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Art. 319 - Corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio

1. Il pubblico ufficiale che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro od altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei a dieci anni (1).

(1) Articolo sostituito dall’art. 7, L. 86/1990 e, successivamente, così modificato dall’art. 1, comma 75, lett. g), L. 190/2012 e dall’art. 1, comma 1, lett. f), L. 69/2015.

Rassegna di giurisprudenza

Elementi strutturali

Il delitto di corruzione si perfeziona alternativamente con l’accettazione della promessa ovvero con la dazione - ricezione dell’utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione - ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l’offesa tipica, il reato viene a consumazione (SU, 15208/2010).

Integra  il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, “ex post”, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge (Sez. 6, 4459/2017).

Ai fini dell’accertamento del delitto di corruzione propria, nell’ipotesi in cui risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale, è necessario dimostrare che il compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio sia stato la causa della prestazione dell’utilità e della sua accettazione da parte del pubblico ufficiale, non essendo sufficiente a tal fine la mera circostanza dell’avvenuta dazione (Sez. 6, 5017/2012).

Ai fini del reato di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio, è essenziale che il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, accetti la promessa di una retribuzione per un atto del suo ufficio o riceva per compierlo denaro o altra utilità, restando quindi indifferente che ad essa abbia fatto poi seguito o meno l’effettivo compimento dell’atto conforme o contrario ai doveri d’ufficio, in vista del quale la retribuzione è stata elargita o la promessa formulata. L’elemento sinallagmatico della fattispecie prevista dall’art. 319 è integrato anche dalla mera disponibilità mostrata dal pubblico ufficiale a compiere in futuro atti contrari ai doveri del proprio ufficio (Sez. 6, 16852/2019).

Nel reato di corruzione rileva l’accordo corruttivo, indipendentemente dall’effettivo compimento dell’atto contrario ai doveri di ufficio, che non fa parte della struttura del reato. In ordine al patto corruttivo, va dimostrata non solo la dazione indebita dal privato al pubblico ufficiale (o all’incaricato di pubblico servizio), beni anche la finalizzazione di tale erogazione all’impegno di un futuro comportamento contrario ai doveri di ufficio ovvero alla remunerazione di un già attuato comportamento contrario ai doveri di ufficio da parte del soggetto munito di qualifica pubblicistica. La prova della finalizzazione della dazione al comportamento antidoveroso del pubblico ufficiale può essere fornita anche in via indiziaria, in applicazione della previsione di cui all’art. 192, comma 2, CPP, secondo cui l’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti (Sez. 6, 16852/2019).

Quando l’accettazione della promessa e la ricezione dell’utilità sono unitarie, nel senso che sono riconducibili alla stessa fonte, anche se in funzione di una pluralità di atti da compiere, il reato rimane unico e la sua consumazione di verifica o con la sola accettazione del patto o con le dazioni ad esso susseguenti (Sez. 6, 16852/2019).

Non integra gli estremi del concorso di persone nel delitto di corruzione la condotta del terzo che, dopo la conclusione di un accordo corruttivo rispetto al quale è rimasto estraneo e senza che sia intervenuto un nuovo patto con effetti novativi, si adoperi per la realizzazione, in fase esecutiva, di tale accordo, non essendo configurabile una compartecipazione postuma al delitto medesimo, già consumatosi nel momento in cui il pubblico ufficiale ha accettato l'indebita utilità promessagli od offertagli dal privato corruttore. La partecipazione alla sola realizzazione di quanto pattuito nell'accordo, infatti, non modifica la struttura del patto già concluso tra soggetti diversi e non consente di aggiungere all'unico patto pregresso un nuovo contraente postumo, ma può assumere al più rilevanza penale in relazione ad altre fattispecie di reato. (Fattispecie in cui non veniva contestata la partecipazione dell’imputato all'accordo illecito convenuto tra la funzionaria pubblica e l'imprenditore privato, né venivano enucleati elementi che rinviassero ad un'attività di intermediazione tra corruttore e corrotto nella fase genetica dell'accordo o nel corso del suo divenire, ma la mera attività di esecuzione ed adempimento dell'accordo che comprendeva anche il disbrigo delle mansioni di autista e factotum dello stesso, stabilmente messo a disposizione della funzionaria e che, in tale veste, provvedeva ai pagamenti che dalla stessa le venivano richiesti. Si trattava, secondo la Suprema Corte, di un ruolo ictu oculi incompatibile con quello di intermediario, tanto è vero che il ricorrente, come ben evidenziato nel ricorso, veniva allontanato dall'auto quando la funzionaria e l'imprenditore dovevano trattare di temi di interesse delle loro attività) (Sez. 6, 4215/2022).

