Art. 48 - Errore determinato dall’altrui inganno
1. Le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinata a commetterlo.
Rassegna di giurisprudenza
È configurabile la falsità ideologica per errore determinato dall’altrui inganno in relazione alla parte dell’atto in cui il pubblico ufficiale attesta falsamente, anche senza esplicitarla formalmente, l’esistenza di una data situazione di fatto costituente il presupposto indispensabile per il compimento dell’atto (SU, 1827/1995).
La disciplina dell’autore mediato di cui all’art. 48 esige che dell’errore sul fatto integrativo del reato e determinato dall’inganno risponda del reato chi ha determinato la persona ingannata a commetterlo (Sez. 6, 3368/2018).
Costituisce jus receptum che l’inganno da cui deriva la responsabilità ex art. 48 (errore determinato dall’altrui inganno) può consistere, in qualunque artificio o altro comportamento atto a sorprendere l’altrui buona fede, attraverso il quale l’autore mediato induca in errore l’autore immediato del delitto (Sez. 6, 10159/1989).
La responsabilità dell’autore mediato ex art. 48 si configura anche in relazione ai reati cosiddetti propri in cui la qualifica del soggetto attivo è presupposto o elemento costitutivo della fattispecie criminosa. Pertanto risponde di peculato anche l’estraneo che, traendo in inganno il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, si appropri per tramite di questi di una cosa dagli stessi posseduta per ragioni del loro ufficio (Sez. 6, 4411/1996).
L’art. 48 prevede, con disposizione di carattere generale, che, per il fatto commesso per errore determinato dall’altrui inganno, risponde l’autore dell’inganno. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, trattasi di precetto applicabile anche nel caso di reati propri, presupponenti la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (Sez. 5, 35006/2015, in tema di falso ideologico in atto pubblico nonché Sez. 6, 39039/2013, in tema di peculato). In via del tutto incidentale, una decisione ha anche affermato l’ipotizzabilità, in astratto, e senza farne applicazione nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, dell’abuso d’ufficio per induzione in errore, quando difetti l’elemento psicologico in capo al pubblico ufficiale (così Sez. 6, 40303/2014).
La dottrina, tuttavia, risulta critica in ordine all’applicabilità di tale disposizione ai reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, osservando, generalmente, che queste tipologie di delitti costituiscono reati d’obbligo, nei quali il disvalore del fatto è connotato dall’abuso delle funzioni delle funzioni o del servizio esercitato, che impone come elemento imprescindibile la partecipazione dolosa dell’intraneus, e che, al più, in materia, potrebbe essere configurabile il delitto di truffa aggravata del privato ex art. 640, secondo comma, n. 1.
Deve osservarsi che il problema assume connotazioni particolari con riferimento al delitto di abuso di ufficio, atteso che per la sua integrazione è necessario il dolo intenzionale del soggetto agente. Ed infatti, la decisione del legislatore di introdurre l’elemento dell’intenzionalità è stata determinata dall’esigenza di selezionare l’area del penalmente rilevante non solo in funzione del pregiudizio al bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice, e, quindi, all’imparzialità ed al buon andamento della pubblica amministrazione, ma anche in considerazione del particolare atteggiamento psichico del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, con la prescrizione della necessità di uno specifico e peculiare coefficiente di colpevolezza in deroga all’ordinario criterio di imputazione di cui agli artt. 42 e 43.
Risulta perciò ragionevole inferire la necessità che, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 323, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio procuri, o concorra nel procurare, l’evento di danno o di vantaggio ingiusto non solo con la sua partecipazione materiale, ma anche agendo intenzionalmente a tal fine (Sez. 6, 54536/2016).
L’inganno con il quale un funzionario induce in errore l’organo della pubblica amministrazione della quale egli stesso fa parte, perché sottoscriva un titolo che gli consenta di entrare in possesso del denaro dal quale trarrà poi illecito profitto, determina la responsabilità dell’agente a titolo di peculato, ai sensi dell’art. 48. Infatti, se il pubblico ufficiale indotto in errore avesse invece agito dolosamente, cioè con la consapevole volontà di destinare il denaro dell’ente a profitto di colui che poi se ne è appropriato, sarebbe stato punibile come responsabile di peculato: di questo stesso reato deve quindi rispondere in sua vece colui che, inducendolo in errore, lo ha determinato a commettere il fatto (Sez. 6, 139/1972).
In virtù del disposto dell’art. 48, colui che abbia tratto in inganno il pubblico ufficiale risponde del fatto-reato secondo il titolo per il quale sarebbe stato chiamato a risponderne lo stesso pubblico ufficiale, non in base ad una forma di concorso nel reato, ma ad una forma di reità mediata, che alla punibilità dell’autore materiale, esclusa per difetto dell’elemento psicologico, sostituisce quella di colui che ha posto in essere l’inganno (Sez. 5, 11413/1985).
