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Art. 513-bis - Illecita concorrenza con minaccia o violenza (1)

Chiunque nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, compie atti di concorrenza con violenza o minaccia è punito con la reclusione da due a sei anni.

La pena è aumentata se gli atti di concorrenza riguardano un’attività finanziata in tutto o in parte ed in qualsiasi modo dallo Stato o da altri enti pubblici.

(1) Articolo aggiunto dall’art. 8, L. 646/1982.

Rassegna di giurisprudenza

Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 513-bis è necessario il compimento di atti di concorrenza che, posti in essere nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o comunque produttiva, siano connotati da violenza o minaccia e siano idonei a contrastare od ostacolare la libertà di autodeterminazione dell’impresa concorrente (SU, 13178/2020).

Il quesito posto alle Sezioni unit era stato il seguente: Se, ai fini della configurabilità del reato di illecita concorrenza con violenza o minaccia, sia necessario il compimento di condotte illecite tipicamente concorrenziali o, invece, sia sufficiente anche il solo compimento di atti di violenza o minaccia comunque idonei a contrastare od ostacolare l’altrui libertà di concorrenza (Sez. 3, 26870/2019). 

Ai fini della configurazione del delitto previsto dall’art. 513-bis, sono da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, sono idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Sez. 2, 30406/2018).

La condotta “impeditiva” idonea a falsare la concorrenza può essere attuata sia a valle (nei confronti degli altri operatori economici che offrono gli stessi servizi) sia a monte nei confronti di coloro che hanno bisogno di quei servizi ma che sono costretti a servirsi, per effetto delle minacce subite, solo ed esclusivamente di una determinata ditta (Sez. 2, 4432/2019).

Integra la condotta del reato di atti di concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio, idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva (Sez. 2, 9513/2018).

In ambito civilistico, non vi è dubbio che, in tema di concorrenza illecita, assume rilievo centrale l’art. 2958 CC, che prevede ai numeri 1) e 2) i casi tipici di concorrenza sleale cosiddetta parassitaria ovvero attiva e al n. 3) una norma di chiusura, secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale, idonei a danneggiare l’altrui azienda. Si tratta, come affermato da questa Corte (Sez. 1 civile, 25652/2014) di comportamenti distinti e diversi da quelli tipicizzati nei numeri 1) e 2), costituenti un’ipotesi autonoma di concorrenza sleale, alternativa all’altra.

La giurisprudenza civile ha da tempo però affermato che l’art. 2598 CC deve essere interpretato alla luce della normativa comunitaria e della L. 287/1990. In particolare si è ritenuto (Sez. 1 civile, 14394/2012) che “si può dire certa nel nostro sistema giurisprudenziale la necessità di leggere la disciplina del codice civile parallelamente a quella del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (direttamente applicabile in Italia), ovvero considerandone parte integrante la logica antitrust”. Il punto di approdo ha visto così affermarsi, anche a livello dottrinale, il concetto di concorrenza inteso come concorrenza effettiva (o efficace) in senso dinamico, tra imprese che competono liberamente nel mercato, che si esercita con l’innovazione (attraverso la ricerca e lo sviluppo), ma alle quali non è consentito consolidare posizioni di privilegio, grazie all’azione dei poteri pubblici in materia di regolazione.

Le norme dettate in materia di abuso di posizione dominante e l’istituzione di apposite strutture, preposte alla sorveglianza del mercato (autorità antitrust), hanno portato a ritenere che la normativa sanziona come atti anticoncorrenziali non solo quelli compiuti dall’imprenditore in positivo ma anche quelli in negativo, diretti cioè contro gli imprenditori concorrenti, proprio perché entrambi sono comportamenti diretti ad acquisire il predominio sul mercato estromettendo, in modo illecito, i concorrenti.

E i comportamenti negativi (consistenti, appunto, nell’ostacolare l’attività del concorrente senza che il mercato ne tragga benefici) sono stati catalogati dalla dottrina fra quegli atti definiti come “concorrenza per impedimento”. In linea con tale nozione di atto di concorrenza, elaborata dalla giurisprudenza civile, non può quindi restringersi l’atto di concorrenza illecita, richiesto dall’art. 513-bis, soltanto a quelle condotte positive, prese in considerazione dalla tesi restrittiva, ma deve ritenersi che anche le condotte impeditive dell’altrui concorrenza, purché realizzate con minaccia o violenza, sono sussumibili nell’ambito della menzionata disposizione normativa.