 

Rapporto con altre fattispecie

Occorre stabilire quale sia la linea di confine tra le due fattispecie di corruzione previste dal codice penale, dopo la riforma dell’art. 318, introdotta dalla L. 190/2012. La nuova formulazione della fattispecie, ora rubricata come “corruzione per l’esercizio della funzione”, ha invero inciso notevolmente nella struttura della stessa, mutandone la natura.

Si tratta ancora di una ipotesi meno grave di corruzione, come in passato, ma mentre nella precedente versione la fattispecie era pur sempre costruita come reato di danno (la violazione del principio di correttezza e del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale), connesso alla compravendita di un atto d’ufficio (purché non contrario ai doveri di ufficio, nel senso che la parzialità non doveva trasferirsi sull’atto, segnandolo di connotazioni privatistiche, restando pertanto l’unico possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici), nella nuova tipizzazione il legislatore ha inteso ricomprendere tutte le forme di “compravendita della funzione”, non connesse causalmente al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio.

Prima della riforma, restava invero non del tutto chiara la qualificazione di quelle condotte di “asservimento” della funzione da parte del pubblico ufficiale che si poneva, dietro compenso, “a disposizione” del privato in violazione dei doveri di imparzialità, onestà e vigilanza.

A fronte dell’accertamento di un accordo avente ad oggetto soltanto una generica disponibilità, senza la possibilità di individuare nei suoi connotati specifici l’atto contrario ai doveri d’ufficio, la giurisprudenza di legittimità, pur nel contesto di un’interpretazione ragionevolmente estensiva dell’art. 319, aveva affermato che era sufficiente che fosse individuabile il “genus” di atti da compiere, suscettibile di specificarsi in una pluralità di atti singoli non preventivamente fissati o programmati (Sez. 6, 30058/2012).

La nuova fattispecie ha inteso superare i limiti applicativi della previgente normativa codicistica, così da colmare lo iato tra diritto positivo e diritto vivente formatosi in ordine al concetto di atto di ufficio, punendo tutte quelle ipotesi di mercimonio connesse causalmente all’esercizio di pubblici funzioni o poteri, costituenti forme di generica messa a disposizione del pubblico funzionario.

Il nuovo testo dell’art. 318 non ha proceduto ad alcuna abolitio criminis, neanche parziale, delle condotte previste dalla precedente formulazione e ha, invece, determinato un’estensione dell’area di punibilità, in quanto ha sostituito alla precedente causale del compiendo o compiuto atto dell’ufficio, oggetto di “retribuzione”, il più generico collegamento, della dazione o promessa di utilità ricevuta o accettata, all’esercizio (non temporalmente collocato e, quindi, suscettibile di coprire entrambe le situazioni già previste nei due commi del precedente testo dell’articolo) delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, così configurando, per i fenomeni corruttivi non riconducibili all’area dell’art. 319, una fattispecie di onnicomprensiva “monetizzazione” del munus pubblico, sganciata in sé da una logica di formale sinallagma e idonea a superare i limiti applicativi che il vecchio testo presentava in relazione alle situazioni di incerta individuazione di un qualche concreto comportamento pubblico oggetto di mercimonio (Sez. 6, 49226/2014).

