Art. 515 - Frode nell’esercizio del commercio
1. Chiunque, nell’esercizio di un’attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all’acquirente una cosa mobile per un’altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a euro 2.065 (1).
2. Se si tratta di oggetti preziosi, la pena è della reclusione fino a tre anni o della multa non inferiore a euro 103 (1).
(1) Multa così aumentata dall’art. 113 della L. 689/1981.
Rassegna di giurisprudenza
Il reato di frode nell’esercizio del commercio, ex art. 515, può essere commesso da chiunque agisca nell’esercizio di un’attività commerciale, non essendo essenziale la qualità formale di commerciante (Sez. 6, 12499/1988, richiamata adesivamente da Sez. 3, 59515/2018).
Il delitto di frode in commercio si consuma soltanto con la consegna materiale della merce all’acquirente (Sez. 3, 4885/2019).
Il delitto di cui all’art. 516 è un reato di pericolo che punisce la semplice immissione sul mercato di sostanze alimentari non genuine come genuine e, in quanto relativo ad una fase preliminare alla relazione commerciale vera e propria tra due soggetti, rappresenta una forma di tutela anticipata e sussidiaria rispetto a quello di frode in commercio previsto dall’art. 515 che invece sussiste, nella forma consumata o tentata, nell’ipotesi di materiale consegna della merce all’acquirente o di atti univocamente diretti a tale fine (Sez. 3, 50745/2016).
La detenzione di alimenti congelati o surgelati all’interno di un locale di somministrazione, senza che nella lista delle vivande sia indicata tale caratteristica, integra il reato di tentativo di frode in commercio, trattandosi di condotta univocamente idonea a consegnare ai clienti un prodotto diverso, per qualità, da quello dichiarato.
Può, infatti, concretizzare la fattispecie di reato in esame anche il semplice fatto di non indicare nella lista delle vivande, posta sui tavoli di un ristorante, che determinati prodotti sono congelati, in quanto l’esercizio di ristorazione ha l’obbligo di dichiarare la qualità della merce offerta ai consumatori, di tal che la mancata specificazione della qualità del prodotto (naturale o congelato) integra il reato di tentata frode nell’esercizio del commercio, perché la stessa proposta di vendita non veritiera, insita nella lista vivande (la presenza della lista delle vivande equivale ad una proposta contrattuale nei confronti dei potenziali clienti e manifesta l’intenzione di offrire i prodotti indicati nella lista stessa), costituisce un atto diretto in modo non equivoco a commettere il delitto di cui all’art. 515 (Sez. 3, 9698/2019).
Integra il reato tentato di frode in commercio la mera disponibilità, nella cucina di un ristorante, di alimenti surgelati, seppure non indicati come tali nel menu, indipendentemente dall’inizio di una concreta contrattazione con il singolo avventore (Sez. 3, 39082/2017).
Il deposito nel magazzino dei prodotti finiti di merce non rispondente per origine, provenienza, qualità o quantità a quella dichiarata o pattuita, è atto idoneo diretto in modo non equivoco a commettere, nel caso di vendita all’ingrosso, il reato di frode nell’esercizio del commercio, in quanto indicativo della successiva immissione nel circolo distributivo di prodotti aventi differenti caratteristiche rispetto a quelle dichiarate o pattuite (Sez. 3, 3479/2009).
In tema di frode nell’esercizio del commercio, nella nozione di dichiarazione di cui all’art. 515 rientrano anche le indicazioni circa origine, provenienza, qualità o quantità della merce contenute nell’eventuale messaggio pubblicitario che abbia preceduto la materiale offerta in vendita della stessa, essendo tale pubblicità idonea a trarre in inganno l’acquirente che riceve l’”aliud pro alio” (Sez. 3, 27105/2008).
L’apposizione di una dicitura ingannevole (cioè idonea ad indurre in errore il consumatore riguardo alle caratteristiche del prodotto) è idonea ad integrare il reato di cui all’art. 515 (Sez. 3, 19746/2010).
