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Art. 582 - Lesione personale (1)

1. Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punitocon la reclusione da sei mesi a tre anni (2).

2. Se la malattia ha una durata non superiore ai venti giorni e non concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste negli articoli 583 e 585, ad eccezione di quelle indicate nel numero 1 e nell'ultima parte dell'articolo 577, il delitto è punibile a querela della persona offesa (3).

(1) Al reato previsto in questo articolo si applica, ora, la pena pecuniaria della multa da euro 516 a euro 2.582 o la pena della permanenza domiciliare da quindici giorni a quarantacinque giorni ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità da venti giorni a sei mesi, ai sensi di quanto disposto dall'articolo 52, comma 2, lettera b), DLGS 274/2000.

(2) Comma così modificato dall’art. 1, comma 3, lett. b), L. 41/2016.

(3) Articolo così modificato dall'articolo unico, L. 24/1963. L'ultimo comma è stato, poi, così sostituito dall'art. 91, L. 689/1981.

Rassegna di giurisprudenza

Elementi strutturali

Integra l'elemento psicologico del delitto di lesioni volontarie anche il dolo eventuale, ossia la mera accettazione del rischio che la manomissione fisica della persona altrui possa determinare effetti lesivi (Sez. 5, 35075/2010).

 

Tentativo

In tema di tentativo, l'idoneità degli atti non va valutata con riferimento al criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, infatti l'idoneità altro non è che la possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone. Pertanto, ferire intenzionalmente la vittima con una siringa contenente sangue infetto, perché prelevato da soggetto affetto da malattia infettiva, e propagabile attraverso contatto ematico, costituisce atto idoneo a cagionare il reato di lesioni, benché l'eventualità che siffatto evento si realizzi sia molto bassa (Sez. 5, 30139/2011).

 

Prova del reato

Il reato di lesioni personali può essere dimostrato, per il principio di libero convincimento del giudice e per l'assenza di una gerarchia tra i diversi mezzi di prova, anche sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa di cui sia stata positivamente valutata l'attendibilità, pur in mancanza di un referto medico che attesti la "malattia" derivata dalla condotta lesiva (Sez. 3, 42027/2014).

 

Nozione di malattia

…In generale

La nozione di "malattia" nella fattispecie di lesioni personali non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significative (Sez. 5, 8187/2019).

A fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, la nozione di malattia non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica, che possono anche mancare, bensì solo quelle da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico o l'aggravamento di esso ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa, che implichi un processo riabilitativo (Sez. 5, 27899/2021).

È attualmente maggioritario l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che, configurando la malattia in senso più aderente alla nozione che di essa si rinviene nell'ambito della scienza medica, non ritiene più sufficiente ai fini della sua integrazione la semplice alterazione anatomica, non accompagnata da alcuna conseguenza sul piano funzionale e priva di processi patologici significativi.

Si è quindi in definitiva affermato l'indirizzo interpretativo, che deve qui ribadirsi, in base al quale la malattia giuridicamente rilevante cui fa riferimento l'art. 582 (e di riflesso l'art. 590 nella sua forma colposa) non comprende tutte le alterazioni di natura anatomica (che possono anche mancare), bensì solo quelle alterazioni da cui deriva una limitazione funzionale o un significativo processo patologico ovvero una compromissione delle funzioni dell'organismo, anche non definitiva, ma comunque significativa (Sez. 4, 11689/2019).

Lo stato di malattia perdura fino a quando sia in atto il suddetto processo di alterazione (Sez. 5, 43763/2010).

Il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte (Sez. 5, 714/1999).

 

…Casistica

Una contusione al polso integra una malattia a norma dell'art. 582 in quanto alterazione anatomica e funzionale dell'organismo (Sez. 7, 29786/2016).

Un ematoma alle dita della mano è riconducibile alla nozione di malattia (Sez. 5, 28711/2018).

Una cefalea post-traumatica rientra nella nozione di malattia rilevante ai sensi dell'art. 582 (Sez. 5, 40428/2009).

Integra la malattia di cui all'art. 582 la "cervicalgia", in quanto "dolore cervicale" localizzato nella parte posteriore del collo, che determina sofferenza e ridotta motilità del collo e della testa, e, quindi, una alterazione funzionale dell'organismo (Sez. 5, 34387/2015).

Sono da considerarsi lesioni le ferite ecchimotiche o escoriate, le contusioni e gli stati di shock (Sez. 5, 2650/1980).

