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Art. 474 - Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi

1. Fuori dei casi di concorso nei reati previsti dall’articolo 473, chiunque introduce nel territorio dello Stato, al fine di trarne profitto, prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi, nazionali o esteri, contraffatti o alterati è punito con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da euro 3.500 a euro 35.000.

2. Fuori dei casi di concorso nella contraffazione, alterazione, introduzione nel territorio dello Stato, chiunque detiene per la vendita, pone in vendita o mette altrimenti in circolazione, al fine di trarne profitto, i prodotti di cui al primo comma è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a euro 20.000.

3. I delitti previsti dai commi primo e secondo sono punibili a condizione che siano state osservate le norme delle leggi interne, dei regolamenti comunitari e delle convenzioni internazionali sulla tutela della proprietà intellettuale o industriale (1).

(1) Articolo prima modificato dall’art. 113, L. 689/1981 e poi così sostituito dalla lettera b) del comma 1 dell’art. 15, L. 99/2009.

Rassegna di giurisprudenza

L’art. 474 tutela non solo il consumatore, ma anche il produttore, che subisce un pregiudizio dalla vendita indiscriminata di merce contraffatta, e rappresenta un reato contro la fede pubblica, messa a repentaglio dalla diffusione di merce dalla incerta ed equivoca provenienza (Sez. 7, 4536/2019).

Integra il delitto di cui all’art. 474 la detenzione per la vendita di prodotti recanti marchio contraffatto senza che abbia rilievo la configurabilità della contraffazione grossolana, considerato che l’art. 474 tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la fede pubblica, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi e segni distintivi, che individuano le opere dell’ingegno e i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione anche a tutela del titolare del marchio; si tratta, pertanto, di un reato di pericolo, per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno non ricorrendo quindi l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno (Sez. 5, 5260/2014).

L’attribuzione alla contraffazione del carattere della grossolanità richiede che le caratteristiche intrinseche del marchio e del prodotto siano tali da escludere la possibilità che venga tratto in inganno un numero indeterminato di acquirenti, e quindi di persone di comune avvedutezza (Sez. 5, 5260/2014).

Se l’oggetto della tutela penale approntata dall’art. 474 è la fede pubblica, è evidente che la servile imitazione di un marchio, ove realizzata, non può ritenersi scriminata dal solo fatto che sullo stesso sia apposta una dicitura che indichi come questo sia un falso d’autore, perché tale avvertenza è, appunto, destinata all’acquirente e non incide in alcun modo sull’illecita imitazione del marchio (Sez. 2, 28423/2012).

Il reato previsto dall’art. 474 è reato di pericolo per la cui configurazione non occorre la realizzazione dell’inganno e non ricorre l’ipotesi del reato impossibile qualora la grossolanità della contraffazione e le condizioni di vendita siano tali da escludere la possibilità che gli acquirenti siano tratti in inganno, poiché l’art. 474 tutela, in via principale e diretta, non già la libera determinazione dell’acquirente, ma la pubblica fede, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi (Sez. 7, 11339/2019).

L’apposizione della dicitura “copia d’autore” su prodotti industriali recanti marchi contraffatti non esclude l’integrazione del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi,  che tutela la fede pubblica, intesa come affidamento nei marchi o nei segni distintivi  trattandosi di un reato di pericolo per la cui integrazione è necessaria soltanto l’attitudine della falsificazione a ingenerare confusione, con riferimento non solo al momento dell’acquisto, ma anche a quello della successiva utilizzazione (Sez. 5, 2300/2018).

Ai fini del reato di cui all’art. 474 non occorre affatto la consegna della merce contraffatta a potenziali acquirenti, essendo sufficiente dimostrare, sulla base dei più disparati indizi (compreso il numero elevato di prodotti), il fine della vendita (Sez. 2, 142/2012).

L’assenza di perizia non esclude la prova del delitto di cui all’art. 474, potendo questa essere desunta dalle dichiarazioni di testimone particolarmente qualificato che riferisca su fatti caduti sotto la sua diretta percezione sensoriale ed inerenti alla sua abituale e particolare attività, giacché in tal caso l’apprezzamento diventa inscindibile dal fatto ed è come tale preclusa in sede di legittimità (Sez. 7, 5592/2019).

