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Art. 318 - Corruzione per l’esercizio della funzione (1)

1. Il pubblico ufficiale che, per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da tre a otto anni.

(1) Articolo sostituito dall’art. 6, L. 86/1990 e dall’art. 1, comma 75, lett. f), L. 190/2012 e successivamente modificato dall’art. 1, comma 1, lett. e), L. 69/2015. Da ultimo, la L. 3/2019 ha elevato la pena edittale (in precedenza determinata tra uno e sei anni).

Rassegna di giurisprudenza

Elementi strutturali

In tema di corruzione, la fattispecie di cui all’art. 318 (nel testo introdotto dalla L. 190/2012) punisce la generica condotta di vendita della funzione pubblica, senza richiedere l’individuazione di un preciso atto contrario ai doveri di ufficio, oggetto di illecito mercimonio, sicché la corruzione per l’esercizio della funzione ha natura di reato di pericolo (Sez. 6, 49226/2014).

In tema di corruzione per l'esercizio della funzione, benché la proporzionalità tra le prestazioni non sia un elemento costitutivo del reato, tuttavia l'irrisorietà dell'utilità conseguita rispetto alla rilevanza dell'atto amministrativo, rileva sul piano probatorio dell'esistenza del nesso sinallagmatico con l'esercizio della funzione, il cui mercimonio integra il disvalore del fatto punito dall'art. 318 (Sez. 6, 30025/2022).

Rapporti con altre fattispecie

In tema di individuazione dei criteri distintivi tra i reati di cui agli artt. 318 e 319, deve ritenersi che il delitto di corruzione per l'esercizio della funzione pubblica si differenzia da quello di corruzione propria, in quanto ha natura di reato di pericolo, sanzionando la presa in carico, da parte del pubblico funzionario, di un interesse privato dietro una dazione o promessa indebita, senza che sia necessaria l'individuazione del compimento di uno specifico atto d'ufficio (Sez. 6, 29824/2021).

Lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, realizzato attraverso l’impegno permanente compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, integra il reato di cui all’art. 318  e non il più grave reato di corruzione propria di cui all’art. 319, salvo che la messa a disposizione della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio (Sez. 6, 45184/2019).

In contrario avviso: configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio – e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 – lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, 29267/2018).

Occorre stabilire quale sia la linea di confine tra le due fattispecie di corruzione previste dal codice penale, dopo la riforma dell’art. 318, introdotta dalla L. 190/2012. La nuova formulazione della fattispecie, ora rubricata come “corruzione per l’esercizio della funzione”, ha invero inciso notevolmente nella struttura della stessa, mutandone la natura. Si tratta ancora di una ipotesi meno grave di corruzione, come in passato, ma mentre nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno (la violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale), connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (purché non contrario ai doveri di ufficio, nel senso che la parzialità non doveva trasferirsi sull’atto, segnandolo di connotazioni privatistiche, restando pertanto l’unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione”, non connesse causalmente al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio. Prima della riforma, restava invero non del tutto chiara la qualificazione di quelle condotte di “asservimento” della funzione da parte del pubblico ufficiale che si poneva, dietro compenso, “a disposizione” del privato in violazione dei doveri di imparzialità, onestà e vigilanza. A fronte dell’accertamento di un accordo avente ad oggetto soltanto una generica disponibilità, senza la possibilità di individuare nei suoi connotati specifici l’atto contrario ai doveri d’ufficio, la giurisprudenza di legittimità, pur nel contesto di un’interpretazione ragionevolmente estensiva dell’art. 319, aveva affermato che era sufficiente che fosse individuabile il “genus” di atti da compiere, suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati (Sez. 6, 30058/2012). La nuova fattispecie ha inteso superare i limiti applicativi della previgente normativa codicistica, così da colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi in ordine al concetto di atto di ufficio, punendo tutte quelle ipotesi di mercimonio connesse causalmente all’esercizio di pubblici funzioni o poteri, costituenti forme di generica messa a disposizione del pubblico funzionario. Il nuovo testo dell’art. 318 non ha proceduto ad alcuna abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato un’estensione dell’area di punibilità, in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto dell’ufficio, oggetto di “retribuzione”, il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio (non temporalmente collocato e, quindi, suscettibile di coprire entrambe le situazioni già previste nei due commi del precedente testo dell’articolo) delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319, una fattispecie di onnicomprensiva “monetizzazione” del munus pubblico, sganciata in sé da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio (Sez. 6, 49226/2014). Si è infatti fatto notare che la riscrittura dell’art. 318 ha portato nell’assetto del delitto di corruzione un’importante novità: il baricentro del reato non è più l’atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l’esercizio della funzione pubblica. Il nuovo criterio di punibilità risulta pertanto ancorato al mero “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficioIn definitiva, l’art. 318 contiene i divieti diretti al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli. In tal modo, il legislatore ha inteso, secondo la logica del pericolo presunto, prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e garantire al contempo il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Il limite esterno del nuovo reato di cui all’art. 318, rispetto alla più grave fattispecie della corruzione propria, resta pur sempre l’ipotesi in cui sia accertato un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio. In definitiva, come condivisibilmente già affermato (Sez. 6, 49226/2014), i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione del proprio ufficio”, tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata  sussunti prima della riforma del 2012 nella fattispecie prevista dall’art. 319  devono essere ricondotti nella previsione della nuova fattispecie dell’art. 318, sempre che l’accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio. Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio). Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa (Sez. 6, 4486/2019).