Anche una crisi ipertensiva può rientrare nella nozione di "malattia", purché comporti una significativa e pericolosa alterazione delle funzioni organiche (Sez. 5, 54005/2017).

Le escoriazioni costituiscono alterazioni che rientrano nel concetto di malattia in quanto si risolvono in un danno anatomico, per quanto lieve e modesto (Sez. 5, 43763/2010).

I traumi distorsivi e indiretti costituiscono lesioni penalmente rilevanti (Sez. 5, 40978/2014).

In tema di lesioni personali, integrano la malattia di cui all'art. 582 gli effetti derivanti dal getto sul viso di gas urticante consistenti non soltanto in una irritazione cutanea prolungata, ma anche in fenomeni di nausea e conati di vomito accompagnati da senso di soffocamento, in quanto produttivi di alterazioni funzionali dell'organismo (Sez. 5, 46787/2013).

Integra il reato di lesione personale dolosa la condotta del medico che sottoponga, con esito infausto, il paziente ad un trattamento chirurgico, al quale costui abbia espresso il proprio dissenso (fattispecie di intervento di chirurgia correttiva della vista con esito infausto, per il quale il consenso del paziente era stato carpito, prospettandogli una metodologia esecutiva non invasiva) (Sez. 4, 21799/2010).

Ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali, costituisce malattia la lesione cutanea consistente in un taglio all'avambraccio guaribile in tre giorni, in quanto anche una modesta soluzione di continuo dell'epidermide, con soffusione ematica, non può non comportare una sia pur minima, ma comunque apprezzabile compromissione locale della funzione propria dell'epidermide che non è solo quella di carattere estetico-sensoriale ma anche e soprattutto quella di protezione dell'intero organismo, in ogni sua parte, da contatti potenzialmente nocivi con agenti esterni di qualsivoglia natura (Sez. 5, 16271/2010).

Ai fini della configurabilità del delitto di lesioni personali l'ematoma è riconducibile alla nozione di "malattia" (Sez. 5, 2081/2009).

 

Circostanze aggravanti

Agli effetti della legge penale (art 582, secondo comma, n. 2) sono considerate armi tutti gli strumenti atti ad offendere che non possono portarsi senza giustificato motivo, e quindi anche quelli destinati ad uso domestico, i quali soltanto agli effetti del TULPS non sono considerati armi. Il coltello da cucina, anche se la sua destinazione principale non è quella di arrecare offesa, è sicuramente uno strumento atto ad offendere e perché possa essere qualificato arma è necessario considerare, a sensi dell'art 80 del regolamento di esecuzione del Testo unico citato, non solo la lunghezza della lama, ma anche quella del manico (Sez. 1, 7992/2019).

In tema di lesioni personali volontarie, ricorre la circostanza aggravante del fatto commesso con armi quando il soggetto agente utilizzi un manico di scopa, trattandosi di arma impropria, ai sensi dell’art. 4 co. 2 della l. n. 110 del 1975, per il quale rientra in questa categoria qualsiasi strumento, che, nelle circostanze di tempo e di luogo in cui sia portato, sia potenzialmente utilizzabile per l’offesa della persona (Sez. 1, 32139/2020).

L'aggravante dell'uso delle armi è configurabile con riguardo al delitto di lesioni personali tentato, poiché l'estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente delitto consumato deve essere verificato sulla base di una valutazione di compatibilità logico-giuridica, tenuto conto della tipologia dell'aggravante contestata che, nella specie, connota la pericolosità della condotta, a prescinde dal verificarsi dell'evento (Sez. 5, 40826/2017).

 

Cause di giustificazione

Non ricorre la causa di giustificazione non codificata dell'esercizio di attività sportiva allorché un calciatore colpisca l'avversario fratturandogli il setto nasale nel momento in cui l'arbitro assegni un calcio di punizione, in quanto, in tale fase, non essendo ammesso il gioco attivo di squadra, ancorché singoli giocatori possano trovarsi in movimento per organizzare il « tiro» il gioco deve ritenersi fermo e, pertanto, l'azione antidoverosa non può risultare funzionale all'attività agonistica in atto ma si palesa come una mera aggressione del tutto indipendente dalla dinamica del gioco (Sez. 5, 10734/2008).