Il permesso di soggiorno rilasciato a cittadini extracomunitari è un atto pubblico, con la conseguenza che commette il reato di cui agli artt. 48 e 479 il soggetto che alleghi dati non corrispondenti al vero, inducendo in errore con l’inganno il pubblico ufficiale, per ottenere la concessione del permesso (Sez. 5, 19924/2005).
È configurabile il delitto di peculato, anche in applicazione dell’art. 48, quando l’atto finale del procedimento di spesa è emesso da pubblici ufficiali indotti in errore dai pubblici agenti che si sono occupati di istruire la fase istruttoria (Sez. 6, 39039/2013).
In dottrina, il tema dell’applicabilità dell’art. 48 alla fattispecie di peculato ha dato luogo ad opinioni diverse. Secondo un diffuso indirizzo, la disposizione appena citata, sebbene in linea generale deve ritenersi consentire l’applicazione della disciplina del reato cd. proprio nei confronti dell’estraneo anche quando il soggetto dotato della qualifica soggettiva necessaria agisce senza colpevolezza, non opererebbe quando a costituire l’offesa all’interesse tutelato concorre un particolare disvalore di condotta, per la cui realizzazione è necessaria la dolosa partecipazione di un soggetto qualificato. Muovendo da questa premessa, alcuni studiosi sostengono che in tutti i reati contro la pubblica amministrazione è necessaria la dolosa partecipazione del soggetto qualificato.
Altri autori, però, pur condividendo la premessa indicata, ritengono non integralmente condivisibile tale conclusione, e, con specifico riferimento al peculato, rilevano che la soluzione dipende dall’individuazione dell’interesse tutelato: sviluppando questa prospettiva, vi è chi afferma che la risposta sarà positiva o negativa a seconda che si ritenga che nel delitto previsto dall’art. 314 l’interesse protetto sia soltanto il patrimonio della pubblica amministrazione o anche il dovere di lealtà del pubblico ufficiale, e chi, ancor più nettamente, esclude l’esistenza di ostacoli alla combinazione tra le disposizioni di cui agli artt. 48 e 314 se detto interesse debba individuarsi nel patrimonio, «o anche nel patrimonio», della pubblica amministrazione.
Altra opinione, invece, reputa che l’art. 48 avrebbe una specifica funzione incriminatrice e consentirebbe di affermare comunque la responsabilità del decipiens quando la mancanza di dolo in capo all’autore materiale della condotta illecita derivi dall’inganno. Il collegio ritiene che debba ritenersi configurabile il delitto di peculato, anche a norma dell’art. 48, quando il denaro o l’altra cosa mobile è nella disponibilità giuridica concorrente di più pubblici ufficiali, ed uno di essi se ne appropria inducendo in errore gli altri, pure se questi ultimi siano i soggetti competenti ad emettere l’atto finale del procedimento.
La premessa di questa affermazione di principio è costituita dal rilievo che, nelle cd. "procedure complesse", come appunto le ordinarie procedure di spesa pubblica, la disponibilità giuridica del bene – che costituisce, in alternativa al possesso, il presupposto della condotta rilevante a norma dell’art. 314 – è frazionata dall’ordinamento giuridico tra più organi, e, quindi, tra più persone fisiche.
Questo frazionamento non può ritenersi escludere la configurabilità del delitto di peculato, poiché l’art. 314 indica come presupposto della condotta illecita «il possesso o comunque la disponibilità» del bene, ma non anche l’esclusività di tale possesso o di tale disponibilità. Può aggiungersi, d’altro canto, che, se si escludesse l’ammissibilità di una disponibilità giuridica concorrente tra più persone, in quanto preposte ai diversi organi competenti a provvedere in modo coordinato tra di loro in ordine al denaro (o ad altra cosa mobile), si dovrebbe arrivare alla conclusione che, nei casi di "procedure complesse", nessun organo, e, quindi, nessun soggetto ha la disponibilità giuridica del bene (cfr., per questa osservazione, Sez. 5, 1595/2015).
Ciò posto, il pubblico agente che "co-detiene" la disponibilità giuridica della cosa mobile, anche quando induce in errore gli altri pubblici ufficiali con concorrenza competente sulla stessa, al fine di appropriarsene, abusa comunque della propria già esistente disponibilità in ordine al bene. Precisamente, quando il decipiens, in ragione dell’ufficio o servizio pubblico di cui è incaricato, è anche titolare della disponibilità giuridica sulla cosa mobile, la combinazione tra la previsione di cui all’art. 48 e quella di cui all’art. 314 consente di ritenere il delitto di peculato a carico di chi, simultaneamente, non solo inganna gli altri pubblici agenti dotati di competenza concorrente, ma anche, e specificamente, abusa di questa sua già esistente disponibilità sul bene conferitagli dall’ordinamento.