Siffatta interpretazione non si pone in contrasto con il principio di tassatività, atteso che, perché possa ritenersi sussistente il delitto de quo, si richiede comunque il compimento di un atto di concorrenza illecita, al quale però si attribuisce un significato più ampio di quello fatto proprio dai fautori dell’orientamento contrario. Essa, inoltre, punendo tutte quelle condotte dell’agente tese a scoraggiare mediante violenza o minaccia l’altrui concorrenza, realizza meglio la finalità avute di mira dal legislatore, ossia la tutela dell’ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti (Sez. 2, 7011/2019).

In senso contrario: l’integrazione dell’art. 513-bis richiede condotte tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale (Sez. 1, 6541/2012).

Deve essere premesso come, in materia di illecita concorrenza con violenza o minaccia ai sensi dell’art. 513-bis, si sia registrato nella giurisprudenza di legittimità un consapevole contrasto ermeneutico. Secondo un primo orientamento, ancorato al dato testuale della norma ed al principio di stretta legalità e tassatività, integrano il reato di cui all’art. 513-bis soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, mentre non vi rientrano gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare l’altrui libera concorrenza (Sez. 2, 49365/2016).

Ne discende che, nell’ipotesi di condotte estrinsecantesi in azioni intimidatorie, poste in essere nell’esercizio di attività imprenditoriale, finalizzate a coartare e limitare l’altrui libera concorrenza, ma non integranti “atti di concorrenza” nel senso tecnico-giuridico, non è configurabile il reato di cui all’art. 513-bis, ferma restando, tuttavia, l’eventuale riconducibilità della fattispecie concreta ad altre ipotesi di reato (quali quelle di estorsione o di concussione). Secondo un orientamento teleologicamente orientato, integra invece il reato d’illecita concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente di autodeterminarsi nell’esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura un atto di concorrenza illecita (Sez. 3, 44169/2008).

Il principio è stato riaffermato alla luce del complessivo quadro normativo in tema di concorrenza risultante anche dalle fonti di matrice comunitaria, evidenziando come siano da qualificare atti di concorrenza illecita tutti quei comportamenti sia “attivi” che “impeditivi” dell’altrui concorrenza, che, commessi da un imprenditore con violenza o minaccia, siano idonei a falsare il mercato e a consentirgli di acquisire, in danno dell’imprenditore minacciato, illegittime posizioni di vantaggio sul libero mercato, senza alcun merito derivante dalla propria capacità operativa (Sez. 2, 18122/2016). Nel tentativo di comporre le opposte linee interpretative, di recente, la Sezione terza di questa Corte ha affermato che la condotta materiale del delitto previsto dall’art. 513-bis. può essere integrata da tutti gli atti di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 CC, precisando altresì che detta norma  da interpretare alla luce della normativa comunitaria e della L. 287/1990  contempla, ai numeri 1) e 2), i casi tipici di concorrenza sleale parassitaria, ovvero attiva, mentre, al n. 3), prevede una norma di chiusura, secondo cui sono atti di concorrenza sleale tutti i comportamenti contrari ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda (Sez. 3, 3868/2016).

A sostegno dell’affermazione di principio si è evidenziato, in prima battuta, come la ratio della disposizione, introdotta dalla L. 646/1982 (legge La Torre), come evincibile dalla relazione alla proposta di legge n. 1581 (primo firmatario Pio La Torre), si individui nella “tutela della concorrenza” e, quindi, dell’ordine economico e del libero svolgimento di attività economiche senza interferenza con comportamenti di violenza o minaccia e come, d’altra parte, essendo stato espunto dal testo definitivo il riferimento alla criminalità organizzata, con l’inserimento dell’art. 513-bis nel Titolo VIII, l’ambito di applicazione sia diventato più esteso e non limitato ai comportamenti tipicamente mafiosi. Ciò posto, si è osservato come, in assenza di una nozione penalistica di “atto di concorrenza”, assuma rilievo fondante l’art. 2598 CC che individua gli atti di concorrenza sleale che trovano tutela in ambito civilistico.