La differenza tra le ipotesi criminose di cui agli artt. 318 e 319 sta nel fatto che nel primo caso, attraverso il collegamento con il privato, determinato dal pactum sceleris, si realizza una violazione del principio di correttezza e in qualche modo del principio del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale, senza però che la “parzialità” si trasferisca nell’atto che resta quello unicamente possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici; nel secondo caso, la parzialità si rivela nell’atto, segnandolo di connotazioni privatistiche e rendendolo, pertanto, illecito e contrario ai doveri di ufficio (Sez. 2, 53778/2018).

Configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio - e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318 - lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, 29267/2018).

Le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 condividono un nucleo fattuale comune, costituito dalla dazione/ricezione ovvero dalla promessa/accettazione della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri. Affinché possano ritenersi integrate le fattispecie corruttive di cui agli artt. 318 e 319 deve dunque sussistere (la prova di) un sinallagma fra la promessa o la dazione e l’asservimento della funzione o dei poteri o l’atto contrario ai doveri d’ufficio. L’indirizzo di legittimità è, difatti, stabilizzato nel senso di ritenere che, ai fini dell’integrazione del delitto di corruzione (propria o per vendita della funzione), non è sufficiente che risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale ovvero l’accettazione della promessa in tale senso, ma è necessario dimostrare che dazione o promessa fossero finalizzate all’esercizio dei poteri o della funzione ovvero al compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero che ne siano state la causa (Sez. 6, 39008/2016). In altri termini, è necessario che sia acclarata l’esistenza di una relazione di tipo finalistico-strumentale (al fine di) ovvero causale (per avere) fra la dazione/ricezione o la promessa/accettazione della promessa, da un lato, e la strumentalizzazione dei poteri del pubblico funzionario a favore del privato, dall’altro lato. Le due incriminazioni divergono invece sulla “merce di scambio” della promessa o della dazione, là dove il delitto di cui all’art. 318 sanziona la vendita delle funzioni o dei poteri del pubblico agente  in senso finalistico-strumentale (cioè al fine di esercitare dette funzioni o poteri) ovvero in senso causale (cioè per avere esercitato dette funzioni o poteri) , mentre il delitto di cui all’art. 319 punisce il mercimonio della colpevole omissione o ritardo di un atto dell’ufficio ovvero il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, sempre in senso finalistico-strumentale (cioè al fine di omettere o di ritardare l’atto d’ufficio ovvero di compiere l’atto contrario ai doveri d’ufficio) o causale (cioè per aver omesso o ritardato l’atto d’ufficio ovvero per avere compiuto l’atto contrario ai doveri d’ufficio)Il delitto di cui all’art. 318 colpisce dunque la vendita della funzione o dei poteri pubblici senza alcuna contrarietà ai doveri d’ufficio, id est la mera infedeltà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, il quale si ponga al servizio di interessi privatistici  si metta cioè a libro paga del privato  pur mantenendo il proprio operato entro i binari della (formale) legalità. Diversamente, la seconda fattispecie postula che nell’agire del pubblico funzionario sia ravvisabile una divaricazione rispetto alle regole, ai limiti, alle prescrizioni e/o agli obblighi che disciplinano – e delimitano – i propri poteri, funzione e/o mansioni. Occorre precisare come, ai fini dell’art. 319, il dovere d’ufficio non debba essere inteso in senso formale e come esso ricomprenda qualsiasi comportamento del pubblico ufficiale in contrasto con norme giuridiche o con istruzioni di servizio o che comunque violi i doveri di fedeltà, imparzialità e onestà che debbono osservarsi da chiunque eserciti una pubblica funzione. Costituiscono dunque atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico agente, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Sez. 1, 25242/2011). È difatti pacifico che la violazione, nell’esercizio di pubbliche funzioni, del dovere di imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione integri il requisito della violazione di norme di legge e, dunque, una contrarietà rispetto ai propri doveri di pubblico funzionario. Nulla quaestio, poi, quanto alla possibilità di ravvisare la fattispecie incriminatrice ex art. 319 anche qualora si tratti di atti caratterizzati da discrezionalità. Si è più volte ravvisato il delitto di corruzione propria nella condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, eserciti i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge (Sez. 6, 23354/2014). Fra l’altro, nell’affermare il principio in oggetto, la Corte ha precisato che il versamento di una somma consistente è un elemento fortemente sintomatico della necessità per il privato di incidere sulla formazione del provvedimento amministrativo (Sez. 6, 4459/2017). Va altresì rimarcato come il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio possa essere ravvisato anche con riferimento alla espressione di un parere favorevole non vincolante così come di un voto favorevole rispetto ad un atto che si inserisca nel procedimento teso alla formazione dell’atto della pubblica amministrazione ed assuma rilevanza decisiva nella concatenazione degli atti che compongono la complessiva procedura amministrativa, e quindi incida sul contenuto dell’atto finale (Sez. 6, 8935/2015). Proseguendo nella rassegna dei principi di diritto affermati per tracciare la linea di demarcazione fra i rispettivi ambiti di copertura delle due fattispecie di cui agli 318 e 319, va rilevato che il primo reato non postula l’individuazione di uno specifico atto (non contrario ai doveri d’ufficio) oggetto di mercimonio (sostanziandosi appunto il delitto nella vendita della “funzione”) e che, d’altra parte, l’individuazione dello specifico atto (in questo caso contrario ai doveri d’ufficio) per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, non è necessaria neanche ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 319, a condizione che, dal comportamento del pubblico funzionario, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, 22301/2012). Infine, va dato conto dell’ormai consolidato approdo della giurisprudenza secondo il quale il reato di corruzione propria è ravvisabile anche in caso di “vendita della funzione” connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, i quali non costituiscano autonomi reati di corruzione, ma evidenzino soltanto il punto più alto della contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono all’agente pubblico. Come si è affermato in diverse recenti pronunce, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi personali di terzi attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l’omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all’art. 319 e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318, il quale ricorre, invece, quando l’oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell’ufficio (Sez. 6, 8211/2016).