Nell’ipotesi indicata, d’altro canto, sono ravvisabili sia la dolosa partecipazione di un soggetto munito della qualifica richiesta, sia la violazione dello specifico dovere di lealtà del pubblico agente che viene in rilievo nella fattispecie di peculato; pertanto, non ricorrono neppure gli ostacoli che parte della dottrina oppone alla applicabilità della disciplina prevista dall’art. 48 alla figura criminosa del peculato. Una volta ammessa l’applicazione del combinato disposto degli artt. 48 e 314 in riferimento alla condotta di un pubblico agente, non sembrano ipotizzabili nemmeno problemi derivanti dall’astratta configurabilità della fattispecie di truffa aggravata a norma dell’art. 61, n. 9, in ragione del principio di specialità.
Invero, è la disciplina relativa al peculato per induzione in errore a presentarsi come speciale rispetto all’altra, proprio perché caratterizzata dalla precedente disponibilità giuridica, sia pur concorrente, in ordine al bene oggetto di appropriazione. D’altro canto, in relazione a fatti riferibili alla tipologia di vicende in esame, se si ritenesse configurabile la truffa aggravata, sarebbe sempre preclusa l’applicazione del combinato disposto degli artt. 48 e 314, mentre a ravvisare l’operatività di quest’ultima disciplina, la fattispecie di truffa aggravata a norma dell’art. 61, n. 9, conserverebbe comunque una sua sfera di intervento nelle ipotesi in cui il pubblico agente non abbia la disponibilità o co-disponibilità del bene (Sez. 6, 10762/2018).
L’art. 48 prevede, con disposizione di carattere generale, che, per il fatto commesso per errore determinato dall’altrui inganno, risponde l’autore dell’inganno. Secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza, trattasi di precetto applicabile anche nel caso di reati propri, presupponenti la qualifica di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio (Sez. 5, 35006/2015, in tema di falso ideologico in atto pubblico nonché Sez. 6, 39039/2013, in tema di peculato). In via del tutto incidentale, una decisione ha anche affermato l’ipotizzabilità, in astratto, e senza farne applicazione nella fattispecie concreta sottoposta al suo esame, dell’abuso d’ufficio per induzione in errore, quando difetti l’elemento psicologico in capo al pubblico ufficiale (Sez. 6, 40303/2014).
La dottrina, tuttavia, risulta critica in ordine all’applicabilità di tale disposizione ai reati commessi dai pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, osservando, generalmente, che queste tipologie di delitti costituiscono reati d’obbligo, nei quali il disvalore del fatto è connotato dall’abuso delle funzioni delle funzioni o del servizio esercitato, che impone come elemento imprescindibile la partecipazione dolosa dell’intraneus, e che, al più, in materia, potrebbe essere configurabile il delitto di truffa aggravata del privato ex art. 640, secondo comma, n. 1.
Deve osservarsi che il problema assume connotazioni particolari con riferimento al delitto di abuso di ufficio, atteso che per la sua integrazione è necessario il dolo intenzionale del soggetto agente. Ed infatti, la decisione del legislatore di introdurre l’elemento dell’intenzionalità è stata determinata dall’esigenza di selezionare l’area del penalmente rilevante non solo in funzione del pregiudizio al bene giuridico tutelato dalla fattispecie incriminatrice, e, quindi, all’imparzialità ed al buon andamento della pubblica amministrazione, ma anche in considerazione del particolare atteggiamento psichico del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, con la prescrizione della necessità di uno specifico e peculiare coefficiente di colpevolezza in deroga all’ordinario criterio di imputazione di cui agli artt. 42 e 43 cod. pen.
Risulta perciò ragionevole inferire la necessità che, ai fini della configurazione del reato di cui all’art. 323 cod. pen., il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio procuri, o concorra nel procurare, l’evento di danno o di vantaggio ingiusto non solo con la sua partecipazione materiale, ma anche agendo intenzionalmente a tal fine (Sez. 6, 54536/2016).
Non può certamente essere ritenuto responsabile di diffamazione il giornalista che sia rimasto vittima di un involontario infortunio per aver pubblicato dichiarazioni che, pur avendo resistito a tutte le più serie verifiche di attendibilità, siano risultate false. Si verserà, infatti, in un caso di errore sul fatto costituente reato determinato dall’altrui inganno; un errore che, a norma dell’art. 48, esclude la punibilità della persona ingannata. Tuttavia è evidente che questa prospettiva di non punibilità non è percorribile quando il giornalista riferisca dichiarazioni la cui punibilità per diffamazione non dipende dal difetto di veridicità, bensì dal difetto del requisito della "continenza".
La posizione del giornalista non potrebbe essere, quindi, distinta da quella dell’autore delle dichiarazioni, quando queste consistano di insulti ovvero di quelle espressioni che la giurisprudenza definisce "gratuite", nel senso di non necessarie all’esercizio del diritto di critica, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti (Sez. 5, 7260/2016).