Tale norma, anche alla luce degli arresti della giurisprudenza civile di legittimità, prevede diverse tipologie di atti di concorrenza sleale, fra cui al n. 3)  come testé notato  anche tutti quei comportamenti, distinti e diversi da quelli tipizzati nei numeri 1) e 2), contrari “ai principi della correttezza professionale” ed idonei a danneggiare l’altrui azienda (Sez. 1 civile, 25652/2015); SU civili, 2018/1985). Orbene, proprio prendendo spunto dal ragionamento svolto nella pronuncia da ultimo rammentata, si ritiene che, ai fini del reato di cui all’art. 513-bis, il concetto di “atti di concorrenza” debba essere interpretato tenendo conto della norma di riferimento in materia, id est all’art. 2598 CC. Occorre, nondimeno, precisare come, nel momento in cui una disposizione prevista dall’ordinamento giuridico per disciplinare un fenomeno in campo civile sia utilizzata a fini ermeneutici per dare significato ad un concetto utilizzato in ambito penale, salvo una diversa indicazione normativa, detta disposizione non possa essere riduttivamente letta secondo l’ermeneusi seguita nell’applicazione giurisprudenziale in quello specifico settore del diritto (nella specie, civile), che  per definizione  è destinato a regolare il rapporto o l’accadimento sotto un’ottica completamente diversa da quella penalistica.

Si ritiene pertanto che il n. 3 dell’art. 2598 CC, là dove fa riferimento  con una espressione all’evidenza “aperta”  ad “ogni altro mezzo” “non conforme ai principi della correttezza professionale” e “idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, non possa non comprendere fra gli atti di “concorrenza sleale” anche quei comportamenti violenti o minacciosi in danno di un’azienda concorrente atti ad alterare la libera competizione fra imprese nel procacciamento degli affari, sia pure normalmente estranei al fenomeno della “concorrenza sleale” in ambito civilistico e commerciale cui appunto pertiene la disciplina dello stesso art. 2598 CC, in quanto condotte certamente integranti un “altro mezzo” “contrario” “alla correttezza professionale” ed “idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

Mette d’altronde conto di notare come tale lettura estensiva della disposizione  nell’abbracciare nel concetto di “atto concorrenziale” oggetto della previsione “aperta” dell’art. 2598 n. 3 CC qualunque comportamento che possa alterare la libera e leale concorrenza fra imprese  risulta armonica con il bene giuridico tutelato dalla fattispecie, che si individua non solo nel buon funzionamento dell’intero sistema economico, ma anche nella libertà delle persone di autodeterminarsi nello svolgimento delle attività produttive.

Diversamente opinando si dovrebbe pervenire all’irragionevole conclusione che i comportamenti costrittivi che  a prescindere dal fatto di integrare ulteriori condotte penalmente rilevanti  siano specificamente diretti a far recedere un competitor dal partecipare ad una gara volta all’aggiudicazione di un appalto, piuttosto che dal candidarsi ad eseguire talune opere, non siano idonei ad alterare l’ordinario ed il libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato e non possano dunque inquadrarsi nel novero di “ogni altro mezzo” “non conforme ai principi della correttezza professionale” né “idoneo a danneggiare l’altrui azienda”.

L’ermeneusi privilegiata discende, inoltre, dalla ratio dell’incriminazione quale espressa nei Lavori Preparatori della L. 646/1982 recante disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale, e cioè con le finalità e le ragioni di politica criminale che hanno accompagnato l’introduzione della fattispecie nel senso di offrire all’AG un ulteriore strumento per il contrasto delle infiltrazioni della criminalità in ambito economico. Nella Relazione alla proposta di legge n. 1581 presentata alla Camera dei Deputati il 31 marzo 1980, VIII legislatura, si legge difatti che «La mafia, peraltro opera ormai anche nel campo delle attività lecite e si consolida l’impresa mafiosa che interviene nelle attività produttive, forte dell’autofinanziamento illecito (sequestro di persona, contrabbando, etc.) e mira all’accaparramento dell’intervento pubblico, scoraggiando la concorrenza.... Con la previsione del reato di illecita concorrenza con minaccia o violenza, si punisce un comportamento tipico mafioso che è quello di scoraggiare con esplosione di ordigni, danneggiamenti o con violenza alle persone, la concorrenza».

Come si è perspicuamente notato in dottrina, lo strumento di tutela ideato con l’art. 513-bis è volto a fronteggiare l’evoluzione conosciuta dalla mafia negli anni ‘70 del secolo scorso, quando da un modello statico di mafia (che non prevedeva attività imprenditoriale) si è passati ad uno di tipo dinamico, dove l’esercizio dell’attività d’impresa rappresenta lo sbocco naturale e il centro di interessi del sodalizio criminale. L’imprenditoria mafiosa, ricorrendo a metodi violenti intimidatori, finisce con lo scoraggiare o eliminare del tutto l’altrui lecita concorrenza: la mafia sfrutta così il proprio “vantaggio competitivo” per attuare un disegno monopolistico (per settori o aree geografiche di appartenenza) che mette a repentaglio la libera dinamica economica.