Si è infatti fatto notare che la riscrittura dell’art. 318 ha portato nell’assetto del delitto di corruzione un’importante novità: il baricentro del reato non è più l’atto di ufficio da compiere o già compiuto, ma l’esercizio della funzione pubblica. Il nuovo criterio di punibilità risulta pertanto ancorato al mero “esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”, a prescindere dal fatto che tale esercizio assuma carattere legittimo o illegittimo e, quindi, senza che sia necessario accertare l’esistenza di un nesso tra la dazione indebita e uno specifico atto dell’ufficio.

In definitiva, l’art. 318 contiene i divieti diretti al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli. In tal modo, il legislatore ha inteso, secondo la logica del pericolo presunto, prevenire la compravendita degli atti d’ufficio e garantire al contempo il corretto funzionamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione.

Il limite esterno del nuovo reato di cui all’art. 318, rispetto alla più grave fattispecie della corruzione propria, resta pur sempre l’ipotesi in cui sia accertato un nesso strumentale tra la dazione-promessa e il compimento di un determinato o comunque ben determinabile atto contrario ai doveri d’ufficio. In definitiva, come condivisibilmente già affermato (Sez. 6, 49226/2014), i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall’esperienza giudiziaria come “messa a libro paga del pubblico funzionario” o “asservimento della funzione pubblica agli interessi privati” o “messa a disposizione del proprio ufficio”, tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata  sussunti prima della riforma del 2012 nella fattispecie prevista dall’art. 319  devono essere ricondotti nella previsione della nuova fattispecie dell’art. 318, sempre che l’accordo o i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio.

Il discrimine tra le due ipotesi corruttive resta pertanto segnato dalla progressione criminosa dell’interesse protetto in termini di gravità (che giustifica la diversa risposta punitiva) da una situazione di pericolo (il generico asservimento della funzione) ad una fattispecie di danno, in cui si realizza la massima offensività del reato (con l’individuazione di un atto contrario ai doveri d’ufficio).

Nel primo caso la dazione indebita, condizionando la fedeltà ed imparzialità del pubblico ufficiale che si mette genericamente a disposizione del privato, pone in pericolo il corretto svolgimento della pubblica funzione; nell’altro, la dazione, essendo connessa sinallagmaticamente con il compimento di uno specifico atto contrario ai doveri d’ufficio, realizza una concreta lesione del bene giuridico protetto, meritando quindi una pena più severa (Sez. 6, 4486/2019).

La differenza tra le ipotesi criminose di cui agli artt. 318 e 319 sta nel fatto che nel primo caso, attraverso il collegamento con il privato, determinato dal pactum sceleris, si realizza una violazione del principio di correttezza e in qualche modo del principio del dovere di imparzialità del pubblico ufficiale, senza però che la “parzialità” si trasferisca nell’atto che resta quello unicamente possibile per attuare interessi esclusivamente pubblici; nel secondo caso, la parzialità si rivela nell’atto, segnandolo di connotazioni privatistiche e rendendolo, pertanto, illecito e contrario ai doveri di ufficio (Sez. 2, 53778/2018).

Configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio  e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318  lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (Sez. 6, 29267/2018).

Le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 condividono un nucleo fattuale comune, costituito dalla dazione/ricezione ovvero dalla promessa/accettazione della promessa di denaro o altra utilità, per sé o per altri.

Affinché possano ritenersi integrate le fattispecie corruttive di cui agli artt. 318 e 319 deve dunque sussistere (la prova di) un sinallagma fra la promessa o la dazione e l’asservimento della funzione o dei poteri o l’atto contrario ai doveri d’ufficio. L’indirizzo di legittimità è, difatti, stabilizzato nel senso di ritenere che, ai fini dell’integrazione del delitto di corruzione (propria o per vendita della funzione), non è sufficiente che risulti provata la dazione di denaro o di altra utilità in favore del pubblico ufficiale ovvero l’accettazione della promessa in tale senso, ma è necessario dimostrare che dazione o promessa fossero finalizzate all’esercizio dei poteri o della funzione ovvero al compimento dell’atto contrario ai doveri d’ufficio ovvero che ne siano state la causa (Sez. 6, 39008/2016).