La fattispecie incriminatrice prevista dall’art. 516 rappresenta una forma di tutela avanzata rispetto al reato di frode in commercio di cui all’art. 515, in quanto essa è relativa ad una fase preliminare ed autonoma rispetto alla relazione commerciale vera e propria, e si consuma con la messa in commercio delle cose non genuine, configurando un reato di pericolo (Sez. 3, 19625/2003). Tale delitto, infatti, copre l’area della semplice immissione sul mercato ed è sussidiario rispetto a quello di cui all’art. 515, atteso che nell’ipotesi di materiale consegna della merce all’acquirente, o di atti univocamente diretti a tale fine, il reato è quello di cui al citato art. 515, rispettivamente nella forma consumata o tentata, assorbente rispetto a quello di cui all’art. 516 (Sez. 3, 8292/2006).
La marcatura CE che indica, a tutela del consumatore, che il prodotto così contrassegnato è conforme ai requisiti essenziali imposti da direttive comunitarie in materia di sicurezza, sanità, etc. in ordine al suo utilizzo, viene, secondo quanto previsto dall’art. 13 DLGS 86/2016 che disciplina in attuazione delle direttive comunitarie l’immissione in commercio di materiale elettrico a bassa tensione, che la marcatura CE, ovverosia la stampigliatura attestante la conformità del prodotto ai requisiti imposti dalla normativa comunitaria, venga apposta sul prodotto direttamente dal fabbricante o produttore, al quale compete altresì, ai sensi del precedente art. 12, la predisposizione della documentazione attestante il rispetto della normativa suddetta a corredo dello specifico prodotto destinato alla messa in commercio: in sostanza la dichiarazione di conformità è una forma di autocertificazione essendo i prodotti immessi sul mercato sotto la responsabilità del fabbricante o dell’importatore che provvede direttamente ad apporre su di essi il relativo contrassegno.
A ciò consegue che gli Stati membri dell’Unione non possono limitare l’immissione sul mercato così come la circolazione di beni con la suddetta marcatura se non nel caso in cui sia provata la non conformità del prodotto agli standard europei in sede giudiziale, con conseguente inversione dell’onere della prova, incombendo pertanto sulla pubblica accusa la dimostrazione che il prodotto è difforme dalle prescrizioni impartite in sede comunitaria e perciò inidoneo alla circolazione (Decisione 93/462 CEE). Una volta fornita la documentazione di conformità, ogni onere a carico del fabbricante o dell’importatore deve ritenersi assolto, spettando alla pubblica accusa dimostrare che i prodotti non rispondano ai requisiti attestati dalla suddetta documentazione (Sez. 3, 53642/2018).
Integra il reato di frode nell’esercizio del commercio la detenzione di merce recante la marcatura CE (indicativa della locuzione “China Export”) apposta con caratteri tali da ingenerare nel consumatore la erronea convinzione che i prodotti rechino, invece, il marchio CE (Comunità Europea), poiché l’apposizione di quest’ultimo ha la funzione di certificare la conformità del prodotto ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato europeo.
Invero, poiché l’interesse tutelato dalla disposizione incriminatrice in esame è quello dello Stato e del consumatore al leale esercizio del commercio e il reato in essa previsto è integrato dalla semplice messa in vendita di un bene difforme da quello dichiarato, è evidente che la consegna di merce recante una marcatura ingannevole, che parrebbe attestare la rispondenza a specifiche costruttive che assicurano la sussistenza dei requisiti di sicurezza e qualità richiesti dalla normativa comunitaria, determina quella divergenza qualitativa che configura l’illecito penale. Infatti, la decettività della marcatura CE (China Export), che si distingue da quella europea per la sola, impercettibile, diversa distanza tra le due lettere, è da sola sufficiente ad ingenerare nel consumatore la convinzione che la merce abbia le caratteristiche e gli standard europei.
Ne può darsi, neanche in astratto, l’ipotesi di merci prive della marcatura CE (Comunità europea) che siano comunque dotate di tutti tali requisiti, perché l’apposizione del marchio CE da parte del produttore ha la funzione di certificare la conformità del prodotto con i requisiti essenziali richiesti dal mercato europeo; e tale certificazione costituisce in sé un essenziale elemento qualitativo del prodotto (Sez. 3, 45916/2014).
Il delitto di frode nell’esercizio del commercio è configurabile anche nel caso in cui l’acquirente non effettui alcun controllo sulla merce offerta in vendita, essendo irrilevanti sia l’atteggiamento, fraudolento o meno, del venditore, che la possibilità per l’acquirente di accorgersi della diversità della merce consegnatagli rispetto a quella richiesta (Sez. 3, 54207/2016).