Sebbene la fattispecie sia stata ormai svincolata da qualunque necessaria connessione con lo specifico contesto della criminalità organizzata di stampo mafioso, rimane nondimeno fermo che il legislatore, con l’introduzione del reato di illecita concorrenza, abbia espressamente preso di mira quelle condotte anticoncorrenziali comunque realizzate con comportamenti violenti o minatori, che devono pertanto essere ricondotte all’alveo dell’incriminazione. La lettura proposta risulta inoltre sintonica con la particolare tutela assicurata all’economia di mercato aperta e in libera concorrenza sia dalla L. 287/1990 (in tema di tutela della concorrenza e del mercato), sia  e soprattutto  dal quadro normativo comunitario (artt. 101-106 TUE, art. 120 TFUE, art. 16 CEDU), prevalente sulla norma interna in virtù degli artt. 11 e 117 Cost. (Sez. 1 civile, 14394/2012).

D’altra parte, non è revocabile in dubbio che, ove la condotta anticoncorrenziale sia posta in essere con condotte integranti anche il delitto di estorsione, i due delitti potranno se del caso concorrere, trattandosi di norme con diversa collocazione sistematica e preordinate alla tutela di beni giuridici diversi, di tal che, ove ne ricorrano gli elementi costitutivi, si ha concorso formale tra gli stessi (Sez. F, 45132/2014). Tirando le fila delle considerazioni che precedono, si ritiene di dover affermare il principio di diritto secondo il quale il reato di cui all’art. 513- bis. è configurabile in tutti i casi in cui l’agire coercitivo connotato da violenza o minaccia, esplicato nell’ambito dell’esercizio di un’attività commerciale, industriale o produttiva, integri un “atto tipicamente concorrenziale” e che, nondimeno, al fine di definire l’ambito di tale concetto, occorra avere riguardo alle ipotesi di “concorrenza sleale” previste dall’art. 2598 CC nella sua integralità.

Se ne inferisce che, ai fini della enucleazione degli “atti di concorrenza” rilevanti ai fini dell’incriminazione de qua, non potrà non considerarsi l’ipotesi prevista dal n. 3) del citato art. 2598 CC – residuale ed all’evidenza “aperta” , alla stregua della quale “compie atti di concorrenza sleale chiunque” “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”, fra questi non potendosi non annoverare tutti quei comportamenti violenti o minatori che siano specificamente diretti ad alterare l’ordinario ed il libero rapportarsi degli operatori in un’economia di mercato (Sez. 6, 50096/2018).

Il delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia concorre e non è assorbito nel reato di estorsione, trattandosi di fattispecie preordinate alla tutela di beni giuridici diversi; la disposizione di cui all’art. 513-bis ha come scopo la tutela dell’ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive a esso inerenti, mentre il reato di estorsione tende a salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei singoli (Sez. 2, 53139/2016).

La natura di reato complesso del delitto di illecita concorrenza con violenza o minaccia, previsto dall’art. 513-bis, consente l’assorbimento in esso di altri reati concorrenti come la violenza o la minaccia. Tuttavia, non può essere consentito l’assorbimento di tale reato in quello di tentata estorsione, in base al criterio di specialità previsto dall’art. 15.

Le due norme, oltre ad avere una collocazione sistematica diversa, sono dirette alla tutela di beni giuridici differenti: la disposizione di cui all’art. 513-bis, collocata tra i reati contro l’industria ed il commercio, presupponendo una condotta dell’agente tesa a scoraggiare mediante violenza o minaccia l’altrui concorrenza, ha come scopo la tutela dell’ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive ad esso inerenti, mentre la norma di cui all’art. 629 tende a salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei singoli, trattandosi di reato contro il patrimonio.

Ne consegue che, quando si realizzano contemporaneamente gli elementi costitutivi di entrambi i reati, è pienamente configurabile il concorso formale degli stessi, non ricorrendo il concorso apparente di norme previsto dall’art. 15. Ipotesi, questa, che invero appare ricorrere nel caso in esame, in cui, oltre al contestato delitto di estorsione, si appalesano sussistenti anche gli elementi del reato di cui all’art. 513-bis (Sez. 2, 7011/2019).