosa mobile – secondo la nozione desumibile, nella sua massima estensione, dall’art. 624 cpv. – deve intendersi qualsiasi entità di cui in rerum natura sia possibile una fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro o perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure perché può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione.
In altre parole, la nozione penalistica di cosa mobile non coincide con quella civilistica, rivelandosi per certi aspetti più ridotta e, per altri, più ampia: è più ridotta, laddove non considera cose mobili le entità immateriali – come, appunto, le opere dell’ingegno e i diritti soggettivi – che, invece, l’art. 813 CC, assimila ai beni mobili; è più ampia, laddove comprende beni che, originariamente immobili o costituenti pertinenze di un complesso immobiliare (queste ultime assoggettate dall’art. 818 CC, al regime dei beni immobili), siano mobilizzati, divenendo quindi asportabili e sottraibili e, pertanto, potenzialmente oggetto di appropriazione.
Ulteriore conferma di ciò si desume – come sopra si è accennato – dall’art. 624 cpv., che considera cosa mobile anche l’energia, elettrica o di altra natura, munita di valore economico. Ma, come si è visto, il legislatore non si è spinto oltre, mantenendo costante il requisito di base della naturalistica fisicità della cosa mobile nella sua accezione penalistica, né il principio di stretta legalità consente di estendere ulteriormente la nozione anche alla proprietà industriale (Sez. 2, 53373/2018).
Fine del profitto
Il concetto di profitto deve essere inteso in senso ampio, in modo da comprendervi non solo il vantaggio di natura puramente economica, ma anche quello di natura non patrimoniale, realizzabile con l’impossessamento della cosa mobile altrui. Il fine di profitto, in cui si concretizza il dolo specifico, non deve individuarsi esclusivamente nella volontà di trarre un’utilità patrimoniale dal bene sottratto, ma può anche consistere nel soddisfacimento di un bisogno psichico e rispondere, quindi, a una finalità di dispetto, ritorsione o vendetta. In base ai suddetti principi è stata ritenuta l’ipotesi del furto in un caso nel quale l’agente aveva sottratto un’agendina telefonica dalle mani della vittima, al solo scopo di impedire a quest’ultima di fare una telefonata, oppure nella sottrazione di un bene al solo scopo di fare una cosa sgradita al detentore. In senso diverso qualche pronunzia ha osservato che il fine di profitto, che integra il dolo specifico del reato, va interpretato in senso restrittivo, e cioè come possibilità di fare uso della cosa sottratta in qualsiasi modo apprezzabile sotto il profilo dell’utilità intesa in senso economico/patrimoniale.
È stato, così, precisato che l’accoglimento di una nozione dilatata del concetto di profitto – che sarebbe ravvisabile anche nel soddisfacimento di un bisogno psichico o, in genere, nell’acquisizione di un vantaggio o un’utilità non patrimoniale – si presta alla considerazione critica di trascurare il dato letterale e sistematico dell’inserimento del furto nei delitti contro il patrimonio, che costituisce il bene/interesse tutelato dalla norma, apparendone problematica la coerente collocazione nell’ambito dei criteri ermeneutici dell’interpretazione letterale della legge e della volontà del legislatore.
Nello stesso solco critico è stato, per altro verso, osservato dalla dottrina che un’eccessiva espansione della nozione di profitto, estesa fino a raggiungere qualsiasi utilità soggettivamente ritenuta apprezzabile, arrivando ad identificare lo scopo di lucro previsto nella fattispecie astratta con la generica volontà di tenere per sé la cosa, può comportare, in definitiva, l’annullamento della previsione normativa, che implica la necessità del dolo specifico. Ed in tal senso è stato chiarito che proprio il fine di profitto assolve ad una funzione di limite dei fatti punibili a titolo di furto e, nel contempo, individua una linea di confine tra il furto ed altre figure di reato, non caratterizzate dallo scopo di profitto da parte dell’agente (Sez. 5, 5467/2019).
Applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto
La presenza di un pericolo di danno esiguo, la non abitualità della condotta ed il positivo comportamento post-delictum sono elementi che consentono di ritenere la sussistenza della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (nella specie, relativa al furto di generi alimentari e saponette per un valore complessivo di 39 Euro, la Corte ha ritenuto sussistente la particolare tenuità del fatto) (Sez. 4, 29744/2017).
Cause di giustificazione
Integra l’ipotesi dello stato di necessità la condotta dell’imputato, soggetto privo di dimora e di occupazione, che si era impossessato di due porzioni di formaggio ed una confezione di wurstel del valore complessivo di quattro euro, a fronte del pagamento di una confezione di grissini, atteso che le condizioni del soggetto e le modalità dell’impossessamento dimostrano che l’imputato si impossessò di quel poco cibo per far fronte ad una immediata ed imprescindibile esigenza di alimentarsi (Sez. 5, 18248/2016).
Rapporto con altre fattispecie
Il furto si distingue dall’appropriazione indebita poiché quest’ultima presuppone il preesistente possesso della cosa altrui (Sez. 6, 32543/2007).
Nel caso di appropriazione di cose che, come gli assegni, le carte di credito o il telefono mobile, conservino chiari ed intatti i segni esteriori di un legittimo possesso altrui, il venir meno della relazione materiale fra la cosa ed il suo titolare non implica la cessazione del potere di fatto di quest’ultimo sul bene smarrito, con la conseguenza che colui che se ne appropria senza provvedere alla sua restituzione commette il reato di furto e non quello di appropriazione di cose smarrite (Sez. 2, 17558/2020).