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Art. 648-ter.1 - Autoriciclaggio (1)

1. Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto [non colposo(2), impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

2. La pena è della reclusione da due a sei anni e della multa euro 2.500 a euro 12.500 quando il fatto riguarda denaro o cose provenienti da contravvenzione punita con l'arresto superiore nel massimo a un anno o nel minimo a sei mesi. (3)

3. La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilità la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. (4)

4. Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’articolo 416-bis.1.

5. Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale.

6. La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale.

7. La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto.

8. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648.

(1) Articolo inserito dall’art. 3, comma 3, L. 186/2014.

(2) L'inciso "non colposo" è stato soppresso dall'art. 1, comma 1, lettera f), n. 1, D. Lgs. 295/2021.

(3) Comma introdotto dall'art. 1, comma 1, lettera f), n. 2, D. Lgs. 295/2021.

(4) Comma così sostituito dall'art. 1, comma 1, lettera f), n. 3, D. Lgs. 295/2021.

Rassegna di giurisprudenza

Integra il delitto di autoriciclaggio la condotta di chi, in qualità di autore del delitto presupposto di truffa, impieghi le somme accreditategli dalla vittima trasferendole, con disposizione on line, su conto intestato alla piattaforma di scambio di Bitcoin per il successivo acquisto di tale valuta, così realizzando l’investimento di profitti illeciti in operazioni finanziarie a fini speculativi, idonee ad ostacolare la tracciabilità dell’origine delittuosa del denaro (Sez. 2, 27023/2022).

In tema di autoriciclaggio, il criterio da seguire ai fini dell'individuazione della condotta dissimulatoria è quello della idoneità "ex ante", sulla base degli elementi di fatto sussistenti nel momento della sua realizzazione, ad ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa del bene, senza che il successivo disvelamento dell'illecito per effetto degli accertamenti compiuti, determini automaticamente una condizione di inidoneità dell'azione per difetto di concreta capacità decettiva. Nondimeno, la concreta valenza dissimulatoria non può non correlarsi al tipo di operazione di volta in volta compiuta, che deve di per sé sottendere un'artificiosa strumentalità, che non può essere solo apoditticamente prospettata, dovendo essere, invece, dimostrata (Sez. 6, 22417/2022).

Non integra la condotta di autoriciclaggio il mero trasferimento di somme, oggetto di distrazione fallimentare, a favore di imprese operative, occorrendo a tal fine un "quid pluris" che denoti l'attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (Sez. 2, 7\7\/2021).

Il reato di autoriciclaggio è configurabile ove l’agente che abbia commesso un delitto non colposo presupposto, abbia, successivamente, impiegato, sostituito, trasferito, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Quindi, gli elementi materiali del suddetto delitto sono: a) la commissione di un delitto non colposo; b) che dal suddetto delitto sia derivato un provento (denaro, beni o le altre utilità) economicamente apprezzabile; c) che il suddetto provento sia stato reinvestito in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative; d) che l’operazione di reinvestimento abbia costituito un ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa del provento del reato presupposto. È importante focalizzare il punto sub b): l’art. 648 ter.1 al primo comma, individua la condotta del suddetto reato nell’impiego, sostituzione, trasferimento «in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative» del denaro, beni, o altre utilità «provenienti dalla commissione» del delitto presupposto «in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa». In altri termini, dalla commissione del reato presupposto, l’agente deve avere conseguito “un provento” di natura economica (denaro, beni, o altre utilità), che abbia “riciclato” al fine di non rendere riconducibile quella ricchezza al delitto compiuto. Proprio questa peculiarità (e cioè l’incremento del patrimonio come effetto diretto del delitto commesso), aveva fatto sorgere il problema della configurabilità del delitto di autoriciclaggio nel caso in cui il reato presupposto fosse costituito da un reato tributario che, di per sé, non determina alcun accrescimento del patrimonio dell’agente. La questione è stata, però, risolta dalla giurisprudenza di legittimità  alla quale in questa sede va data continuità  secondo la quale il profitto del reato presupposto  nell’ipotesi in cui questo sia un reato tributario – consiste esclusivamente nell’ammontare dell’imposta evasa. In altri termini, il provento del reato presupposto, può consistere non solo in un incremento del patrimonio ma anche in un risparmio (omesso pagamento delle imposte dovute) in quanto, comunque, il patrimonio dell’agente ne riceve un vantaggio economicamente apprezzabileIl dato giuridico, però, fondamentale per la configurabilità del reato di autoriciclaggio, è che dal reato presupposto derivi, come effetto diretto della condotta criminosa, un vantaggio patrimoniale (sia in termini di incremento che di risparmio), economicamente apprezzabile ed idoneo, quindi, ad essere “riciclato” per evitare che sia riconducibile al reato presupposto. Questa precisazione consente, pertanto, di chiarire che i reati di falso possono fungere da reato presupposto solo in quei casi in cui dal falso derivi, come effetto diretto, un provento di natura patrimoniale per l’agente, idoneo, poi, ad essere riciclato (ad es. art. 316-ter). Ma, se dal falso l’agente non consegue alcun provento (es. art. 476) o, se il falso è commesso come reato mezzo per compiere un altro reato dal quale derivi un provento (ad es. il pubblico ufficiale incaricato di redigere un verbale di inventario, omette di inserirvi un bene di cui poi si appropria), il reato di autoriciclaggio o non è configurabile (nella prima ipotesi) o lo è (nel secondo esempio ipotizzato) ma in relazione al reato appropriativo perché solo da questo consegue, in modo diretto, un provento riciclabile (Sez. 2, 14101/2019).

