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Art. 85 - Capacità d’intendere e di volere

1. Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile.

2. È imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere.

Rassegna di giurisprudenza

Prima di valutare la condizione di imputabilità del soggetto attivo del reato, occorre individuare preliminarmente i «requisiti bio-psicologici che facciano ritenere che il soggetto sia in grado di comprendere e recepire il contenuto del messaggio normativo connesso alla previsione della sanzione punitiva». Ed è solo sulla base di questa preliminare e indispensabile ricognizione nosografica che il giudice potrà provvedere all’individuazione delle «condizioni di rilevanza giuridica dei dati forniti dalle scienze empirico-sociali», su cui fondare le sue determinazioni processuali, rilevanti sia ai fini della formulazione di un giudizio di colpevolezza dell’imputato sia ai fini del riconoscimento delle circostanze oggetto di contestazione (SU, 9163/2005).

Ai fini dell'accertamento della capacità di intendere e di volere dell'imputato rilevano anche gli accertamenti peritali compiuti in procedimenti diversi, purché riferibili ad epoca corrispondente ed a fatti eziologicamente omogenei. (In applicazione del principio, la Suprema Corte ha annullato l’ordinanza impugnata, disponendo la restituzione degli atti al Tribunale di Catania, competente ai sensi dell'art. 309, comma 7, c.p.p. per nuovo esame sul punto, da compiere alla stregua delle suindicate direttrici interpretative. In particolare, secondo la Corte, il tribunale non aveva tenuto in alcun conto l'esito dell'accertamento peritale disposto nel procedimento principale, il cui elaborato era stato prodotto agli atti all'udienza di convalida dell'arresto e poi dinanzi al tribunale dell'appello cautelare, da cui risultava
che l'indagato era affetto da grave disturbo della personalità di tipo antisociale e per questo era stato prosciolto nel procedimento principale e rimesso in libertà) (Sez. 6, 7080/2022).

Il complesso normativa costituito dagli artt. 85, 88, 89 e 90 richiede, ai fini della esclusione o della attenuazione di essa, una infermità di natura ed intensità tali da compromettere i processi conoscitivi, valutativi e volitivi della persona, eliminando o scemando la capacità di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi autonomamente (sempre a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale). Le cosiddette "anormalità psichiche", quali le nevrosi o le psicopatie, non indicative di uno stato morboso a differenza delle psicosi acute o croniche, non sono annoverabili tra le infermità mentali anzidette e non sono rilevanti ai fini dell’applicazione degli artt. 88 e 89 (Sez. 1, 52951/2014). Spetta tuttavia al giudice la valutazione delle risultanze processuali, ivi compresa la richiesta di giudizio abbreviato quale atto personale incompatibile con l’esistenza di vizi di mente, per apprezzare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità, la meritevolezza della richiesta di perizia psichiatrica (Sez. 3, 55301/2016). Va infine precisato che l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisce questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata (Sez. 4, 2318/2018).

La situazione di tossicodipendenza che influisce sulla capacità di intendere e di volere è solo quella che, per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione, provoca alterazioni patologiche permanenti, cioè una patologia a livello cerebrale implicante psicopatie che permangono indipendentemente dal rinnovarsi di un’azione strettamente collegata all’assunzione di sostanze stupefacenti, tali da fare apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte a una vera e propria malattia psichica (Sez. 6, 25252/2018).

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che, ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i disturbi della personalità, che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di infermità, purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale. Ne consegue che nessun rilievo, ai fini dell’imputabilità, deve essere dato ad altre anomalie caratteriali o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché agli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano, eccezionalmente, in un quadro più ampio di infermità (SU, 9163/2005). Esula dalla nozione di infermità mentale il gruppo delle cosiddette abnormità psichiche come nevrosi d’ansia o reazioni «a corto circuito», che hanno natura transitoria e non sono indicative di uno stato morboso, inteso come ragionevole alterazione della capacità di intendere e di volere, sicché non sono in grado di incidere sull’imputabilità del soggetto che ne è portatore (Sez. 1, 6470/2017).