In tema di lesioni personali cagionate durante una competizione sportiva che implichi l'uso della forza fisica e il contrasto anche duro tra avversari, l'area del rischio consentito è delimitata dal rispetto delle regole tecniche del gioco, la violazione delle quali, peraltro, va valutata in concreto, con riferimento all'elemento psicologico dell'agente il cui comportamento può essere - pur nel travalicamento di quelle regole - la colposa, involontaria evoluzione dell'azione fisica legittimamente esplicata o, al contrario, la consapevole e dolosa intenzione di ledere l'avversario approfittando della circostanza del gioco (Sez. 5, 19473/2005).

L'intervento chirurgico, se non è posto in essere con finalità terapeutica, non costituisce più un atto medico, e la condotta operatoria non si differenzia, perciò, in tal caso, da quella di chiunque leda in modo consapevole e volontario l'integrità fisica di una persona, così che l'atto operatorio - il quale non si inserisca quale segmento di una più ampia condotta terapeutica idonea di per sé a legittimarlo ex art. 32 Cost. - riprende la sua autonomia al fine della valutazione della capacità di cagionare una lesione personale rilevante ex art. 582; la finalità terapeutica, propria dell'attività medico-chirurgica, connota infatti, in maniera determinante, la stessa oggettività dell'atto, prima ancora della sua soggettività, perché è quella che lo rende orientato alla realizzazione di un beneficio per la salute del paziente con l'effetto di rendere lecito l'intervento, mentre - di contro - l'estraneità dell'atto a ogni scelta terapeutica si traduce sempre in una condotta produttiva di una (non consentita) alterazione funzionale dell'organismo del paziente, indipendentemente dalla finalità concretamente perseguita dall'agente (Sez. 1, 14776/2018).

Solo nel caso in cui l'attività medico-chirurgica sia sorretta da una ragionevole indicazione terapeutica, o tale indicazione sia ritenuta in buona fede dall'agente comunque sussistente, con valutazione ex ante, la relativa attività deve considerarsi in via di principio lecita e sindacabile sotto l'esclusivo profilo della colpa, in ipotesi di errore operatorio ascrivibile a negligenza, imprudenza o imperizia; nel caso, invece, in cui l'intervento operatorio sia posto in essere in assenza di qualsiasi ragionevole indicazione terapeutica, con condotta consapevolmente estranea o distorta rispetto alle finalità diagnostiche o di cura, la condotta del medico-chirurgo è destinata a risolversi in un'ordinaria attività lesiva di natura dolosa; l'intervento chirurgico non orientato a una finalità terapeutica, anche solo di natura palliativa, non costituisce un atto medico trovante la sua legittimazione nell'art. 32 della Costituzione, così che non si differenzia dalla condotta di chiunque leda volontariamente l'integrità fisica altrui; in particolare, la natura consapevolmente lesiva della condotta deve ravvisarsi non solo nei casi in cui l'intervento chirurgico non sia contemplato, alla stregua dei criteri generalmente accettati dalla comunità scientifica, tra le prestazioni somministrabili in relazione alla patologia da cui è affetto il paziente, ma anche nel caso di deliberato allontanamento dalle linee guida accreditate scientificamente, procedendo come prima scelta e in assenza di accertamenti diagnostici propedeutici a un intervento invasivo, ovvero saltando tutti gli step previsti senza attendere l'esito degli esami di laboratorio ed effettuando resezioni o biopsie del tutto inutili, ovvero ancora ricorrendo in modo indiscriminato alla chirurgia diagnostica senza prima aver affrontato la patologia del paziente con le tecniche e i presidi meno afflittivi prescritti dalla scienza medica.

La prova della volontà di ricorrere a interventi chirurgici privi di ogni indicazione terapeutica è stata puntualmente ricavata anche dalla concorrente assenza di un valido consenso informato all'atto operatorio da parte del paziente, la cui corretta formazione postula la previa rappresentazione delle alternative diagnostiche o terapeutiche possibili, in mancanza della quale l'efficacia scriminante del consenso risulta neutralizzata; la contrarietà dell'intervento operatorio alla volontà effettiva del paziente, a fronte di un consenso acquisito in maniera indebita e arbitraria, che sia funzionale all'esecuzione di un intervento estraneo a finalità terapeutiche, priva la condotta del medico-chirurgo del requisito dell'autolegittimazione, travalicando i limiti della colpa e integrando l'elemento psicologico del dolo, che consiste nell'accettazione piena e consapevole, in via preventiva, dell'evento lesivo concretamente verificatosi, realizzando il delitto di cui all'art. 582.