Giova ripercorrere brevemente il dibattito che ha preceduto l’introduzione dell’art. 648-ter.1; deve infatti ricordarsi che il difetto di incriminazione dell’autoriciclaggio è stato per lungo tempo giustificato sulla base del divieto di bis in idem, ovvero del criterio dell’assorbimento, alla stregua del quale perseguire per riciclaggio l’autore del delitto presupposto avrebbe significato addebitare due volte al medesimo soggetto un accadimento unitariamente valutato dal punto di vista normativo, quindi sanzionare due volte un medesimo fatto. Tuttavia, a seguito di ampio dibattito, ed anche al fine di assecondare varie sollecitazioni internazionali, con L. 186/2014 (art. 3, comma 3) è stata disposta l’introduzione dell’art. 648-ter.1, che ha comportato il superamento della tradizionale posizione, determinandosi la punibilità anche della condotta di autoriciclaggio, con la quale, è stato correttamente osservato, si tutela un bene giuridico diverso da quello del reato presupposto (spesso punito meno gravemente del riciclaggio; si pensi, ad esempio, al peculato, alle corruzioni, all’appropriazione indebita, al furto, alla truffa, alle frodi fiscali). Dunque, la punizione dei reati contro il patrimonio non può “consumare” anche la condotta di autoriciclaggio, che infatti aggredisce altro bene giuridico, e cioè l’ordine pubblico economico. Con l’introduzione dell’art. 648-ter.1 il delitto presupposto è dunque destinato, nella pratica, a convivere con questa omnicomprensiva fattispecie, tanto che l’autoriciclaggio ben può diventare la “coda” di ogni altro delitto non colposo che produca proventi, riciclaggio e ricettazione compresi. Come accennato, alla incriminazione delle condotte di autoriciclaggio si è giunti in Italia dopo molteplici sollecitazioni internazionali (ad esempio, l’OCSE, nel Rapporto sull’Italia del 2011, aveva paventato come la lacuna rischiasse di indebolire la legislazione anticorruzione; analogamente l’FMI, nel Rapporto sull’Italia del 2006, ne raccomandava l’introduzione anche alla luce delle esigenze investigative rappresentate dalle stesse autorità italiane). Nella medesima prospettiva è stato pure osservato come il legislatore abbia anche valorizzato le risultanze delle audizioni del Governatore della Banca d’Italia (del 15 luglio 2008 davanti alle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato e del 22 luglio 2009 davanti alla Commissione Antimafia), nonché le indicazioni fornite alla Commissione Antimafia in data 17 marzo 2009 dal Procuratore Nazionale Antimafia. Dunque, il testo dell’art. 648 ter.1 adottato dal legislatore italiano rappresenta il frutto della citata evoluzione, e del tutto logicamente deve ritenersi che abbia inteso perseguire, mediante l’utilizzo delle ampie locuzioni citate (attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative), qualsiasi forma di re-immissione delle disponibilità di provenienza delittuosa all’interno del circuito economico legale; tuttavia, al fine di evitare la violazione di principi fondamentali del diritto penale (ne bis in idem sostanziale), il testo, pur incriminando la condotta di impiego, sostituzione o trasformazione attuata dall’autore del delitto presupposto, l’ha limitata, escludendo la punizione della stessa sotto il profilo oggettivo, e cioè per difetto di offensività rispetto al bene giuridico protetto (ordine pubblico economico), prevedendo che la condotta deve essere tale da “ostacolare concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa”, nonché limitandola sotto il profilo soggettivo con l’introduzione della clausola di non punibilità del quarto comma. Come condivisibilmente osservato in sede di legittimità (Sez. 2, 33074/2016), la norma sull’autoriciclaggio punisce soltanto quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica specifica di essere idonee ad “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Il legislatore ha richiesto pertanto che la condotta sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, sia cioè idonea a fare ritenere che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto effettuare un impiego di qualsiasi tipo, ma sempre finalizzato ad occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto, ipotesi questa non ravvisabile nel versamento di una somma in una carta prepagata intestata allo stesso autore del fatto illecito. Va al proposito ricordato come la norma sull’autoriciclaggio nasce dalla necessità di evitare le operazioni di sostituzione ad opera dell’autore del delitto presupposto e che tuttavia il legislatore, raccogliendo le sollecitazioni provenienti dalla dottrina, secondo cui le attività dirette all’investimento dei profitti operate dall’autore del delitto contro il patrimonio costituiscono post factum non punibili, ha limitato la rilevanza penale delle condotte ai soli casi di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita finalizzate appunto ad ottenere un concreto effetto dissimulatorio che costituisce quel quid pluris che differenzia la semplice condotta di godimento personale (non punibile) da quella di nascondimento del profitto illecito (e perciò punibile) - (le sottolineature sono dell’estensore). Dunque, attesa l’indicata ratio legis, davvero non è dato cogliere la ragione per la quale il legislatore avrebbe voluto escludere, dall’ambito delle attività contemplate dal primo comma dell’art. 648-ter.1, e in particolare da quelle speculative, il gioco d’azzardo o il settore delle scommesse. Infatti, l’idea di fondo che giustifica l’incriminazione dell’autoriciclaggio, riposa, come accennato, sulla considerazione di congelare il profitto in mano al soggetto che ha commesso il reato presupposto, in modo da impedirne la sua utilizzazione maggiormente offensiva (e cioè la reimmissione nel mercato), quella che espone a pericolo o addirittura lede l’ordine economico, valorizzando, così, la grave ed autonoma lesività delle ulteriori condotte dell’agente, rispetto a quella insita nel reato presupposto. Alla luce delle suddette intenzioni punitive, non può logicamente negarsi che, mediante l’impiego di denaro nel gioco d’azzardo o nelle scommesse, si raggiunga proprio il risultato che la norma incriminatrice vuole sanzionare: l’autore dell’illecito presupposto, anziché tenere per sé il denaro o destinarlo al mero utilizzo o godimento personale, lo impiega, con l’intento di ricavarne un profitto (che talvolta può anche essere molto ingente) accettando, per contro, pure il rischio di una perdita. Ne consegue che, in caso di vincita, il denaro di provenienza illecita (generalmente in contanti e privo di tracciabilità) è pronto per essere immesso nel circuito economico con la “nuova veste” di una legittima provenienza; e, in caso di perdita (parziale o totale), comunque si è avuta una reimmissione di denaro di provenienza delittuosa nel mercato economico. Del resto, il nostro ordinamento riconosce nel gioco e nelle scommesse una fonte lecita di arricchimento (si vedano artt. 1933 e ss. CC), sebbene non meritevole di tutela mediante apposite azioni giudiziarie. Di conseguenza, pure in base al criterio ermeneutico teleologico, deve ritenersi che il legislatore abbia inteso ricomprendere, nel concetto di “attività speculativa”, anche le tipologie di impiego in questione del denaro proveniente da delitto. Dunque, la neutralità linguistica funzionale allo sviluppo di una grammatica comune richiede una inferenza logica capace di reificare le norme e rendere concreta l’interpretazione proposta (funzionale rispetto alla finalità di contrasto di ciò che è volto, come dice il legislatore nell’art. 648 ter.1, comma 1, a “ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”). Così l’indirizzo interpretativo può essere capace di inglobare la pratica sociale e ricategorizzare la norma attraverso l’elemento assiologico presente nella legge. A sostegno dell’interpretazione qui accolta, da ultimo, va comunque considerato che, quand’anche si volesse dubitare degli esiti ai quali univocamente conducono i richiamati criteri interpretativi letterale e teleologico, l’ulteriore strumento ermeneutico consentito dall’ordinamento, e cioè quello dell’interpretazione estensiva, imporrebbe di includere il gioco d’azzardo e le scommesse nel concetto di “attività speculativa”. Ciò discende, in primo luogo, dal fatto che il termine polisenso di “speculazione” è usato  in molti contesti  quale sinonimo di ‘gioco d’azzardo’, essendo anche definito come “lo scommettere su un esito incerto”; per giunta, entrambe le locuzioni possono rientrare nella categoria generale dell’investimento, inteso come “impegnare danaro per ottenere un guadagno”; e, dal punto di vista logico o sostanziale, già si è detto che non vi è grande differenza tra una scommessa sul prezzo futuro del grano, di una valuta o di un titolo di borsa (pacificamente considerati come forme di speculazione finanziaria) e una scommessa sul risultato di una partita di calcio o altro evento. Inoltre, una diversa soluzione, come accennato, presenterebbe sia il vizio di apparire gravemente illogica (non perseguendo un canale di riciclaggio diffusamente riconosciuto, quale quello del gioco d’azzardo), sia di risultare sostanzialmente abrogativa della dizione “attività speculativa”, posto che le attività riduttivamente considerate dal Tribunale milanese come integrative di quella categoria (investimenti o negozi giuridici caratterizzati da rischio elevato ma gestibile), a ben vedere, già sono incriminate dall’art. 648 ter.1 allorché contempla i concetti, indubbiamente assai ampi, di “attività economica” o “finanziaria” . Alla luce delle considerazioni sopra esposte, in definitiva, si ritiene che nel concetto di “attività speculativa” di cui all’art. 648 ter.1 ben possano rientrare anche i giochi o le scommesse caratterizzati da azzardo (intendendosi per tali quelli praticati con fine di lucro e nei quali la vincita o la perdita sia in buona parte aleatoria, avendovi l’abilità del partecipante un’importanza non determinante rispetto all’esito). Non si ignora che questa stessa Sezione, con sentenza resa all’udienza del 13 dicembre 2018 e depositata il 6 marzo 2019 (Sez. 2, 9751/2019), ha assunto diverso orientamento in relazione alla riconducibilità delle attività di gioco (nella specie si trattava del gioco del lotto) nel novero delle attività speculative. In quest’ultima pronuncia si è ritenuto che il rigoroso rispetto dei principi di tassatività e determinatezza della norma penale incriminatrice, nonché del divieto di analogia in malam partem, ostassero alla riconducibilità dell’impiego di denaro nel gioco del lotto in una delle categorie di attività “selezionate” dall’art. 648 ter.1. In particolare, in assenza di definizione normativa del concetto di “attività speculative”, si è affermato che l’individuazione della portata applicativa della predetta locuzione dovesse basarsi, oltre che sui già richiamati principi di rilievo anche costituzionale che informano il nostro sistema penale, sugli ordinari “strumenti” offerti dalle disposizioni sulla legge in generale, nonché su eventuali indicazioni desumibili dall’assetto normativo vigente in altri settori dell’ordinamento. Si è così  ritenuto che “la speculazione ha la propria ragion d’essere nella gestione in modo razionale ed economico del rischio, così da minimizzare le occasioni di perdita e massimizzare quelle di profitto, essendo il fenomeno sempre connotato da una consapevole e lucida analisi dei costi/benefici e di tutte le altre possibili variabili rilevanti, ben diversa è la causa della prestazione patrimoniale nel gioco, che non è riconducibile  almeno in via diretta e in senso oggettivo  ad un interesse prettamente economico, costituendo piuttosto espressione di un intento non patrimoniale, dall’ordinamento indubbiamente riconosciuto come valida fonte di arricchimento ex art. 1933 CC ma sprovvisto di tutela giuridica”. E riscontro di ciò è stato individuato in primo luogo nell’art. 23 T.U.F., che, nel disciplinare i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori, esclude l’applicazione dell’art. 1933 CC agli strumenti finanziari derivati nonché a quelli analoghi individuati ai sensi dell’art. 18, comma 5, lett. a) del medesimo testo unico (ovvero, a «prodotti dalla portata tipicamente speculativa»). Inoltre, secondo la pronuncia in disamina, le attività ludiche  come quella del lotto  pongono fuori causa la personale abilità del giocatore; dunque “l’iniziativa di un soggetto che decide di recarsi in ricevitoria, e di puntare una somma confidando nell’uscita di un ambo o di un temo, viene giudicata come in alcun caso definibile come “attività speculativa”, tantomeno sorretta da scelte e modalità razionali, ecc.: il soggetto in questione, semplicemente, tenta la sorte per ricavare, con il meccanismo casuale delle estrazioni, una somma maggiore di quella di cui dispone”. Cosa diversa, dunque, dall’attività speculativa dell’investitore che gestisce il rischio. Neppure viene giudicata convincente l’affermazione secondo cui l’attività ludica dovrebbe comunque essere equiparata a quella propriamente speculativa nel momento in cui le somme impiegate nella prima non siano di lecita provenienza. Infatti, l’individuazione della portata applicativa di una norma incriminatrice, effettuata con gli ordinari e già richiamati “strumenti” a disposizione dell’interprete (principio di tassatività e determinatezza della fattispecie, divieto di analogia), impone di ricercare il significato della locuzione “attività speculative” in sé considerato: salva ovviamente l’ipotesi  cui si è già accennato, e che non ricorre nella fattispecie in esame  in cui sia lo stesso legislatore a delineare il perimetro applicativo di una parola o di una locuzione, utilizzata nella disposizione incriminatrice, attraverso apposite norme definitorie, che autorizzino conclusioni diverse da quelle cui si perverrebbe all’esito delle ordinarie operazioni ermeneutiche. Da ultimo, la richiamata sentenza valorizza un riscontro, individuato nella legislazione vigente in un settore considerato – “contiguo”, quale quello tributario. Si allude al fatto che “le vincite delle lotterie, dei concorsi a premio, dei giochi e delle scommesse organizzati per il pubblico” sono prese in autonoma considerazione, quali “redditi diversi”, dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi (art. 67, lett. d), DPR 917), rispetto ai redditi da plusvalenza originati da investimenti speculativi (cfr. le lettere da c a c-quinquies del predetto art. 67: plusvalenze realizzate mediante cessioni a titolo oneroso di azioni, strumenti finanziari, ecc.), e sono disciplinati da disposizioni del tutto distinte anche quanto alla misura e alla modalità di tassazione (per le vincite al gioco del lotto, cfr. in particolare l’art. 6 DL 50/2017; per le plusvalenze, cfr. art. 68 T.U.I.R.). Detti argomenti tuttavia non convincono. Già si è detto quale sia la corretta ermeneusi, letterale e teleologica, dell’espressione legislativa “attività speculativa”. E già si è detto, comunque, della necessità di intendere anche estensivamente, ove necessario, quella locuzione. Infatti, l’indicazione normativa delle attività (economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative) in cui il denaro, profitto del reato presupposto, può essere impiegato o trasferito, lungi dal rappresentare un elenco formale delle attività suddette, appare piuttosto diretta ad individuare delle macro aree, tutte accomunate dalla caratteristica dell’impiego finalizzato al conseguimento di un utile, con conseguente inquinamento del circuito economico, nel quale, vengono immessi denaro o altre utilità provenienti da delitto e delle quali il reo vuole rendere non più riconoscibile la loro provenienza delittuosa. Pertanto, come accade anche per i concetti di attività economica ed imprenditoriale, possono essere ricondotte nell’ambito della dizione di “attività speculativa” (della quale il legislatore, non a caso, non offre rigida definizione), molteplici attività e, in particolare, tutte quelle in cui il soggetto ricerca il raggiungimento di un utile, anche assumendosi il rischio di considerevoli perdite. Né l’alea che caratterizza il gioco d’azzardo è, come detto, molto diversa da quella che caratterizza alcune attività finanziarie altamente speculative o rischiose (quali, a puro titolo di esempio, i c.d. derivati, i futures o tante altre forme di investimento sui mercati delle merci, delle azioni, delle obbligazioni, ecc.); neppure sono impossibili forme di controllo dell’alea; e comunque, la partecipazione al gioco d’azzardo o al sistema delle scommesse, sia che produca vincite, sia in caso contrario, costituisce certamente un impiego idoneo ad ostacolare concretamente l’individuazione della provenienza delittuosa dei capitali impiegati. Già si è evidenziata l’esistenza, anche nel linguaggio comune, di molteplici accezioni della locuzione “attività speculativa”, come “speculazione finanziaria”, “speculazione immobiliare”, “speculazione edilizia”, ecc., circostanza che - ulteriormente rafforza la tesi che l’indicazione fornita dal legislatore (attività speculativa) non sia nominalistica, ma indicativa di un determinato “genere” di attività. Neppure convincono gli argomenti incentrati sul peculiare trattamento tributario dei proventi del gioco, che paiono alludere alla prospettiva di fare ricorso, quasi che ci si trovasse in presenza di una norma penale in bianco, alla disciplina contenuta in norme extrapenali, dettate a fini completamente diversi, dalle quali, tra