L’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato costituisce questione di fatto la cui valutazione compete al giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se esaurientemente motivata, anche con il solo richiamo alle valutazioni delle perizie, se immune da vizi logici e conforme ai criteri scientifici di tipo clinico e valutativo. Inoltre, spetta al giudice di merito la valutazione delle risultanze processuali per apprezzare, con giudizio insindacabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata motivazione, la meritevolezza di una richiesta di perizia psichiatrica (Sez. 1, 6470/2017).

Nel nostro sistema giuridico-penale il vizio parziale di mente non è incompatibile con l’elemento soggettivo del reato in quanto essi implicano due concetti operanti su piani diversi: l’uno riconduce alla imputabilità del soggetto, secondo la nozione fornita dallo art. 85, ossia a una condizione personale il cui contenuto è la capacità di intendere e di volere, l’altro al rapporto tra il volere del soggetto e un determinato atto preveduto dalla legge come reato; consegue che il reato commesso da un seminfermo di mente non si sottrae all’indagine relativa all’elemento soggettivo per accertare se esso sia attribuibile alla sua volontà. Accertato l’elemento intenzionale del reato, risultante dalla volontà dell’agente e dalla rappresentazione dell’evento da parte del medesimo, la condizione di seminfermità mentale non obbliga il giudice ad alcuna particolare indagine sul dolo, in ipotesi di dolo generico, che non resta escluso dal vizio parziale di mente. Infatti, nello status di imputabilità diminuita per vizio parziale di mente residua pur sempre, anche se scemata, la capacità di intendere e di volere (Sez. 4, 58270/2018).

La giurisprudenza ha ripetutamente affermato che, in tema di patteggiamento, la manifestazione di volontà espressa dall’imputato (sia che assuma l’iniziativa del concordato sulla pena, sia che aderisca alla proposta del PM) è un atto negoziale personalissimo che presuppone necessariamente la capacità di intendere e di volere al momento del suo compimento. Il giudice è dunque tenuto ad accertare d’ufficio la capacità di intendere e di volere dell’imputato e la sua capacità di stare in giudizio, con la conseguenza che è invalido l’accordo negoziale qualora emerga, anche successivamente all’emissione della sentenza, che l’imputato non aveva tali capacità al momento in cui ha espresso la sua volontà (Sez. 6, 38454/2017).

Si è a tale proposito spiegato che l’istituto del c.d. patteggiamento, disciplinato dall’art. 444 CPP si fonda sulla manifestazione di un consenso del quale deve essere comunque valutata la validità, in rapporto alla capacità dell’imputato di determinarsi consapevolmente e di valutare gli effetti della manifestazione di volontà. Ciò in quanto la capacità di intendere e di volere e la capacità di stare in giudizio costituiscono la base cognitiva indispensabile perché possa darsi corso ad una richiesta di applicazione di pena, sicché il giudice è tenuto ad un accertamento di ufficio in tal senso, in ragione di quanto disposto dall’art. 85, il quale stabilisce che nessuno può essere punito per un fatto previsto come reato, se al momento in cui l’ha commesso non era imputabile, tanto è vero che l’art. 129 CPP non include espressamente il difetto di imputabilità tra le cause di non punibilità (Sez. 3, 51851/2018).

Ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, acquistano rilievo solo quei "disturbi della personalità" che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale (SU, 9163/2005).