Il dolo necessario e sufficiente per la configurazione del delitto di lesione personale è, infatti, quello generico, che prescinde dall'individuazione della finalità (non terapeutica) perseguita dall'agente (dal medico-chirurgo, nel caso in esame), che può rilevare invece sul (diverso) terreno della prova, bastando allo scopo l'accertata estraneità a ogni indicazione e scelta terapeutica dell'intervento operatorio, destinato a incidere, alterandola, sull'integrità fisica del paziente (Sez. 1, 14776/2018).

È noto tutto il travaglio dottrinario e giurisprudenziale circa il ruolo del consenso - espresso o non espresso dal paziente - intorno all'atto medico cui è sottoposto o si sottopone. A partire dalla innovativa sentenza 5639/1992, che sanzionò - a titolo di omicidio preterintenzionale - l'attività del chirurgo che sottopose il paziente, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo aveva informato preventivamente e che solo era stato da quegli consentito, ritenendo irrilevante - sotto il profilo psichico - la finalità pur sempre curativa della sua condotta, numerose sono state le decisioni che si sono occupate delle conseguenze - sotto il profilo penale - dell'attività medica "arbitraria", perché svolta contro o senza la volontà del paziente, spesso divergendo sulla soluzione da prediligere.

Infatti, a meno di dieci anni dalla precedente pronuncia, la sezione quarta di questa Corte aveva - capovolgendo il precedente indirizzo - esclusa la configurabilità dell'omicidio preterintenzionale qualora, in assenza di urgente necessità, fosse stata eseguita un'operazione chirurgica demolitiva, senza il consenso del paziente, prestato per un intervento di dimensioni più ridotte rispetto a quello poi eseguito, che ne avesse determinato la morte, poiché, per integrare l'omicidio preterintenzionale, era richiesta una condotta consapevolmente ed intenzionalmente diretta a provocare un'alterazione lesiva dell'integrità fisica della persona offesa.

In senso ancora più liberatorio per il medico si era espressa la sezione prima con la sentenza 26446/2002, sul presupposto che il medico fosse sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente, ancorché l'omissione dell'intervento potesse cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute dell'infermo e, persino, la sua morte (solo in caso di dissenso espresso la Corte aveva ritenuto configurabile - in caso di morte del paziente - il diverso reato di violenza privata. Sul punto sono poi intervenute, come è noto, le Sezioni unite (SU, 2437/2009), le quali hanno escluso la responsabilità del chirurgo - che abbia operato senza il consenso del paziente - sia sotto il profilo della violenza privata che delle lesioni volontarie, a fronte di un esito fausto dell'intervento.

Le Sezioni unite, con la suddetta decisione, hanno attuato il sostanziale recepimento - in sede penale - della tesi civilistica della cosiddetta autolegittimazione dell'attività medica, "la quale rinverrebbe il proprio fondamento, non tanto nella scriminante tipizzata del consenso dell'avente diritto, come definita dall'art. 50, quanto nella stessa finalità, che le è propria, di tutela della salute, come bene costituzionalmente garantito". L'attività sanitaria - ha precisato la Corte - proprio perché destinata a realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute ed attuare la prescrizione contenuta nell'art. 2 della Carta, ha base di legittimazione "direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell'individuo". Ne è prova il fatto - ha aggiunto la Corte - che l'art. 359 inquadra fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano la professione sanitaria, ritenuta "di pubblica necessità", cosicché sarebbe davvero eccentrico che una professione siffatta abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l'antigiuridicità di condotte strumentali al trattamento medico.

A tali condivisibili riflessioni si aggiunge il rilievo che le scriminanti tipizzate - a cui si appellano le tesi imperniate sulla esclusivistica natura "liberatrice" del consenso - sono volte a neutralizzare gli effetti penali di condotte altrimenti illecite, perché contrarie a norme di convivenza (come postulata dall'ordinamento), sicché ancor più eccentrico appare il loro accostamento all'attività medica, che rappresenta una della massime espressioni del genio e della solidarietà umana, oltre che una della arti più nobili e utili all'uomo. Da qui la prima conclusione che il trattamento medico-chirurgico - compiuto nel rispetto delle leges artis - costituisce un'attività intrinsecamente lecita, in quanto non offensiva dell'interesse protetto da alcuna delle norme incriminatrici contemplate dal nostro ordinamento, anche se, per attuarsi, abbisogna di "maltrattare" la persona che ad esso si sottopone, giacché le incisioni (e le altre attività manipolatorie) praticate sulla persona del paziente sono connaturate, in maniera ineliminabile, all'attività chirurgica e perdono, nella valutazione unitaria dell'intervento, la loro carica lesiva, per essere funzionali alla cura del soggetto che vi si sottopone.