l’altro, non emerge affatto una precisa “definizione” di attività speculativa e dei suoi contenuti, ma soltanto la circostanza che le vincite al gioco e le plusvalenze originate da investimenti finanziari, sono disciplinati da disposizioni distinte quanto a misura e modalità di tassazione (cfr., ad esempio, art. 6 DL 50/2017 e art. 68 T.U.I.R.). Anzi, la considerazione a fini fiscali delle vincite al gioco rende ancor più evidente il fatto che l’attività in parola ben possa portare alla sostituzione di capitali monetari; e il fatto che i redditi da gioco scontino un regime fiscale peculiare (rispetto ad altre forme di investimento) non è certo una eccezione nel sistema tributario, che frequentemente riserva trattamenti specifici per singole tipologie reddituali. Né, comunque, quella in esame sarebbe l’unica ipotesi in cui differenti rami dell’ordinamento attribuiscono significati disomogenei ai medesimi concetti giuridici (si pensi, ad esempio, al concetto di possesso in diritto civile e in diritto penale). Né le conclusioni qui accolte appaiono lesive dei principi di determinatezza e tassatività della norma penale incriminatrice. A tale proposito va infatti ricordato che la Corte Costituzionale, e la stessa giurisprudenza della Corte di cassazione, hanno più volte affermato che affinché i suddetti principi, previsti all’art. 25 della Costituzione, siano rispettati, è sufficiente che la condotta del reato, pur descritta genericamente, consenta al giudice, avuto riguardo anche alla finalità di incriminazione ed al contesto ordinamentale in cui si colloca, di stabilire con precisione il significato delle parole, che isolatamente considerate potrebbero anche apparire non specifiche, ed al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del valore precettivo di essa (Corte costituzionale 327/2008, 5/2004, 34/1995; Sez. 1, 42130/2012); requisiti che, per quanto sopra esposto, ben possono ritenersi presenti rispetto alle locuzioni in questione. Di conseguenza, la riconducibilità, in concreto, dell’attività di impiego, sostituzione o trasferimento di risorse illecite in una delle macro categorie indicate nel primo comma dell’art. 648 ter.1, non può che essere rimessa all’interprete, che, valuterà, caso per caso, in base alla citate coordinate ermeneutiche, se una determinata attività, alla luce delle sue generali caratteristiche, possa ritenersi economica, finanziaria, imprenditoriale o speculativa, nonché, al fine di integrare l’ulteriore elemento oggettivo previsto dalla norma sull’autoriciclaggio, se l’impiego dei proventi illeciti sia compiuto “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Ovviamente, al fine della sussistenza del reato in esame, accanto all’elemento materiale della condotta, deve ricorrere quello psicologico, che nella previsione in parola appare essere costituito dal dolo generico che abbracci l’intera condotta prevista dal comma 1 dell’art. 648-ter.1, e cioè dalla coscienza e volontà di impiegare, sostituire o trasferire proventi delittuosi nelle attività considerate dalla norma medesima “in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Tutto ciò premesso in relazione alla corretta interpretazione dell’espressione “attività speculativa” contenuta nel primo comma dell’art. 648-ter.1, neppure può condividersi l’ulteriore argomento utilizzato escludere i fatti di causa dall’ambito di operatività della norma sull’autoriciclaggio; ci si riferisce al richiamo alla clausola di non punibilità di cui al quarto comma dell’art. 648-ter.1. Al riguardo, devesi effettivamente considerare che tale previsione, nella sua formulazione letterale, non risulta di agevole interpretazione, come del resto emerge chiaramente dall’ampio dibattito dottrinale registratosi sul punto. Tuttavia, senza ripercorrere le tesi interpretative che da più parti sono state proposte, ritiene di condividere e richiamare l’accurata ricostruzione ermeneutica secondo la quale la norma va interpretata in base al significato proprio delle locuzioni utilizzate, e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica a tutte le condotte descritte nei commi precedenti (e quindi, per quanto di interesse in questa sede, anche a quelle previste dal comma 1). Dunque, l’espressione “fuori dei casi”, a livello semantico, null’altro significa che la fattispecie in essa considerata è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei “commi precedenti”. Con la conseguenza che, una volta che la fattispecie criminosa di cui al comma 1 dell’art. 648-ter.1 sia integrata in tutti i suoi requisiti, l’agente è sanzionabile penalmente, restando del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia “meramente” utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale. In definitiva, in questa sede è sufficiente ribadirne il principio di diritto, secondo il quale- «la clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648-ter.1 a norma della quale “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti [....]” va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole, e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni provento del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa». Infatti il comma quarto in esame dispone la non punibilità delle sole condotte “per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personaleIn modo immediato si coglie la differenza rispetto alla condotta del primo comma, che sanziona, invece, l’impiego, la sostituzione o il trasferimento dei proventi illeciti nelle quattro ampie categorie di attività di cui si è detto, laddove connotati da concreta idoneità di camuffamento; forme di reimmissione della provvista nel circuito economico legale che, ovviamente, debbono anche essere necessariamente corredate dal corrispondente elemento psicologico. Invece, il comma quarto, a differenza del primo comma, prevede la “destinazione” alla “mera utilizzazione o al godimento personale”, situazione differente, anche sotto il profilo del corrispondente elemento soggettivo. E dunque, concentrando l’attenzione sul caso di specie, evidente appare l’esigenza di ritenere configurabile il reato di cui all’art. 648-ter.1 anche al caso del gioco d’azzardo o delle scommesse laddove l’autore del delitto presupposto vi impieghi o sostituisca i proventi illeciti in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Né pare rilevante, ai fini della integrazione del reato, il fatto che al gioco consegua o meno una qualche vincita. Infatti, il primo comma dell’art. 648-ter.1 incrimina, oltre alla condotta di chi “sostituisce” i proventi illeciti, anche quella di chi semplicemente li “impiega” in attività funzionali ad ostacolarne concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa (così configurando un’ipotesi di reato a consumazione anticipata). Ma il caso che l’impiego speculativo del denaro possa portare a perdite anche totali del capitale investito non è certo una peculiarità del gioco d’azzardo o della scommessa (basti pensare al caso di qualunque impiego su valori, valute, merci, beni o servizi caratterizzato da elevata rischiosità). E comunque, quand’anche si ritenesse necessario, per la configurabilità dell’autoriciclaggio, il conseguimento di un qualche risultato economico rispetto alla provvista impiegata (e dunque, nel caso del gioco, la presenza di una vincita seppure parziale), nulla pare escludere che possa anche configurarsi la forma tentata del delitto di cui all’art. 648-ter.l per le ipotesi nelle quali il denaro di provenienza delittuosa risultasse integralmente perduto. Conseguentemente, attesa l’astratta natura speculativa dell’impiego nel settore del gioco d’azzardo o delle scommesse di denaro proveniente da delitto, laddove ricorra anche l’idoneità di siffatta destinazione rispetto al camuffamento della provenienza della provvista, la clausola di esclusione di cui al quarto comma dell’art. 648 ter.1 non potrà dirsi operante; potranno invece beneficiare della clausola di esclusione in parola quelle residuali forme di gioco o scommessa che, per le caratteristiche intrinseche, non presentino, sotto il profilo oggettivo o soggettivo, i caratteri costitutivi, più volte richiamati, della fattispecie prevista dal primo comma dell’art. 648 ter.1 (Sez. 2, 13795/2019). In senso contrario: l’art. 648-ter.1 si caratterizza, rispetto alla norma incriminatrice del riciclaggio, per la significativa selezione delle condotte punibili. Per un verso, infatti, la nuova disposizione non contiene il riferimento  finale e, per così dire, onnicomprensivo  alle “altre operazioni” idonee ad ostacolare la provenienza delittuosa dei beni oggetto delle operazioni stesse, che assumono autonomo rilievo penale, nell’art. 648-bis, accanto alle condotte di sostituzione e di trasferimento. Per altro verso, le condotte di impiego, sostituzione o trasferimento dei beni di provenienza delittuosa, compiute dall’autore del reato presupposto, assumono rilevanza penale, ai sensi del nuovo art. 648-ter.1, solo se poste in essere “in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative”, e solo se in grado di ostacolare la provenienza delittuosa dei beni stessi: requisito, quest’ultimo, che rispetto al riciclaggio presenta connotazioni rafforzare dall’avverbio “concretamente”. In relazione alla nuova figura criminosa così strutturata, si è autorevolmente osservato, in dottrina, che «l’idea di fondo, che sembra giustificare l’incriminazione dell’autoriciclaggio, riposa sulla considerazione di congelare il profitto in mano al soggetto che ha commesso il reato presupposto, in modo da impedirne la sua utilizzazione maggiormente offensiva, quella che espone a pericolo o addirittura lede ‘l’ordine economico». In tale prospettiva, sono state respinte le tradizionali obiezioni all’incriminazione dell’autoriciclaggio, fondate sul richiamo alle categorie del post factum non punibile e del ne bis in idem sostanziale, valorizzando proprio la grave ed autonoma lesività, rispetto a quella insita nel reato presupposto, delle ulteriori condotte dell’autore di quest’ultimo, prese in considerazione dall’art. 648-ter.1. Altrettanto significativa è la riflessione sulle implicazioni derivanti dallo stretto legame, delineato dalla nuova norma incriminatrice, tra le condotte di impiego, sostituzione e trasferimento, e le attività in cui queste devono necessariamente esplicarsi: «l’espressione ‘in attività economiche ecc. allude necessariamente a condotte di lecito-vestizione riguardate non in sé stesse o solo nei loro potenziali effetti dissimulatori, come nell’art. 648-bis, ma alla luce del contesto di realizzazione, così da escludere rilevanza a ogni fatto che, pur presentando una valenza economica, non sia compiuto  appunto – ‘in attività economiche ecc. La proiezione dell’impiego, sostituzione o trasferimento su attività economiche va dunque intesa come un ferreo sintagma». Lo stretto legame in questione, del resto, è stato chiaramente riconosciuto da una delle prime pronunce di legittimità in tema di autoriciclaggio, con la quale è stata esclusa la configurabilità del reato nel versamento della somma, costituente profitto di un furto, su conto corrente o su carta di credito prepagata intestati allo stesso autore del reato presupposto, proprio perché tale deposito non può considerarsi, secondo le indicazioni rispettivamente fornite dall’art. 2082 CC e dall’art. 106 del Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, come attività “economica” o “finanziaria” (oltre a non costituire comunque, a mente dell’art. 648-ter.1, attività idonea ad occultare la provenienza delittuosa del denaro oggetto di profitto) (Sez. 2, 9751/2019). Il riciclaggio penalmente rilevante (art. 648-bis), ed il reimpiego di danaro, beni o altre utilità di provenienza illecita (art. 648-ter), quali ipotesi particolari di ricettazione (art. 648), avevano ed hanno, come presupposto, l’esclusione della configurabilità del concorso dell’agente nel reato da cui il denaro, i beni e le utilità ricettate, riciclate o reimpiegate derivano. Per tale ragione la giurisprudenza aveva, ad esempio, ritenuto che non configura l’attività delittuosa prevista dagli artt. 648-bis e 648-ter l’impiego nelle proprie attività economiche del danaro ricavato dal traffico di sostanze stupefacenti svolto dal medesimo soggetto, precisando (Sez. 2, 9226/2013) che non è punibile a titolo di riciclaggio il soggetto responsabile del reato presupposto che abbia in qualunque modo sostituito o trasferito il provento di esso, anche nel caso in cui abbia fatto ricorso ad un terzo inconsapevole, traendolo in inganno. Questa decisione (emessa in riferimento ad una fattispecie nella quale l’imputato era stato chiamato a rispondere del reato di riciclaggio per avere indotto una terza ignara, in età avanzata, a sottoscrivere una polizza grazie alla quale aveva riciclato denaro proveniente da una bancarotta) aveva, in particolare, osservato che, non essendo all’epoca previsto e punito dalla legge il delitto di autoriciclaggio, risultavano del tutto irrilevanti le modalità con le quali il soggetto agente avesse perseguito il fine di “autoriciclare” le utilità in qualunque modo tratte dalla commissione di un reato, ovvero che il predetto risultato fosse stato conseguito direttamente, oppure, ex art. 48, per interposta persona, traendo in inganno un terzo inconsapevolmente resosi autore materiale della condotta. I fatti di «autoriciclaggio» erano ritenuti punibili unicamente in quanto integranti il reato di cui all’art. 12-quinquies L. 356/1992, e quindi ricorrendo lo specifico fine di eludere la normativa in tema di misure di prevenzione: in particolare, secondo le Sezioni unite (SU, 25191/2014), è configurabile il reato di cui all’art. 12-quinquies in danno dell’autore del delitto presupposto, il quale attribuisca fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità, di cui rimanga effettivamente dominus, al fine di agevolare una successiva circolazione nel tessuto finanziario, economico e produttivo, poiché la disposizione di cui all’art. 12-quinquies citato consente di perseguire anche i fatti di “auto” ricettazione, riciclaggio o reimpiego. Sollecitata in ambito internazionale a prevedere la rilevanza penale dell’autoriciclaggio (in particolare, come ricordato dalla dottrina, «il Fondo monetario internazionale, nel Rapporto sull’Italia del 2006, pur rilevando come la punibilità dell’autoriciclaggio non fosse prevista come necessaria nelle 40 Raccomandazioni del GAFI, ne raccomandava nondimeno l’introduzione, “anche alla luce delle esigenze investigative rappresentate dalle stesse autorità italiane”»; a sua volta, «l’OCSE, nel Rapporto sull’Italia del 2011, aveva rilevato cime una simile lacuna normativa rischiasse di indebolire la legislazione anticorruzione»), ed al dichiarato scopo di colmare la predetta lacuna, ovvero soltanto per incriminare le condotte lato sensu consistenti nel riciclaggio o reimpiego di beni di provenienza delittuosa, poste in essere dall’autore del (o dal concorrente nel) reato presupposto, la L. 186/2014 ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 648-ter.1 (autoriciclaggio), che sanziona «Chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa». Che questo, e soltanto questo, fosse lo scopo perseguito dal legislatore attraverso l’introduzione del reato di cui all’art. 648-ter.1 emerge on chiarezza inequivocabile dai lavori preparatori, estremamente scarni sul punto a riprova del fatto che l’assunto era considerato pacifico. Ad esempio, nella Scheda di lettura che accompagna la L. 186/2014 si legge che «Il comma 3 introduce - mediante l’inserimento di un nuovo articolo 648-ter.1 nel codice penale - il reato di autoriciclaggio. In precedenza, infatti, il codice penale prevedeva, all’art. 648-bis, solo il riciclaggio, che punisce chi ricicla denaro o altre utilità provenienti da un reato commesso da un altro soggetto. Il riciclaggio in prima persona, ovvero la condotta di sostituzione o di trasferimento di denaro, beni o altre utilità ricavate commettendo un altro delitto doloso, non era punito. La norma è volta quindi a sanare tale lacuna nell’ordinamento». Più o meno nei medesimi termini, nel Dossier n° 23 A.C. 2247, redatto dall’Ufficio studi della Camera dei deputati, esplicativo delle Disposizioni in oggetto, si legge che il “nuovo” reato di auto riciclaggio è «volto a punire chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo ovvero compie altre operazioni in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Attualmente, infatti, il codice penale prevede, all’art. 648-bis, solo il riciclaggio, che punisce chi ricicla denaro o altre utilità provenienti da un reato commesso da un altro soggetto. Chi invece ricicla in prima persona, cioè sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità che ha ricavato commettendo egli stesso un altro delitto doloso, non è punito. La norma è volta quindi a sanare tale lacuna nell’ordinamento». All’esito della predetta modifica normativa: - se il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di un delitto non colposo, vengano impiegati, sostituiti, trasferiti, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa, dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto, si applica l’art. 648-ter.1; - se la predetta condotta venga posta in essere da soggetto che non abbia commesso o concorso a commettere il delitto presupposto, si applicano, a seconda dei casi, gli artt. 648, 648-bis, 648. Può, tuttavia, discutersi in ordine alla qualificazione giuridica della condotta posta in essere dal