In altri termini, è necessario che sia acclarata l’esistenza di una relazione di tipo finalistico-strumentale (al fine di) ovvero causale (per avere) fra la dazione/ricezione o la promessa/accettazione della promessa, da un lato, e la strumentalizzazione dei poteri del pubblico funzionario a favore del privato, dall’altro lato.

Le due incriminazioni divergono invece sulla “merce di scambio” della promessa o della dazione, là dove il delitto di cui all’art. 318 sanziona la vendita delle funzioni o dei poteri del pubblico agente  in senso finalistico-strumentale (cioè al fine di esercitare dette funzioni o poteri) ovvero in senso causale (cioè per avere esercitato dette funzioni o poteri) , mentre il delitto di cui all’art. 319 punisce il mercimonio della colpevole omissione o ritardo di un atto dell’ufficio ovvero il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio, sempre in senso finalistico-strumentale (cioè al fine di omettere o di ritardare l’atto d’ufficio ovvero di compiere l’atto contrario ai doveri d’ufficio) o causale (cioè per aver omesso o ritardato l’atto d’ufficio ovvero per avere compiuto l’atto contrario ai doveri d’ufficio).

Il delitto di cui all’art. 318 colpisce dunque la vendita della funzione o dei poteri pubblici senza alcuna contrarietà ai doveri d’ufficio, id est la mera infedeltà del pubblico ufficiale o dell’incaricato di un pubblico servizio, il quale si ponga al servizio di interessi privatistici - si metta cioè a libro paga del privato - pur mantenendo il proprio operato entro i binari della (formale) legalità. Diversamente, la seconda fattispecie postula che nell’agire del pubblico funzionario sia ravvisabile una divaricazione rispetto alle regole, ai limiti, alle prescrizioni e/o agli obblighi che disciplinano  e delimitano  i propri poteri, funzione e/o mansioni.

Occorre precisare come, ai fini dell’art. 319, il dovere d’ufficio non debba essere inteso in senso formale e come esso ricomprenda qualsiasi comportamento del pubblico ufficiale in contrasto con norme giuridiche o con istruzioni di servizio o che comunque violi i doveri di fedeltà, imparzialità e onestà che debbono osservarsi da chiunque eserciti una pubblica funzione.

Costituiscono dunque atti contrari ai doveri d’ufficio non soltanto quelli illeciti (perché vietati da atti imperativi) o illegittimi (perché dettati da norme giuridiche riguardanti la loro validità ed efficacia), ma anche quelli che, pur formalmente regolari, prescindono, per consapevole volontà del pubblico agente, dall’osservanza di doveri istituzionali espressi in norme di qualsiasi livello, ivi compresi quelli di correttezza ed imparzialità (Sez. 1, 25242/2011). È difatti pacifico che la violazione, nell’esercizio di pubbliche funzioni, del dovere di imparzialità sancito dall’art. 97 della Costituzione integri il requisito della violazione di norme di legge e, dunque, una contrarietà rispetto ai propri doveri di pubblico funzionario. Nulla quaestio, poi, quanto alla possibilità di ravvisare la fattispecie incriminatrice ex art. 319 anche qualora si tratti di atti caratterizzati da discrezionalità.

Si è più volte ravvisato il delitto di corruzione propria nella condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, eserciti i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l’interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l’elemento decisivo è costituito dalla “vendita” della discrezionalità accordata dalla legge (Sez. 6, 23354/2014).

Fra l’altro, nell’affermare il principio in oggetto, la Corte ha precisato che il versamento di una somma consistente è un elemento fortemente sintomatico della necessità per il privato di incidere sulla formazione del provvedimento amministrativo (Sez. 6, 4459/2017). Va altresì rimarcato come il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio possa essere ravvisato anche con riferimento alla espressione di un parere favorevole non vincolante così come di un voto favorevole rispetto ad un atto che si inserisca nel procedimento teso alla formazione dell’atto della pubblica amministrazione ed assuma rilevanza decisiva nella concatenazione degli atti che compongono la complessiva procedura amministrativa, e quindi incida sul contenuto dell’atto finale (Sez. 6, 8935/2015).