Gli effetti penali di questa scelta si traducono - nell'ordinario dell'attività terapeutica - nella esclusione dell'attività suddetta dalla tipicità delle lesioni personali o di altri reati; essa non abbisogna, per legittimarsi, né di scriminanti né di cause di esclusione della punibilità, anche se il concreto esercizio della stessa può essere subordinato, per l'attuazione di altri interessi ugualmente rilevanti, a condizioni e adempimenti prescritti da altre fonti.

Altro passaggio - che contrassegna, anch'esso, l'iter logico delle Sezioni unite nella sentenza sopra richiamata - e che si appalesa utile alla risoluzione della res iudicanda, è costituito dalla definizione del concetto di "malattia", che rileva, pur'esso, nella valutazione della condotta incriminata (sotto l'aspetto, che verrà esaminato nel prosieguo, della riconduzione dell'operato dei medici alla fattispecie delle lesioni personali volontarie).

Le Sezioni unite, aderendo ad un più recente orientamento manifestatosi nella giurisprudenza di legittimità, hanno accolto, infatti, un concetto "funzionale" di malattia (necessario per la sussistenza del reato di cui all'art. 582, siccome evento naturalistico di detto reato), intesa come "processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell'assetto funzionale dell'organismo", con la conseguenza che non sono state ritenute rilevanti - per l'integrazione del reato di cui all'art. 582 cod. pen. - le mere alterazioni anatomiche che non hanno interferenza con il profilo funzionale della persona. Hanno inoltre adottato un concetto "oggettivo" di malattia, disancorato dalla personale valutazione della vittima.

A tale lettura dell'art. 582 si deve senz'altro aderire, perché si tratta di lettura aderente alla lettera e alla funzione della norma (volta a sanzionare le aggressioni più significative all'incolumità personale e a rimarcare la distanza dal reato di percosse, praticamente abrogato dall'interpretazione estensiva dell'art. 582) e perché garantisce una oggettività necessaria al delitto di lesioni personali, esposto, altrimenti, a una forte soggettivizzazione (sarebbe rimessa alla vittima la decisione sulla esistenza della "malattia", e quindi del reato, qualora la valutazione clinica divergesse dalla valutazione personale del paziente.

Il reato di lesioni personali verrebbe posto a tutela non solo della incolumità personale, ma anche della libertà di determinazione, indebitamente inglobata nella oggettività giuridica delle lezioni personali). Inoltre, tale lettura tiene conto degli apporti della giurisprudenza - richiamata nella stessa sentenza delle Sezioni unite - più sensibile all'applicazione del principio costituzionale di colpevolezza.

La conseguenza, sul piano dell'attività medico-chirurgica "arbitraria", di tale impostazione, è che, se una soluzione di continuo operata sul derma del paziente e sui suoi tessuti può integrare la nozione di "lesione", ciò è ancora inconferente agli effetti della integrazione del precetto, se ad essa non consegua una alterazione funzionale dell'organismo. Ma è soprattutto sul terreno dell'elemento soggettivo che si apprezza il mutamento di prospettiva, giacché - contrariamente a quanto opinato dal giudice della sentenza qui impugnata - è in relazione alla "malattia" conseguente all'intervento chirurgico (assentito in modo viziato, per quanto si è detto) che va apprezzato l'atteggiamento psicologico dell'agente, al fine di individuare il nesso che occorre per l'imputabilità dell'evento. Il riconoscimento di una fonte autonoma di legittimazione dell'attività medico-chirurgica non ha - ad ogni modo - impedito alle Sezioni unite di sottolineare la necessarietà del consenso del paziente nel concreto espletarsi dell'attività suddetta.

Attraverso il richiamo e l'analisi di numerose fonti di produzione normativa: la Costituzione (artt. 2 e 32), la legislazione sovranazionale (Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata dall'Italia con legge 28 marzo 2001; Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000), la legislazione nazionale (legge 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati; legge 19 febbraio 2004, n. 40, Norme in materia di procreazione medicalmente assistita; legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del servizio sanitario nazionale), il codice di deontologia medica, le Sezioni unite hanno ribadito - come già fatto dalla totalità della dottrina e della giurisprudenza - che il presupposto indefettibile di ogni trattamento sanitario risiede nella scelta, libera e consapevole - salvo i casi di necessità e di incapacità di manifestare il proprio volere - della persona che a quel trattamento si sottopone.