soggetto extraneus (ovvero che non abbia commesso, né concorso a commettere, il delitto non colposo presupposto), il quale abbia fornito un contributo concorsuale causalmente rilevante alla condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto intraneus (ovvero che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto). Parte della dottrina, pur senza esprimere in proposito certezze (ovvero considerando non risolto il dubbio interpretativo posto), ha ammonito che sarebbe paradossale ammettere che il riciclatore possa rispondere di concorso in autoriciclaggio. La parte assolutamente dominante della dottrina ha, invece, risolto il dubbio (pur se sulla base di giustificazioni dogmatiche disomogenee) nel senso che l’extraneus che concorre con l’autoriciclatore risponde (non di concorso in autoriciclaggio, bensì) di riciclaggio. La disamina che segue darà conto degli orientamenti emersi in seno alle dottrine più autorevoli. Un orientamento, premesso che «la limitazione del perimetro della nuova incriminazione corrisponde  sul piano sistematico  al venir meno del c.d. privilegio dell’autoriciclaggio, che trovava la sua fonte nelle clausole di riserva degli artt. 648-bis e 648- ter c.p. (disposizioni che tuttora permangono, inalterate, nell’ordinamento)», e che tale limitazione «segna i confini rispetto alle limitrofe figure degli artt. 648-bis e 648-ter e permette di risolvere le questioni connesse alle ipotesi di realizzazione in forma plurisoggettiva del reato di autoriciclaggio», ritiene che «colui che, non avendo concorso nel delitto-presupposto, contribuisca alla realizzazione delle condotte tipizzate dall’art. 648-ter, risponderà del reato di riciclaggio ovvero di quello contemplato dall’art. 648-ter». Si osserva, in proposito, che «l’insieme costituito dalle condotte tipizzate dall’art. 648- ter.1 si iscrive completamente in quello disegnato dal combinato disposto delle due disposizioni finitime (artt. 648-bis e 648-ter): l’elemento specializzante non attiene, infatti, alle condotte quanto invece alla qualificazione soggettiva dell’autore (qualificazione rispetto alla quale gli insiemi in discorso si trovano in una condizione di alternatività reciproca). Considerando per contro il solo fronte delle condotte ricomprese rispettivamente nell’insieme costituito dagli artt. 648-bis e 648-ter da un lato, e, dall’altro, quelle iscritte nell’insieme disegnato dall’art. 648-ter.1, è agevole avvedersi che quest’ultimo insieme è minore e completamente compreso nell’altro». Sulla base di queste considerazioni, ed in particolare tenuto conto del reciproco atteggiarsi delle tre disposizioni in oggetto, troverebbe conferma la conclusione che «la condotta di colui che, non avendo concorso alla commissione del delitto-presupposto, fornisce un contributo causale all’autoriciclatore non integrerà una fattispecie di concorso ex art. 117 dando bensì luogo - sussistendone i requisiti - a un’ipotesi di riciclaggio (ovvero di impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita)». Altro orientamento ritiene che «l’autoriciclaggio può costituire un illecito penale a condizione che sia commesso dall’autore del reato-fonte, la cui qualifica “marca” il disvalore della fattispecie, tanto da richiedere una stretta connessione tra titolare della stessa ed esecutore del reato»; si sarebbe, pertanto, in presenza, di un c.d. “reato di mano propria”, in cui «l’individuazione del soggetto qualificato (...) si presenta (...) come vettore insostituibile di tipicità e componente decisiva del nucleo di disvalore del fatto». D’altro canto, come risaputo, «nei reati di mano propria, la distribuzione dei ruoli, in caso di esecuzione plurisoggettiva, non ammette deroghe: la personale esecuzione dell’intraneus è condizione essenziale perché possa consumarsi l’offesa al bene giuridico». Tre sarebbero, secondo la dottrina in esame, le ricadute in tema di concorso di persone dell’inquadramento dell’autoriciclaggio come reato di mano propria: - autore della condotta tipica dovrà essere l’autore (o il concorrente) del/nel reato-fonte. Il limite minimo della partecipazione è dato dalle ipotesi di coautoria (o di esecuzione frazionata), nel senso che la fattispecie concorsuale potrà ritenersi integrata anche quando l’autore del reato-fonte abbia posto in essere un frammento costitutivo della “complessa” azione tipica; - specularmente, il reato di riciclaggio potrà essere commesso da “chiunque” non rivesta la qualità di autore o coautore del reato-fonte; - il precipitato più rilevante di una simile ricostruzione è che la condotta di mera messa a disposizione del provento nelle mani del terzo, perché la reimpieghi, sarà destinata a restare penalmente irrilevante (come lo era prima della novella). In una tale evenienza, infatti, sarà il terzo estraneo a realizzare compiutamente l’illecito, del quale risponderà a titolo di riciclaggio o di reimpiego, non anche l’autore (o il concorrente) del/nel reato-fonte, non punibile in forza della clausola di sussidiarietà. Può, al contrario, ritenersi minoritario l’orientamento per il quale, costituendo l’autoriciclaggio un “reato proprio”, ed ammettendo i reati propri la realizzazione anche da parte di un terzo sprovvisto della qualifica soggettiva tipica, sarebbe configurabile il concorso nel reato di autoriciclaggio, a norma degli artt. 110 o 117, a seconda che il terzo extraneus abbia, o meno, consapevolezza della qualifica posseduta dall’intraneus; in tal modo, peraltro, «colui che ieri era autore di riciclaggio diviene oggi un concorrente in auto riciclaggio, come tale destinatario di una sanzione penale più mite», con la conseguenza che quindi, pur come «conseguenza non voluta dal legislatore», «calerebbe il sipario sulle fattispecie comuni di riciclaggio e reimpiego, a tutto “vantaggio” della nuova e meno grave incriminazione», poiché «l’extraneus avrà buon gioco nel difendersi affermando che, per poter ripulire il provento illecito, decisivo è stato il contribuito dell’autore del delitto presupposto, suo immancabile concorrente». Una dottrina ha proposto di risolvere il problema in applicazione dei principi (non in tema di concorso di persone nel reato, bensì) in tema di concorso apparente di norme. Nei casi in cui la condotta del terzo extraneus risulti in astratto sussumibile nell’ambito della fattispecie di riciclaggio, ma integri, al tempo stesso, un contributo causale alla fattispecie di autoriciclaggio posta in essere dall’autore del delitto non colposo-presupposto, «il dilemma tra unicità e pluralità di reati, in capo al terzo extraneus, dovrà (e potrà) essere risolto in base agli ordinari criteri che consentono, se applicabili nel caso di specie, di risolvere nel senso dell’apparenza il concorso di norme»; pur in difetto di un rapporto di specialità strutturale tra le due fattispecie ed in assenza di clausole di sussidiarietà che regolino le reciproche interferenze, dovrebbe ritenersi che l’art. 648-bis, reato più grave che incorpora l’intero disvalore oggettivo e soggettivo del fatto, esaurendolo, assorba, nei confronti del terzo extraneus, il meno grave autoriciclaggio; diversamente, non essendo la condotta dell’autore del reato presupposto neppure astrattamente sussumibile (anche sub specie di concorso) nell’ambito dell’art. 648-bis (in ragione dell’operare della clausola di riserva “fuori dei casi di concorso nel reato”) egli risponderà di autoriciclaggio, sia che abbia posto in essere in prima persona la condotta tipica, sia che si sia limitato a fornire un contributo concorsuale atipico dotato di efficienza causale alla sua realizzazione da parte del terzo extraneus. Detto in sintesi: «la condotta del terzo ricade sotto due norme incriminatrici, integrando plurisoggettivamente il reato di autoriciclaggio e monosoggettivamente quello di riciclaggio; sarà però solo quest’ultima norma a prevalere, in applicazione del principio di sussidiarietà. L’autore del reato presupposto resterà invece punibile per il solo reato di autoriciclaggio, non essendo la sua condotta rilevante ai sensi dell’art. 648-bis. La premessa dalla quale l’interprete deve ineludibilmente muovere, onde districarsi nel ginepraio delle possibili configurazioni del concorso di persone nel nuovo delitto di autoriciclaggio, è che la nuova incriminazione è stata concepita, in ossequio agli obblighi internazionali gravanti pattiziamente sull’Italia, essenzialmente, se non unicamente, al fine di colmare la lacuna riguardante l’irrilevanza penale delle condotte di c.d. “auto riciclaggio”, poste in essere dal soggetto autore di (o concorrente in) determinati reati-presupposto, che il legislatore ha ritenuto di individuare nei soli delitti non colposi (art. 648- ter.1, comma 1), come previsto anche in tema di riciclaggio (ma diversamente rispetto a quanto previsto in tema di ricettazione e reimpiego, che menzionano come reati-presupposto i delitti tout court, ciò a riprova del fatto che la normativa di settore è in più punti viziata da una frammentarietà sulla cui effettiva proficuità sarebbe opportuno avviare una seria riflessione). Da questa ineludibile premessa discende (a fronte di una possibile esegesi alternativa che non si pone in contrasto con la non controversa ratio della nuova incriminazione), l’impossibilità di interpretare la normativa allo stato vigente: - sia nel senso della attuale previsione di un trattamento sanzionatorio più favorevole di quello precedente, per il soggetto che non abbia preso parte al reato-presupposto, ed abbia successivamente posto in essere una condotta lato sensu riciclatoria (tipica, ex art. 648-ter.1, od anche atipica), agendo in concorso con l’intraneus chiamato a rispondere di auto riciclaggio: ciò accadrebbe nel caso in cui si ritenesse che la predetta condotta dell’extraneus integra non più  come si riconosceva pacificamente prima dell’introduzione del reato di autoriciclaggio  il delitto di cui all’art. 648-bis, bensì quello di concorso (ex artt. 110 o 117) nel delitto di cui all’art. 648-ter.1, con la conseguenza, già evidenziata dalla dottrina, della sostanziale abrogazione dell’art. 648-bis; - sia nel senso della perdurante irrilevanza penale della condotta dell’intraneus (ovvero del soggetto che abbia preso parte al delitto presupposto non colposo) che si sia limitato a mettere a disposizione il provento del predetto delitto nelle mani del terzo, perché lo reimpieghi, senza compiere in prima persona la condotta tipica di autoriciclaggio (come risulterebbe necessario ritenere ove si configurasse l’autoriciclaggio come delitto “di mano propria”). D’altro canto, in assenza di clausole di sussidiarietà che regolino le reciproche interferenze tra le due fattispecie, ed in difetto di un rapporto di specialità strutturale tra gli artt. 648-bis (e 648-ter) e l’art. 648-ter.1, valorizzabile ex art. 15, non è possibile risolvere la questione in esame argomentando come se essa ponesse unicamente un problema di concorso apparente tra norme. Ciò premesso, nel rispetto della ratio che ha ispirato l’inserimento nel codice penale dell’art. 648-ter.1, si ritiene che il soggetto il quale, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1, continui a rispondere del reato di riciclaggio ex art. 648-bis (ovvero, ricorrendone i presupposti, di quello contemplato dall’art. 648-ter) e non di concorso (a seconda dei casi, ex artt. 110 o 117) nel (meno grave) delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1. Nel predetto caso, soltanto l’intraneus risponderà del delitto di autoriciclaggio. La diversificazione dei titoli di reato in relazione a condotte lato sensu concorrenti non deve meravigliare, non costituendo una novità per il sistema penale vigente, che ricorre a questa soluzione in alcuni casi di realizzazione plurisoggettiva di fattispecie definite dalla dottrina “a soggettività ristretta”. Anche la previsione di un trattamento sanzionatorio meno grave per il delitto di autoriciclaggio trova giustificazione unicamente con la considerazione del minor disvalore che anima la condotta incriminata, se posta in essere (non da un extraneus, bensì) dal responsabile del reato presupposto, il quale abbia conseguito disponibilità di beni, denaro ed altre utilità ed abbia inteso giovarsene, pur nei modi oggi vietati dalla predetta norma incriminatrice, risultando responsabile di almeno due delitti (quello non colposo presupposto e l’autoriciclaggio), non necessariamente in concorso ex art. 81; di qui, l’ulteriore esigenza di mitigare, almeno in parte, le possibili conseguenze del cumulo materiale tra delitto presupposto ed autoriciclaggio, attraverso la previsione, per quest’ultimo (necessariamente posto in essere per secondo), di limiti edittali meno severi rispetto a quelli previsti il riciclaggio (ascrivibile al soggetto extraneus rispetto alla commissione del delitto-presupposto, e che quindi di esso non sopporta  a livello sanzionatorio  conseguenze, e nei confronti del quale, pertanto, anche per tale ragione, l’estensione del trattamento sanzionatorio favorevole previsto in tema di autoriciclaggio risulterebbe del tutto priva di una valida giustificazione sistematica). D’altro canto, prima dell’introduzione dell’art. 648-ter.1 – che, come premesso, non intendeva dettare una nuova disciplina per le condotte alle quali era già attribuito rilievo penale, bensì colmare l’anzidetta lacuna , nessun dubbio era mai stato nutrito con riferimento alla configurabilità del reato previsto e punito dall’art. 648-bis in casi nei quali l’autore del delitto-presupposto, pur non punibile, avesse fornito un contributo rilevante alla condotta tipica del riciclatore extraneus; ed, invero, il concorso nell’attività riciclatoria del soggetto responsabile del reato presupposto è, secondo l’id quod plerumque accidit, ordinario (essendo naturale che la predetta attività illecita venga generalmente ordita su impulso e nell’interesse di quest’ultimo). La novità consiste unicamente nel fatto che, prima dell’introduzione del reato di autoriciclaggio, egli era un concorrente non punibile, mentre oggi è punibile. Ciò premesso, e ribadito che, all’indomani della novella entrata in vigore il 10 gennaio 2015, la diversa condizione dell’intraneus rispetto al passato attiene esclusivamente al profilo della sua punibilità, non esiste alcuna ragione (per la verità, non soltanto non indicata, ma neppure ricercata dagli sparuti sostenitori dell’orientamento qui avversato, a ben vedere fondato su una lettura meramente formalistica delle disposizioni in discorso, che non tiene conto dei beni giuridici tutelati, della pacifica ratio dell’intervento novellatore de quo, oltre che delle implicazioni della dosimetria della pena, da valutare alla luce del parametro costituzionale della finalità rieducativa) per la quale la sopravvenuta incriminazione dell’autoriciclaggio dovrebbe incidere sulla rilevanza penale delle condotte di riciclaggio poste in essere dall’extraneus, sia quanto al titolo, sia quanto al conseguente trattamento sanzionatorio. Ciò conferma la correttezza dell’affermazione che la considerazione dell’ordinamento penalistico per le condotte poste in essere da chi non abbia preso parte alla commissione del reato presupposto “è invece rimasta immutata, constatata la medesimezza delle dinamiche di realizzazione delle attività riciclatorie”. Sulla base delle predette considerazioni, deve concludersi che l’art. 648-ter.1 prevede e punisce come reato unicamente le condotte poste in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo-presupposto, in precedenza non previste e punite come reato. Diversamente, per quanto in questa sede assume rilevanza, le condotte concorsuali poste in essere da terzi estranei per agevolare la condotta di autoriciclaggio posta in essere dal soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, titolare del bene di provenienza delittuosa “riciclato”, conservano rilevanza penale quale fatto di compartecipazione previsto e punito dall’art. 648-bis più gravemente di quanto non avverrebbe in applicazione delle norme sul concorso di persone nel reato, ex artt. 110/117 e 648-ter.1. Questa conclusione non trova decisivo ostacolo nella previsione di cui all’art. 648-ter.1, comma 7, il quale, attraverso il rinvio all’ultimo comma dell’art. 648, prevede che le disposizioni in tema di autoriciclaggio, come quelle in tema di ricettazione, si applichino “anche quando l’autore del delitto, da cui il denaro o le cose provengono, non è imputabile o non è punibile ovvero quando manchi una condizione di procedibilità riferita a tale delitto”. Ferma essendo l’applicabilità dell’art. 648-ter.1 soltanto al soggetto che abbia commesso o concorso a commettere il delitto non colposo presupposto, e non anche a terzi non coinvolti nella commissione del delitto non colposo presupposto, la disciplina dettata dal settimo comma della predetta disposizione comporta unicamente, come già lucidamente posto in evidenza dalla dottrina, che «l’autoriciclaggio sussiste anche se l’autore non sia imputabile per il delitto-presupposto (purché lo sia per l’autoriciclaggio) oppure non sia punibile per il delitto presupposto (si pensi all’impunità ex art. 649 del figlio per il furto in danno del padre, allorquando l’autoriciclaggio riguardi i beni sottratti) o, infine, quando manchi una condizione di procedibilità in relazione al delitto-presupposto (in altre parole, l’autoriciclaggio sussiste anche se ha ad oggetto beni provenienti da un delitto per il quale non può procedersi per mancanza di querela) (Sez. 2, 17235/2018).