Proseguendo nella rassegna dei principi di diritto affermati per tracciare la linea di demarcazione fra i rispettivi ambiti di copertura delle due fattispecie di cui agli 318 e 319, va rilevato che il primo reato non postula l’individuazione di uno specifico atto (non contrario ai doveri d’ufficio) oggetto di mercimonio (sostanziandosi appunto il delitto nella vendita della “funzione”) e che, d’altra parte, l’individuazione dello specifico atto (in questo caso contrario ai doveri d’ufficio) per il quale il pubblico ufficiale abbia ricevuto somme di denaro o altre utilità non dovute, non è necessaria neanche ai fini dell’integrazione del delitto di cui all’art. 319, a condizione che, dal comportamento del pubblico funzionario, emerga comunque un atteggiamento diretto in concreto a vanificare la funzione demandatagli e dunque a violare i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici che sullo stesso incombono (Sez. 6, 22301/2012).

Infine, va dato conto dell’ormai consolidato approdo della giurisprudenza secondo il quale il reato di corruzione propria è ravvisabile anche in caso di “vendita della funzione” connotata da uno o più atti contrari ai doveri d’ufficio, i quali non costituiscano autonomi reati di corruzione, ma evidenzino soltanto il punto più alto della contrarietà ai doveri di correttezza che si impongono all’agente pubblico. Come si è affermato in diverse recenti pronunce, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale agli interessi personali di terzi attraverso il sistematico ricorso ad atti contrari ai doveri di ufficio non predefiniti, né specificamente individuabili ex post, ovvero mediante l’omissione o il ritardo di atti dovuti, integra il reato di cui all’art. 319 e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione di cui all’art. 318, il quale ricorre, invece, quando l’oggetto del mercimonio sia costituito dal compimento di atti dell’ufficio (Sez. 6, 8211/2016).

Nell’ipotesi di stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d’ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri si realizza dunque un fenomeno unitario, una forma di progressione criminosa, che, in forza del principio dell’assorbimento, consente un unico inquadramento giuridico sotto la fattispecie più grave della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (Sez. 6, 40237/2016).

La fattispecie prevista dall’art. 318 ha, pertanto, un ambito di operatività residuale, potendo ravvisarsi soltanto nell’ipotesi in cui il mercimonio abbia ad oggetto la funzione o i poteri – o comunque uno o più atti  conformi ai doveri d’ufficio. In altri termini, tale ipotesi corruttiva è ravvisabile soltanto qualora la remunerazione del pubblico funzionario da parte del privato non si sia tradotta, in concreto, in un atto contrastante con le regole che disciplinano l’agire della pubblica amministrazione o comunque con i principi di buon andamento ed imparzialità che devono informare il governo della cosa pubblica ai sensi dell’art. 97 Cost., perché l’atto sarebbe stato esattamente il medesimo anche in assenza della retribuzione.

Ciò si connette alla ratio dell’incriminazione che è appunto tesa a contrastare il crearsi di relazioni interpersonali fra privati e pubblici funzionari connotate da logiche di tipo mercantilistico e, dunque, ad evitare che qualunque atto dell’ufficio – conforme o meno ai relativi doveri  sia oggetto di compravendita.

Nel sanzionare il mercimonio per l’esercizio della funzione o dei poteri in conformità ai doveri d’ufficio, la norma assicura inoltre una tutela preventiva, anticipatoria, del bene protetto dalle fattispecie corruttive (che si individua, appunto, nel corretto funzionamento, nel buon andamento e nell’imparzialità dell’amministrazione della cosa pubblica), là dove la cosiddetta messa a libro paga del pubblico funzionario per attività conforme ai doveri d’ufficio costituisce all’evidenza un terreno fertile per un innalzamento del livello di gravità dell’agire illecito del pubblico ufficiale e, dunque, per il compimento di atti contrari a detti doveri (Sez. 6, 51765/2018).