Tanto perché tutta la normativa sopra richiamata mostra di considerare la "persona" non più destinataria di prestazioni etero-determinate, ma soggetto attivo e partecipe dei processi decisionali che lo riguardano; e perché appare ormai superata la visione del medico come depositario e detentore di una "potestà" di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) in termini di "alleanza terapeutica", che veda entrambi i protagonisti impegnati a collaborare per l'attuazione del diritto alla salute. Le conseguenze - sotto il profilo giuridico - di questa impostazione dogmatica non possono che essere rappresentate dalla tendenziale "illiceità" dell'atto medico compiuto senza il consenso del paziente (o con consenso viziato).

La violazione di regole deontologiche e, prima ancora, legislative, quali sopra richiamate, rimanda sicuramente ad una responsabilità del medico per l'attività non assentita, perché spezza il circuito virtuoso necessario al perseguimento del miglior risultato possibile per la salute del paziente. Ed infatti la giurisprudenza civile è consolidata nel ravvisare un inadempimento contrattuale a carico del medico che ometta di fornire un'informazione completa ed esaustiva intorno alla diagnosi effettuata, ai rischi cui il paziente è esposto, alle cure praticabili e alle possibili alternative terapeutiche, ponendo a carico del medico l'onere della prova di aver adempiuto all'obbligo relativo. Ciò non vuol dire, però, che sia sempre ravvisabile - a carico dal sanitario - una responsabilità penale, per la semplice e ovvia ragione che il diritto penale è informato al principio di tipicità, per cui solo le condotte coincidenti con la previsione normativa possono assurgere a fonte di responsabilità.

Per la punizione del medico che attui un intervento "arbitrario" è quindi necessario che la sua condotta sia inquadrabile in una delle fattispecie penali tipizzate, che possono essere interpretate estensivamente, ma non analogicamente, e che la condotta imputata al medico sia offensiva proprio dell'interesse tutelato dalla norma penale.

Pertanto, se è consolidata l'opinione che considera illecita, anche dal punto di vista penale, la condotta del medico che abbia operato - quasi in corpore vili - "contro" la volontà del paziente, direttamente o indirettamente manifestata, e ciò a prescindere dall'esito, fausto o infausto, del trattamento sanitario praticato, "trattandosi di condotta che quanto meno realizza una illegittima coazione dell'altrui volere"; e se è da ritenere illecita - anche dal punto di vista penale - la condotta del medico che attui una informazione volutamente lacunosa o decipiente al fine di perseguire scopi altrimenti illeciti - giacché in questo caso egli si pone volontariamente fuori del contesto (terapeutico) entro cui è, per norma, legittimato ad operare - a conclusione diversa deve pervenirsi allorché - come nella specie - il consenso all'intervento, prestato dal paziente in un ambito caratterizzato comunque da finalismo terapeutico, sia da ritenere viziato, perché non preceduto da adeguata informazione.

Situazioni siffatte non appaiono inquadrabili, infatti, in nessuna delle fattispecie penali codificate. Infatti, per quanto si vogliano estendere ed ampliare le nozioni di violenza e minaccia sottese all'art. 610, giammai è possibile ricondurre ad esse la condotta del medico che attui una informazione superficiale in vista di un intervento operatorio da lui consigliato, giacché manca ad essa il connotato che più la caratterizza: la prospettazione di un male - la cui verificazione dipende dall'agente - o lo spiegamento di una energia fisica o morale diretta a coartare il volere della vittima.

Nemmeno può ravvisarsi il reato di lesioni personali volontarie (aggravate, nella specie), giacché tale reato presuppone - come è già stato evidenziato in fattispecie analoghe - una attività diretta a cagionare un male alla persona, da cui deriva una malattia nel corpo o nella mente. Richiede, cioè, secondo principi noti, che non occorre richiamare, il verificarsi di una malattia (elemento oggettivo) e la coscienza e volontà di provocarla (elemento soggettivo, con le modulazioni proprie del dolo).