In materia alimentare, anche dopo la trasformazione in illecito amministrativo delle sanzioni previste dalla L. 26/1990 sulla tutela della denominazione d’origine «prosciutto di Parma» la consegna di un diverso tipo di prosciutto integra il delitto previsto dagli artt. 515 e 517-bis, in quanto la disposizione codicistica ha come oggetto la tutela del leale esercizio del commercio e conseguentemente l’interesse del consumatore a non ricevere una cosa diversa da quella richiesta, così come quello del produttore a non vedere i propri prodotti scambiati surrettiziamente con prodotti diversi (Sez. 3, 4351/2004).
Fra gli artt. 515 e 516 e le norme della legislazione speciale sui vini vi è una «relazione di specialità reciproca». E difatti, così come la disciplina speciale sui vini non copre ovviamente l’intera estensione dell’art. 516, anche quest’ultimo non copre l’intera estensione della L. 82/2006 e del DPR 162/1965, perché, ad esempio, ha ad oggetto solo la condotta di chi pone in vendita o mette altrimenti in commercio il prodotto alimentare, e non anche tutte le altre attività concernenti le operazioni di vinificazione e di produzione del vino e prodotti assimilati.
Pertanto, la possibilità di applicazione di entrambe le discipline deriva dal fatto che le norme del DPR 162/1965 e della L. 82/2006 hanno un ambito di applicazione che non è interamente coperto da quello degli artt. 515 e 516. Se dunque una fattispecie concreta rientri totalmente nella sfera di applicazione sia della norma del codice sia di quella speciale sulla produzione ed il commercio dei vini, in forza del principio di specialità dovrà applicarsi solo quest’ultima.
A meno che, ovviamente, la norma speciale amministrativa non ponga una riserva di applicazione della norma generale penale, come avviene, ad esempio, nel caso, dianzi ricordato, dell’art. 35, comma 5, della L. 82/2006, il quale prevede espressamente che le sanzioni amministrative ivi indicate si applichino «salvo che il fatto costituisca reato». Se invece il soggetto ponga in essere una condotta complessiva che violi, per una parte, le norme della disciplina speciale e, per altra parte, diverse ed ulteriori norme ricavabili dagli artt. 515 e 516, allora non potrebbe escludersi l’applicazione delle due norme in relazione alla condotta complessiva (in realtà alle due diverse condotte). Al contrario, quando l’intera condotta violi la normativa speciale sul mercato del vino, troverà applicazione solo quest’ultima, tranne che nelle ipotesi per le quali questa contenga la clausola «salvo che il fatto costituisca reato (Sez. 3, 5906/2014).
La fattispecie della truffa contrattuale si distingue da quella della frode in commercio perché l’una si concretizza quando l’inganno perpetrato nei confronti della parte offesa sia stato determinante per la conclusione del contratto, mentre l’altra si perfeziona nel caso di consegna di una cosa diversa da quella dichiarata o pattuita, ma sul presupposto di un vincolo contrattuale costituito liberamente senza il concorso di raggiri o artifici (Sez. 3, 40271/2015).
La fraudolenza nella fase esecutiva di un rapporto contrattuale non esclude affatto la consumazione del reato di truffa visto che gli artifici possono riguardare non solo la fase negoziale vera e propria, ma anche quella esecutiva, come nel caso in cui, per esempio, il pagamento della merce venga effettuato dopo la consegna. In questo caso, infatti, l’artificio o il raggiro precede l’atto di disposizione patrimoniale ed è anzi causalmente ricollegato proprio ad esso (Sez. 6, 10739/1994, secondo cui, per esempio, quando, nello svolgimento di un’attività commerciale avente ad oggetto la vendita al minuto di prodotti surgelati destinati all’alimentazione umana, si effettui la sostituzione dell’etichetta originaria indicante la data di scadenza già superata, del prodotto con altra recante data diversa e successiva, si realizza il delitto di truffa e non quello di frode in commercio solo se tale condotta abbia apportato contributo causale all’acquisto) (Sez. 3, 41678/2018).
È compatibile con il reato di frode in commercio, realizzata mediante vendita di aliud pro alio, l’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 (Sez. 6, 5087/1978).