Il reato di concussione e quello di induzione indebita a dare o promettere utilità si differenziano dalle fattispecie corruttive, in quanto i primi due illeciti richiedono, entrambi, una condotta di prevaricazione abusiva del funzionario pubblico, idonea, a seconda dei contenuti che assume, a costringere o a indurre “l’extraneus”, comunque in posizione di soggezione, alla dazione o alla promessa indebita, mentre l’accordo corruttivo presuppone la “par condicio contractualis” ed evidenzia l’incontro libero e consapevole della volontà delle parti (SU, 12228/2014).

Configura il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio  e non il più lieve reato di corruzione per l’esercizio della funzione, di cui all’art. 318  lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, che si traduca in atti, che, pur formalmente legittimi, in quanto discrezionali e non rigorosamente predeterminati, si conformano all’obiettivo di realizzare l’interesse del privato nel contesto di una logica globalmente orientata alla realizzazione di interessi diversi da quelli istituzionali (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima la qualificazione ai sensi degli artt. 319 e 321 della condotta di un rappresentante farmaceutico che aveva corrisposto denaro ad un primario ospedaliero in cambio dell’impegno di quest’ultimo a prescrivere a tutti i pazienti un determinato farmaco antitumorale, rilevando che la relativa prescrizione doveva essere frutto di un meditato apprezzamento del quadro clinico del paziente nonché di una valutazione comparativa tra i benefici perseguiti ed i rischi connessi alla terapia farmacologica) (Sez. 6, 46492/2017).

In tema di delitti di corruzione, l’”atto d’ufficio” non deve essere inteso in senso strettamente formale in quanto esso è integrato anche da un comportamento materiale che sia esplicazione di poteri-doveri inerenti alla funzione concretamente esercitata (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto configurabile il delitto di corruzione propria, in concorso con quello di turbata libertà degli incanti, nella condotta del pubblico ufficiale che, al fine di favorire l’aggiudicazione di una gara di appalto ad una società, in cambio del versamento di importi in denaro già corrisposti e dell’impegno di corrispondere ulteriori somme e utilità, si era impegnato anche a sostituire fraudolentemente la proposta tecnica presentata da quest’ultima con altra più adeguata agli standard di gara) (Sez. 6, 17586/2017).

È configurabile il concorso formale tra il reato di corruzione e quello di turbata libertà degli incanti atteso che tali fattispecie criminose tutelano differenti beni giuridici: il primo protegge l’interesse dell’Amministrazione alla fedeltà e all’onestà dei funzionari e, dunque, i principi di corretto funzionamento, buon andamento e imparzialità nell’amministrazione della cosa pubblica; il secondo protegge la libertà di partecipazione alla gara e la regolarità formale e sostanziale del suo svolgimento (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi l’ordinanza custodiale, emessa per i reati corruzione e turbata libertà degli incanti, in relazione ad un accordo illecito intercorso tra il pubblico ufficiale ed il legale rappresentante di una società avente ad oggetto la promessa del primo di favorire la seconda, anche attraverso la fraudolenta sostituzione della proposta tecnica presentata da quest’ultima con altra più adeguata agli standard di gara, nell’aggiudicazione di una gara di appalto in cambio del versamento di importi in denaro già corrisposti e dell’impegno di corrispondere ulteriori somme e utilità) (Sez. 6, 17586/2017).

In tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d’ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura l’unico reato, permanente, previsto dall’art. 319, con assorbimento della meno grave fattispecie di cui all’art. 318 stesso codice (Sez. 6, 40237/2016).

Non integra il reato di corruzione impropria, secondo la previsione dell’art. 318 antecedente alla entrata in vigore della L. 190/2012, la condotta del pubblico ufficiale consistita in un generico asservimento agli interessi del privato, qualora non siano determinati o determinabili gli atti in concreto posti in essere a fronte della dazione indebita ricevuta (in motivazione, la Corte ha precisato che la condotta indicata integra il reato di corruzione impropria attualmente vigente) (Sez. 6, 39008/2016).