Ai fini dell’integrazione del delitto di autoriciclaggio è necessario che la condotta sia dotata di particolare capacità dissimulatoria, sia cioè idonea a provare che l’autore del delitto presupposto abbia effettivamente voluto attuare un impiego finalizzato ad occultare l’origine illecita del denaro o dei beni oggetto del profitto, sicché rilevano penalmente tutte le condotte di sostituzione che avvengano attraverso la reimmissione nel circuito economico-finanziario ovvero imprenditoriale del denaro o dei beni di provenienza illecita, finalizzate a conseguire un concreto effetto dissimulatorio che sostanzia il che differenzia la condotta di godimento personale, insuscettibile di sanzione, dall’occultamento del profitto illecito, penalmente rilevante (Sez. 2, 30401/2018).

La norma sull’autoriciclaggio punisce soltanto quelle attività di impiego, sostituzione o trasferimento di beni od altre utilità commesse dallo stesso autore del delitto presupposto che abbiano però la caratteristica precipua di essere idonee ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Il dettato normativo, dunque, induce a ritenere che si tratti di fattispecie di pericolo concreto, dal momento che esso non lascia dubbi circa la necessità che il giudice penale debba valutare l’idoneità specifica della condotta posta in essere dall’agente ad impedire l’identificazione della provenienza delittuosa dei beni (Sez. 2, 33074/2016).

La clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648-ter.1, a norma della quale «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti: di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa (Sez. 2, 30399/2018).

La suddetta interpretazione della clausola in parola, che muove dalla ratio della fattispecie di autoriciclaggio  proteso a sterilizzare il profitto conseguito dall’agente con il reato presupposto, impedendone il reinvestimento nell’economia legale così da evitarne l’inquinamento: e ciò mediante il divieto di condotte decettive finalizzate a rendere non tracciabili i proventi del delitto presupposto, proprio perché, solo ove i medesimi siano tracciabili si può impedire che l’economia sana venga infettata da proventi illeciti che ne distorcano le corrette dinamiche , sottintende, dunque: a) un uso diretto da parte dell’agente dei beni provento del delitto presupposto, con la conseguente esclusione dall’ambito di applicazione di essa di quelle condotte a seguito delle quali l’agente utilizzi i beni medesimi dopo averli sottoposti ad operazioni di riciclaggio che ne abbiano concretamente ostacolato l’identificazione della provenienza delittuosa; b) l’assenza di qualsiasi attività concretamente di ostacolo all’identificazione della provenienza delittuosa del bene, di che le dette condotte, conseguenti a quelle del delitto presupposto, non possono e non devono essere caratterizzate da comportamenti decettivi, proprio perché l’agente non avrebbe alcuna necessità “giuridica” di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene che utilizza (Sez. 2, 30399/2018).