Il gioco d’azzardo patologico viene classificato per i più recenti approdi della nosologia medica (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali o DSM nei suoi successivi aggiornamenti) quale disturbo del controllo degli impulsi e definito come comportamento persistente, ricorrente e maladattativo che registra una compromissione delle attività personali, familiari o lavorative. La giurisprudenza di legittimità chiamata ad interrogarsi sui disturbi della personalità per scrutinarne la rilevanza ai fini della imputabilità del reato ed alla loro più ampia ascrivibilità alla categoria della infermità mentale, capace di escludere o grandemente far scemare la capacità di intendere e di volere integrativa della prima (artt. 88 e 89), si è trovata da tempo ad affermarne il rilievo. Si è così detto che "ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, anche i "disturbi della personalità", che non sempre sono inquadrabili nel ristretto novero delle malattie mentali, possono rientrare nel concetto di "infermità", purché siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere o di volere, escludendola o scemandola grandemente, e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale». All’indicata qualificazione si è ritenuto che consegua la non rilevanza ai fini dell’imputabilità di anomalie caratteriali o alterazioni della personalità che risultino tali da non presentare gli esposti caratteri e, ancora, gli stati emotivi e passionali che in quanto temporanei ed accidentali non sono destinati a definire un quadro di infermità come previsto dal codice penale (SU, 9163/2005; Sez. 1, 52951/2014; in materia di gioco d’azzardo, in termini sulla qualificazione: Sez. 2, 24535/2012). Il disturbo della personalità registra una dipendenza dell’agente da situazioni e beni e può tradursi in una causa di esclusione dell’imputabilità là dove esso assuma connotati di intensità tali da escludere la capacità dell’agente di autodeterminarsi. Scrutinata ancora nella giurisprudenza di legittimità la nozione di imputabilità intesa come capacità di intendere e di volere del soggetto, si è in tal modo valorizzata di quest’ultima l’autonoma e decisiva rilevanza agli effetti del giudizio di cui agli artt. 85 e 88, anche in ipotesi di accertata capacità di intendere, a cui si accompagni la comprensione del disvalore sociale della azione delittuosa. Si tratta di ipotesi in cui si registra nel carattere irresistibile per l’agente degli impulsi all’azione l’apprezzamento da parte del primo della riprovevolezza della seconda che risulta comunque non contenibile per la consistenza ed ampiezza degli impulsi, tali da vanificare la capacità di apprezzare dell’azione le conseguenze. All’indicata forza determinativa deve altresì accompagnarsi il nesso eziologico tra impulso e condotta criminosa sicché il fatto di reato deve essere causalmente determinato da quello specifico disturbo mentale idoneo ad alterare non l’intendere, ma il solo volere dell’autore della condotta illecita, restando fermo l’onere dell’interessato dimostrare il carattere cogente nel singolo caso dell’impulso stesso (Sez. 6, 18458/2012). In applicazione degli indicati principi il disturbo da gioco d’azzardo è un disturbo della personalità o disturbo del controllo degli impulsi destinato, come tale, a sconfinare nella patologia e ad incidere, escludendola, sulla imputabilità per il profilo della capacità di volere (Sez. 6, 33463/2018).

Nella natura di presupposto giuridico dell’esistenza di un valido vincolo processuale assolta dalla stessa, la capacità di intendere e di volere dell’imputato e di partecipare coscientemente al processo deve essere accertata in quanto immanente alla instaurazione di un qualunque giudizio valutativo di merito (Sez. 6, 7530/2016).

Con specifico riferimento all’utilizzo probatorio della perizia psichiatrica si è affermato che l’indagine tecnica deve svilupparsi attraverso due passaggi sequenziali, indipendenti, ma tra loro connessi in vista dell’espressione del giudizio finale: la percezione dei dati storico-fattuali e la formulazione della diagnosi su di essa basata; su tale percezione deve appuntarsi la verifica giudiziale in modo tale che quando se ne riscontri l’erroneità, è consentito al decidente discostarsi dalle considerazioni peritali ed esprimere un autonomo giudizio, sempre che fondato su basi scientifiche consolidate. Qualora poi le conclusioni degli esperti che hanno ricevuto incarico di eseguire perizia psichiatrica sull’imputato e dei consulenti di parte siano insanabilmente divergenti, la motivazione della decisione sulla capacità di intendere e di volere deve necessariamente esternare i criteri che hanno determinato la scelta tra le opposte tesi scientifiche, le ragioni della ritenuta inattendibilità di quella disattesa ed il raffronto tra quelle recepite e le altre risultanze processuali (Sez. 5, 686/2014).