Nell’ipotesi di stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d’ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri si realizza dunque un fenomeno unitario, una forma di progressione criminosa, che, in forza del principio dell’assorbimento, consente un unico inquadramento giuridico sotto la fattispecie più grave della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (Sez. 6, 40237/2016).

La fattispecie prevista dall’art. 318 ha, pertanto, un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi soltanto nell’ipotesi in cui il mercimonio abbia ad oggetto la funzione o i poteri  o comunque uno o più atti  conformi ai doveri d’ufficio. In altri termini, tale ipotesi corruttiva è ravvisabile soltanto qualora la remunerazione del pubblico funzionario da parte del privato non si sia tradotta, in concreto, in un atto contrastante con le regole che disciplinano l’agire della pubblica amministrazione o comunque con i principi di buon andamento ed imparzialità che devono informare il governo della cosa pubblica ai sensi dell’art. 97 Cost., perché l’atto sarebbe stato esattamente il medesimo anche in assenza della retribuzione. Ciò si connette alla ratio dell’incriminazione che è appunto tesa a contrastare il crearsi di relazioni interpersonali fra privati e pubblici funzionari connotate da logiche di tipo mercantilistico e, dunque, ad evitare che qualunque atto dell’ufficio  conforme o meno ai relativi doveri  sia oggetto di compravendita. Nel sanzionare il mercimonio per l’esercizio della funzione o dei poteri in conformità ai doveri d’ufficio, la norma assicura inoltre una tutela preventiva, anticipatoria, del bene protetto dalle fattispecie corruttive (che si individua, appunto, nel corretto funzionamento, nel buon andamento e nell’imparzialità dell’amministrazione della cosa pubblica), là dove la cosiddetta messa a libro paga del pubblico funzionario per attività conforme ai doveri d’ufficio costituisce all’evidenza un terreno fertile per un innalzamento del livello di gravità dell’agire illecito del pubblico ufficiale e, dunque, per il compimento di atti contrari a detti doveri (Sez. 6, 51765/2018).