Alla stregua di tale condivisibile lettura, per la quale, una volta che la fattispecie criminosa di cui all’art. 648-ter.1 sia integrata in tutti i suoi requisiti, l’agente è sanzionabile penalmente, essendo del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia “meramente” utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale, può affermarsi che è ravvisabile il delitto di autoriciclaggio, e non un post factum non punibile, qualsiasi prelievo o trasferimento di fondi operato dal soggetto autore del delitto presupposto successivo a precedenti versamenti, ivi compreso il mero trasferimento di denaro di provenienza delittuosa da un conto corrente bancario ad un altro diversamente intestato e acceso presso un diverso istituto di credito, essendo il delitto in parola a forma libera: questo perché, ai fini della ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 648-ter.1, rileva qualsiasi condotta di manipolazione, trasformazione, trasferimento di denaro quando essa sia concretamente idonea ad ostacolare gli accertamenti sulla provenienza del denaro (Sez. 2, 33074/2016).

Donde la circostanza che vi siano state operazioni dissimulatorie precedenti non elide la portata criminosa di quelle successive ispirate alla medesima finalità, parimenti idonee ad “allontanare” sempre più il bene dalla sua origine e a renderne difficoltoso l’accertamento.

Le conclusioni raggiunte trovano riscontro nell’elaborazione dottrinale sul tema, in seno alla quale si è osservato come la clausola contenuta nella tipizzazione dell’autoriciclaggio “Si applica la pena ..a chiunque avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, speculative, il denaro”, nello svolgere la funzione di legittimare il regime penale della condotta di laundering in caso di realizzazione della stessa da parte dello stesso soggetto autore della condotta corrispondente al delitto presupposto e nel sancire una pena meno grave rispetto a quella prevista per il riciclaggio, cristallizza il collegamento tra la condotta “riciclatrice” ed una “gestione” di utilità economiche già acquisite con una condotta a sua volta punibile.

