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Art. 150 - Morte del reo prima della condanna

1. La morte del reo, avvenuta prima della condanna, estingue il reato.

Rassegna di giurisprudenza

La sentenza di condanna emessa dopo la morte del reo è giuridicamente inesistente, mancando il soggetto processuale contro il quale deve essere fatta valere la pretesa punitiva e nei cui confronti la sentenza stessa è pronunciata. Spetta al giudice che ha pronunciato la sentenza il potere-dovere di dichiararne la inesistenza giuridica in dipendenza della estinzione del reato per morte del reo avvenuta anteriormente alla pronuncia dell’anzidetta sentenza (SU, 3489/1982).

La morte dell’imputato determina il venir meno di uno dei soggetti del rapporto processuale, sicché resta interdetta qualsiasi pronuncia sui motivi dell’impugnazione, presupponendo la relativa decisione l’esistenza del soggetto che ha proposto il ricorso (SU, 30/2000).

La comunicazione del decesso dell’imputato determina l’instaurazione ex officio della procedura correttiva, esperibile "in ogni momento e senza formalità" ai sensi dell’art. 625-bis, comma 3, CPP (siccome novellato dalla L. 103/2017), atteso che la tardiva conoscenza della morte dell’imputato è equiparabile a un errore materiale o di fatto, incombendo su ogni giudice penale l’obbligo, non codificato ma permanente, di accertare lo stato in vita dell’imputato come indefettibile condizione di procedibilità (Sez. 5, 41418/2018).

La causa estintiva derivante dalla morte dell’imputato è rilevabile in ogni stato e grado del giudizio (Sez. 4, 36524/2008).

Anche se il difensore dell’imputato abbia, a norma dell’art. 571, comma terzo, CPP, un autonomo potere di impugnazione, la sua legittimazione ad impugnare viene meno con la morte dell’imputato, atteso che la stessa fa cessare gli effetti della nomina (Sez. 3, 35217/2007).

Nel caso di imputato deceduto nel corso del giudizio di merito e di ricorso per cassazione successivamente proposto dal difensore di fiducia che lo aveva assistito, la impugnazione è inammissibile per difetto di legittimazione del proponente, dato che il mandato difensivo conferito a suo tempo dall’imputato si è estinto per la morte del medesimo. Tale inammissibilità, tuttavia, non preclude la possibilità di rilevare la causa estintiva. Come invero ribadito anche di recente dalle Sezioni unite, sebbene l’inammissibilità del ricorso per cassazione non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare eventuali cause di estinzione del reato a norma dell’art. 129 CPP, la morte del reo, unitamente all’accertamento dell’abolitio criminis o della dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice formante oggetto dell’imputazione derogano a tale principio costituendo le uniche ipotesi di cognizione da parte del giudice dell’impugnazione inammissibile.

Si è infatti precisato che i casi di abolitio criminis e dichiarazione di incostituzionalità della norma incriminatrice, determinando la revoca della sentenza di condanna da parte del giudice dell’esecuzione ex art. 673 CPP, ben possono essere rilevati, pur in presenza di un ricorso inammissibile, dal giudice della cognizione, che si limita ad anticipare, per ragioni di economia processuale, gli esiti obbligati della fase esecutiva; l’eventuale declaratoria d’inammissibilità, infatti, avrebbe vita effimera e non impedirebbe il successivo intervento derogatorio in executivis. Per quanto riguarda invece la morte dell’imputato avvenuta prima della condanna, essa determina l’immediata risoluzione del rapporto processuale, tanto che qualunque provvedimento adottato nei confronti di un imputato, ignorandone l’intervenuto decesso, è da considerarsi inesistente giuridicamente, poiché viene a mancare il soggetto (parte processuale necessaria) contro cui far valere la pretesa punitiva.

Spetta allo stesso giudice che ha emesso un simile provvedimento il potere-dovere di dichiararne l’inesistenza giuridica e di dare atto dell’intervenuta estinzione del reato per morte dell’imputato anteriormente alla pronuncia dell’anzidetto provvedimento, che può consistere anche nella dichiarazione di inammissibilità del ricorso il che indirettamente conferma la natura recessiva di questa rispetto alla richiamata causa estintiva (Sez. 4, 15201/2018).

La Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 150 (ordinanza 35/1965), ha ricordato che "Il termine reo, nell’art. 150 non ha affatto il significato di "colpevole", come si assume nell’ordinanza, le cui argomentazioni sono smentite dalla relazione al Codice di procedura penale del 1930, la quale ha chiaramente spiegato le ragioni per le quali alla dizione "morte dell’imputato", usata dal precedente Codice, è da preferirsi "morte del reo". Il legislatore ha inteso, invero, dare alla parola un significato ben diverso da quello di persona dichiarata colpevole, ed evitare nel contempo il richiamo ad altra nozione che sarebbe di carattere processuale.

Ed in ciò concordando anche la dottrina  e nessun dubbio essendo stato giammai sollevato nella pratica applicazione della norma  non appare per nulla giustificato il dissenso manifestato dalla ordinanza e basato su argomenti, che possono condurre ad una sola conclusione: che cioè il Codice penale adotta, in modo più o meno appropriato, il termine "reo" per indicare talvolta l’imputato e talvolta il condannato. E poiché, nell’uso delle parole, l’importante è che ognuno sappia intenderle nel significato loro attribuito, la questione è manifestamente infondata, com’è altresì confermato dal rilievo che la norma di legge deve necessariamente ricorrere all’uso di un termine per indicare il soggetto la cui morte importa la estinzione del reato, mentre il giudice non è affatto vincolato a ripetere nella decisione le stesse parole del Codice, nulla vietando che egli si avvalga di altro termine, o tecnico, quale "imputato", oppure privo di ogni qualificazione giuridica".

Successivamente, le Sezioni unite (SU, 6682/1992), hanno affermato il principio di diritto secondo il quale, il principio espresso nell’art. 152, comma secondo, CPP (previgente) sottolinea come il fatto della sopravvenienza di una causa estintiva del reato, operativa "ex nunc", non può porre nel nulla la realtà acquisita nel procedimento che il fatto ascritto all’imputato non sussiste o non è previsto dalla legge come reato o non è stato commesso dall’imputato stesso.

Una siffatta realtà deve prevalere anche nel caso in cui la causa estintiva del reato sia quella della sopravvenuta morte del reo; ciò sia per la rilevanza sostanziale del riconoscimento dell’innocenza di una persona accusata, che non cessa per effetto della sua morte, residuando l’interesse dei congiunti e degli eredi alla tutela della memoria, sia perché, permanendo talune conseguenze non indifferenti nonostante l’estinzione del reato (la morte del reo non estingue infatti le obbligazioni civili derivanti dal reato e quelle concernenti le spese processuali ed, eventualmente di mantenimento in carcere), non v’è ragione  in virtù del principio di eguaglianza e per considerazioni di economia processuale  che i congiunti e gli eredi del defunto ne debbano subire il peso solo per la casualità della sopravvenienza della morte del loro dante causa, rispetto alla miglior sorte dell’imputato vivente, che avrebbe viceversa il vantaggio di vedere riconosciuta la propria innocenza, sia, infine, perché la surricordata norma non fa distinzione tra le cause estintive ed il suo senso più pregnante è quello della tutela dell’innocenza della persona vivente al momento in cui è stata promossa l’azione penale.

L’autorevole insegnamento, successivamente ripreso da altre sentenze di legittimità (da ultimo, Sez. 6, 6427/2017), presuppone che la morte sopravvenga alla dichiarata innocenza dell’imputato, sicché esso non può essere tralaticiamente "esportato" al caso in cui la morte sopraggiunga alla condanna (Sez. 3, 15755/2018).

La formula "estinzione per morte dell’imputato" si impone, in luogo di quella indicata dall’art. 150 (che evoca la «morte del reo») in ossequio a quanto osservato dalla giurisprudenza costituzionale (Corte costituzionale, sentenza 35/1965), secondo la quale l’art. 150, prescrivendo che «la morte del reo, avvenuta prima della condanna estingue il reato», non è in contrasto con l’art. 27 della Costituzione, per il quale «l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva», e ciò per il rilievo che «il termine "reo" nell’art. 150 non ha affatto il significato di "colpevole" ed è stato usato in sostituzione del termine "imputato" soltanto per evitare il richiamo ad una nozione di carattere processuale.

La questione di legittimità costituzionale proposta nei suddetti termini è pertanto manifestamente infondata, come è confermato dal rilievo che la norma di legge deve necessariamente ricorrere all’uso di un termine per indicare il soggetto la cui morte importa la estinzione del reato, mentre il giudice non è affatto vincolato a ripetere nella decisione le stesse parole del codice, nulla vietando che egli si avvalga di altro termine, tecnico, quale "imputato", oppure privo di ogni qualificazione giuridica (Sez. 7, 36513/2017).