Ebbene, è fuori discussione che il medico, allorché agisce per fini terapeutici (e non per fini sperimentali, di lucro, di prestigio o per altri fini altrimenti speculativi), non pone in essere alcuna attività diretta a procurare un "male", ma agisce per risolvere una patologia. Egli - tanto più se è prudente ed esperto nella sua arte - "prevede" la possibilità di aggravare le condizioni del paziente (cioè, di procurargli una lesione di cui derivi una malattia, ulteriore rispetto a quella per cui è stato investito: elemento oggettivo del reato di lesioni), ma non la "vuole"; anzi, è disvolente rispetto ad essa ed opera perché non si concretizzi.

Se, nonostante i suoi sforzi, la "malattia" sopravviene, non gli può essere imputata, in ragione della cattiva informazione fornita al paziente (è questo, infatti, il rimprovero che gli è mosso), perché manca il rapporto di derivazione con l'addebito - essendo conseguenza dell'evoluzione del male, che egli non è riuscito a contrastare - e perché manca un profilo di imputazione a livello soggettivo.

Non è, quindi, solo nella fattispecie esaminata dalle Sezioni unite (esito fausto dell'intervento) che l'assenza di consenso al trattamento terapeutico - non maliziosamente procurato - non è idoneo a fondare la responsabilità del medico a titolo di lesioni personali volontarie, giacché è proprio il finalismo terapeutico che esclude il dolo di lesioni, per la logica incompatibilità tra essi esistente (perché, come è stato messo in evidenza in altre pronunce e come le stesse Sezioni unite hanno mostrato di condividere, «una condotta "istituzionalmente" rivolta a curare e, dunque, a rimuovere un male non può essere messa sullo stesso piano di una condotta destinata a cagionare quel "male"). In questa maniera non si trasforma il reato di cui all'art. 582, pacificamente a dolo generico, in reato a dolo specifico, come opinato nella sentenza impugnata e da taluni commentatori, giacché la "specificità" attiene ai motivi dell'agere e agli scopi dell'agente, mentre, nella specie, la finalità curativa pone la volontà del medico in rapporto di contraddizione con l'evento tipico.

Egli, infatti, non vuole né accetta di procurare una "malattia", anche se la prevede o può prevederla; opera ugualmente, per obbligo professionale e perché "costretto" dalla natura del male che è chiamato a curare. In ciò sta, infatti, la fondamentale differenza tra il medico e qualsiasi volgare attentatore alla incolumità altrui: che il medico, chiamato a confrontarsi col male, non può sottrarsi all'obbligo di cooperare per risolverlo; il soggetto attivo nel reato di lesioni non è mosso da nessuna necessità (anzi, contravviene ad un obbligo di astensione) ed opera per infliggere una sofferenza (per questo, ogni energia da lui spiegata sul corpo o la mente della vittima gli è addebitabile e l'eventuale malattia che ne consegue rientra nel fuoco della volontà).

Deve convenirsi, pertanto, con quanto affermato in altre pronunce di questa Corte, secondo cui la valutazione del comportamento del medico sotto il profilo che qui interessa (sussistenza del reato di lesioni personali dolose) "non ammette un diverso apprezzamento a seconda che l'attività sia stata prestata con o in assenza di consenso, non presentando il giudizio sulla sussistenza della colpa e sul nesso di causalità differenze di sorta a seconda che vi sia stato o meno il consenso informato del paziente".

Affermazione, questa, condivisibile alla fondamentale che l'opera del medico sia inequivocabilmente sorretta da un "finalismo curativo" non inquinato da scopi e interessi diversi, come sono quelli rimarcati nella sentenza impugnata (scopi di lucro, di carriera, o sperimentali, che vanno - comunque - pur sempre provati), i quali, se sussistenti, inciderebbero proprio sulla fonte di legittimazione dell'attività medica (Sez. 5, 16678/2016).

In tema di attività medico-chirurgica, allo stato attuale della legislazione, deve ritenersi che il medico sia sempre legittimato ad effettuare il trattamento terapeutico giudicato necessario per la salvaguardia della salute del paziente affidato alle sue cure, anche in mancanza di esplicito consenso, dovendosi invece ritenere insuperabile l'espresso, libero e consapevole rifiuto eventualmente manifestato dal medesimo paziente.

In tale ultima ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata ma non mai - ove il trattamento comporti lesioni chirurgiche ed il paziente venga successivamente a morte - il diverso e più grave reato di omicidio preterintenzionale, non potendosi ritenere che le lesioni chirurgiche, strumentali all'intervento terapeutico, possano rientrare nelle previsioni di cui all'art. 582 (Sez. 1, 26446/2002).