Il che sta a significare che la punibilità  per quanto in forma meno grave  dell’autoriciclaggio dipende proprio dall’avere questo oggettivamente attentato all’ordine economico mediante l’attività di laundering e non già dall’aver finalizzato sin da principio il precedente delitto allo scopo di realizzare quest’ultima. Il senso della norma si coglie, insomma non già sul piano della “rimproverabilità” soggettiva, ma su quello del passaggio dall’ottenimento per vie illegali di un’utilità economicamente rilevante ad un reinvestimento della medesima in ambiti, a loro volta, fruttuosi sotto il profilo economico e dannosi per gli interessi di quanti ne subiscano obiettivamente le conseguenze (Sez. 5, 5719/2019).

La premessa dalla quale l’interprete deve ineludibilmente muovere, onde districarsi nel ginepraio delle possibili configurazioni del concorso di persone nel nuovo delitto di autoriciclaggio, è che la nuova incriminazione è stata concepita, in ossequio agli obblighi internazionali gravanti pattiziamente sull’Italia, essenzialmente, se non unicamente, al fine di colmare la lacuna riguardante l’irrilevanza penale delle condotte di c.d. “autoriciclaggio”, poste in essere dal soggetto autore di (o concorrente in) determinati reati presupposto, che il legislatore ha ritenuto di individuare nei soli delitti non colposi (art. 648-ter.1, comma 1), come previsto anche in tema di riciclaggio (Sez. 2, 17235/2018).

La clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648-ter.1 a norma della quale “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti” va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa (Sez. 2, 30399/2018).

Il soggetto il quale, non avendo concorso nel delitto-presupposto non colposo, ponga in essere la condotta tipica di autoriciclaggio, o comunque contribuisca alla realizzazione da parte dell’intraneus delle condotte tipizzate dall’art. 648-ter.1, continui a rispondere del reato di riciclaggio ex art. 648-bis (ovvero, ricorrendone i presupposti, di quello contemplato dall’art. 648-ter) e non di concorso (a seconda dei casi, ex artt. 110 o 117) nel (meno grave) delitto di autoriciclaggio ex art. 648-ter.1 (Sez. 2, 17235/2018).

Il delitto di autoriciclaggio si alimenta (in tutto o in parte) con il provento del delitto presupposto. Da qui deriva un’ovvia conseguenza sul piano giuridico: il profitto del delitto di autoriciclaggio non può coincidere con quello del reato presupposto proprio perché di quest’ultimo profitto l’agente ne ha già goduto. Quindi, il “prodotto, profitto o prezzo” del reato di autoriciclaggio non può che essere un qualcosa di diverso ed ulteriore rispetto al provento del reato presupposto. Orbene, se si tiene presente che il reato di autoriciclaggio, per essere configurabile, deve consistere nell’impiego, sostituzione, trasferimento «in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative» del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla commissione del reato presupposto, allora diventa chiaro come il “prodotto, profitto o prezzo” del reato di autoriciclaggio confiscabile non può che consistere, appunto, nel “prodotto, profitto o prezzo” conseguito a seguito dell’impiego, sostituzione, trasferimento «in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative» del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dalla commissione del reato presupposto.

Tale conclusione: è coerente con la ratio legis del reato di autoriciclaggio il cui obiettivo fu quello di sterilizzare il profitto conseguito con il reato presupposto e, quindi, di impedire all’agente sia di reinvestirlo nell’economia legale sia di inquinare il libero mercato ledendo l’ordine economico con l’utilizzo di risorse economiche provenienti da reati: infatti, non a caso, l’agente che abbia commesso il reato presupposto non è punibile ove, ex art. 648-ter 1/4 «il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale»; è in linea con il costante principio di diritto secondo il quale «in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, costituisce profitto del reato non solo il vantaggio costituito dall’incremento positivo della consistenza del patrimonio del reo, ma anche qualsiasi utilità o vantaggio, suscettibile di valutazione patrimoniale o economica, che determina un aumento della capacità di arricchimento, godimento ed utilizzazione del patrimonio del soggetto».

Si finirebbe, infatti, per violare il principio fondamentale secondo il quale si può sequestrare (e confiscare) solo il vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale da ogni reato commesso, ma non si può duplicare la somma confiscabile perché si sanzionerebbe l’agente in assenza di un vantaggio economico (rectius: profitto) derivante dal reato di autoriciclaggio, violando così il divieto del ne bis in idem. Alla stregua di quanto appena detto, deve, quindi, enunciarsi il seguente principio di diritto: «il prodotto, il profitto o il prezzo del reato di autoriciclaggio non coincide con quello del reato presupposto, ma è da questo autonomo in quanto consiste nei proventi conseguiti dall’impiego del prodotto, del profitto o del prezzo del reato presupposto in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative» (Sez. 2, 30401/2018).

In tema di autoriciclaggio di somme oggetto di distrazione fallimentare, la condotta sanzionata ex art. 648-ter 1 non può consistere nel mero trasferimento di dette somme a favore di imprese operative, ma occorre un quid pluris che denoti l’attitudine dissimulatoria della condotta rispetto alla provenienza delittuosa del bene (Sez. 5, 8851/2019).

Il delitto di “riciclaggio” si distingue dal reato di “ricettazione”, non tanto con riferimento ai delitti presupposti, bensì sulla base degli elementi strutturali relativi 1) all’elemento soggettivo che implica il dolo specifico dello scopo di lucro nella ricettazione e il dolo generico nel delitto di riciclaggio; 2) all’elemento materiale che, con particolare riferimento all’art. 648-bis, ha riguardo alla idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene quale “indice caratteristico” delle condotte di cui all’art. 648-bis (Sez. 6, 3608/2019).

 

Voluntary disclosure

La collaborazione volontaria (cosiddetta voluntary disclosure), introdotta con la L. 186/2014, è una procedura con cui il contribuente, autodenunciandosi, dichiara al fisco “attività finanziarie e patrimoniali costituite o detenute fuori dal territorio dello Stato” non indicate nella dichiarazione (art. 5 quater/1 lett. a): cosiddetto nero transfrontaliero), ovvero redditi occultati in Italia (art. 1/2-3-4: cosiddetto nero domestico).

Gli effetti della corretta presentazione dell’autodenuncia sono molteplici, ma, i più importanti possono essere così riassunti: a) regolarizzazione della propria situazione patrimoniale e reddituale; b) corresponsione integrale delle imposte e degli interessi relativi ai redditi non dichiarati; c) riduzione delle sanzioni amministrative applicabili; d) non punibilità dei reati: d1) di omessa o infedele dichiarazione, di dichiarazione fraudolenta con fatture false o altri artifici, di omesso versamento di ritenute certificate, di omesso versamento IVA; d2) di cui agli artt. 648-bis, 648-ter, 648-ter.1.

Ove la dichiarazione sia infedele, l’Agenzia delle Entrate esercita nuovamente il suo autonomo potere di accertamento con la revoca ex tunc dei suddetti benefici (art. 5 quinquies/10). La procedura di collaborazione volontaria, quindi, ha, come effetto principale, quello di fare emergere “il nero”, su cui il contribuente, deve pagare le imposte e gli interessi che avrebbe dovuto pagare oltre le sanzioni in misura ridotta.

È ovvio, poi, che di quei beni occultati – che facevano parte del patrimonio del contribuente  una volta che siano stati dichiarati, il contribuente/proprietario ne possa liberamente disporre (come lo poteva anche prima) in quanto la procedura di collaborazione volontaria non produce alcun effetto di “cristallizzazione” o “incommerciabilità” dei medesimi: l’unico effetto previsto dalla legge è che il contribuente deve pagare le imposte evase, gli interessi e, in misura ridotta, le sanzioni in cui sarebbe incorso ove l’Amministrazione Finanziaria avesse effettuato nei suoi confronti un autonomo accertamento.

La collaborazione volontaria, tuttavia, a norma dell’art. 5 quater/2 «non è ammessa se la richiesta è presentata dopo che l’autore della violazione degli obblighi di dichiarazione di cui all’articolo 4, comma 1, abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali, per violazione di norme tributarie, relativi all’ambito’ oggettivo di applicazione della procedura di collaborazione volontaria indicato al comma 1 del presente articolo. La preclusione opera anche nelle ipotesi in cui la formale conoscenza delle circostanze di cui al primo periodo è stata acquisita da soggetti solidalmente obbligati in via tributaria o da soggetti concorrenti nel reato» (Sez. 2, 14101/2019).