Il delitto di lesioni volontarie derivanti da esercizio di attività medico-chirurgica è da escludere non solo quando il paziente abbia espresso un valido consenso, contenuto entro i limiti segnati dall'art. 5 CC, ma anche quando il detto consenso non sia necessario, come può verificarsi in presenza di ragioni di urgenza terapeutica o in altre ipotesi previste dalla legge, le quali possono rendere configurabili cause di giustificazione diverse dal consenso dell'avente diritto, quali lo stato di necessità o l'adempimento di un dovere (Sez. 4, 28132/2001).

Il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta, sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte (nella fattispecie la parte offesa era stata sottoposta ad intervento chirurgico di amputazione totale addomino-perineale di retto, anziché a quello preventivo di asportazione transanale di un adenoma villoso benigno in completa assenza di necessità ed urgenza terapeutiche che giustificassero un tale tipo di intervento e soprattutto senza preventivamente notiziare la paziente o i suoi familiari che non erano stati interpellati in proposito né minimamente informati dall'entità e dei concreti rischi del più grave atto operatorio eseguito, sul quale non vi era stata espressa alcuna forma di consenso) (Sez. 5, 5639/1992).

 

Rapporti con altre fattispecie

Il delitto di resistenza a pubblico ufficiale assorbe soltanto quel minimo di violenza che si concreta nelle percosse, non già quegli atti che, esorbitando da tali limiti, siano causa di lesioni personali in danno dell'interessato. In quest'ultima ipotesi, il delitto di lesioni concorre con quello di resistenza a pubblico ufficiale e se l'atto di violenza, con il quale l'agente ha consapevolmente prodotto le lesioni, non risulta fine a se stesso, ma è stato posto in essere allo scopo di resistere al pubblico ufficiale, si realizza il presupposto per ritenere la sussistenza della circostanza aggravante della connessione teleologica di cui all'art. 61, n. 2 (Sez. 6, 27703/2008).

Il delitto di cui all'art. 581 è configurabile allorquando la violenza produce al soggetto passivo soltanto una sensazione fisica di dolore, senza postumi di alcun genere, mentre il delitto di cui all'art. 582, che può essere commesso con qualsiasi mezzo, sussiste quando il soggetto attivo cagioni al soggetto passivo una lesione dalla quale derivi una malattia nel corpo o nella mente. Il concetto clinico di malattia richiede il concorso del requisito essenziale di una riduzione apprezzabile di funzionalità, a cui può anche non corrispondere una lesione anatomica, e di quello di un fatto morboso in evoluzione a breve o lunga scadenza, verso un esito che potrà essere la guarigione perfetta, l'adattamento a nuove condizioni di vita oppure la morte. Ne deriva che non costituiscono malattia e quindi non possono integrare il reato di lesioni personali, le alterazioni anatomiche, a cui non si accompagni una riduzione apprezzabile della funzionalità (Sez. 5, 5811/2018).

L'integrazione del reato di cui all'art. 581 presuppone una azione violenta produttiva di sensazioni fisiche dolorose senza conseguenze morbose di alcun genere (diversamente si tratterebbe del diverso reato di lesioni) e diretta a cagionare del male). Non sono riconducibili alla fattispecie penalmente sanzionata ex art. 581 le condotte che determinino in qualche misura una manomissione fisica ed anche una sensazione di dolore nella persona offesa con finalità diverse da quelle di infliggere una sofferenza.

La spinta verso un soggetto che si intenda allontanare da una situazione pericolosa, le manovre dirette a medicare un malato, l'aiuto prestato ad un ginnasta per eseguire un esercizio, il pizzicotto diretto a sollecitare l'attenzione o con intento scherzoso, rappresentano altrettanti esempi di gesti che possono provocare manomissioni fisiche ed anche sensazioni dolorose in chi li subisce ma non sono diretti a questo, il che esclude la sussistenza del reato, senza per questo ritenere che l'elemento soggettivo del reato di percosse si configuri in termini di dolo specifico.

In altre parole, ove la condotta di manomissione fisica sia doverosa o consentita, l'eventualità che essa determini una sensazione di dolore in capo a chi la subisce non consente, comunque, di ritenere sussistente il reato di percosse (Sez. 5, 4398/2018).

La diversa obiettività giuridica del reato di maltrattamenti in famiglia e di quello di lesioni personali volontarie esclude l'assorbimento del secondo nel primo, rendendoli concorrenti tra loro (Sez. 6, 28367/2004).