Il delitto di ricettazione e quello di commercio di prodotti con segni falsi possono concorrere, atteso che le fattispecie incriminatrici descrivono condotte diverse sotto il profilo strutturale e cronologico, tra le quali non può configurarsi un rapporto di specialità, e che non risulta dal sistema una diversa volontà espressa o implicita del legislatore (SU, 23427/2011).

Integra il reato di commercio di prodotti con segni falsi la riproduzione di un personaggio di fantasia, tutelato da marchio registrato, ancorché non fedele, ma espressiva di una forte somiglianza, quando sia possibile rilevare un’oggettiva e inequivocabile possibilità di confusione delle immagini, tale da indurre il pubblico ad identificare erroneamente la merce come proveniente da un determinato produttore (Sez. 2, 10212/2019).

Ai fini della sussistenza del delitto previsto dall’art. 474, allorché si tratti di marchio di larghissimo uso e di incontestata utilizzazione da parte delle relative società produttrici, non è richiesta la prova della sua registrazione, gravando in tal caso l’onere di provare la insussistenza dei presupposti per la sua protezione su chi tale insussistenza deduce (Sez. 2, 36139/2017).

Il reato di introduzione nel territorio dello Stato di prodotti recanti marchi contraffatti è istantaneo ed il momento di consumazione, in caso di trasporto aereo delle merci che ne costituiscono oggetto, coincide con quello in cui il velivolo entra nello spazio aereo italiano, essendo quindi irrilevante il superamento o meno della barriera doganale dell’aeroporto, trattandosi di evento successivo alla consumazione della fattispecie (Sez. 5, 53198/2018).

I reati previsti dagli articoli 473 e 474 tutelano la pubblica fede con riferimento ai segni distintivi di un determinato prodotto ed hanno come presupposto l’attività fraudolenta del soggetto, esplicatasi mediante alterazione o contraffazione di marchi, etichette o sigilli originali, sicché, in tale contesto normativo, il riutilizzo, dopo la scadenza della relativa licenza, di un’etichetta o di un marchio vero su un prodotto non originale rientra nel concetto di contraffazione (Sez. 5, 22503/2016).

Non viola il principio di correlazione tra accusa e sentenza la decisione di condanna per il reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517) a fronte della contestazione del reato di introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi (art. 474) (fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la sentenza con la quale, a fronte di una contestazione relativa al reato previsto dall’art. 474, che faceva riferimento alla detenzione per la vendita di alcuni capi di abbigliamento con marchi e segni distintivi contraffatti e/o alterati, il giudice di merito aveva riqualificato il fatto riconducendolo all’art. 517) (Sez. 3, 24914/2015).

L’art. 240, secondo comma, n. 2), prevede che, anche in assenza di condanna, il giudice penale debba confiscare le cose la cui fabbricazione, uso, porto, detenzione o alienazione costituisce reato; che nessuna norma sanziona penalmente l’uso non autorizzato di marchi o segni distintivi autentici apposti si beni che non abbiano caratteristiche intrinseche tali da non potere essere commercializzati secondo il contratto fra titolare del marchio e produttore dei beni dal marchio contrassegnati; tale commercializzazione costituisce, in tesi, illecito civile, atteso che, per il divieto di analogia in materia di norme incriminatrici, non può ritenersi configurabile né il reato previsto dall’art. 474 (che punisce, per quanto qui interessa, il commercio di prodotti con marchi o segni distintivi contraffatti o alterati, ma non l’utilizzazione di marchi o segni distintivi autentici senza o oltre il consenso del titolare), né quello previsto dall’art. 471, che punisce l’uso non autorizzato di sigilli e strumenti di autenticazione “veri”, ma non quello di marchi o altri segni distintivi (Sez. 2, 21168/2003).

La detenzione, ai fini della relativa commercializzazione, di scialli, contrassegnati dal marchio “Louis Vuitton”, che siano difettosi, ovvero “di seconda scelta”, ovvero costituenti campioni, non costituisce il reato di cui all’art. 474, trattandosi di fatto «l più genericamente sussumibile nell’astratta fattispecie di frode in commercio, peraltro ancora, forse, nelle intenzioni dell’agente, ma certamente non ancora sussistente (Sez. 1, 50949/2018).

L’entrata in vigore del DL 485/1996, convertito nella L. 586/1996, abrogando il precedente divieto della distribuzione degli utili previsto dall’art. 10 comma 2 L. 91/1981, ha consentito anche alle società sportive professionistiche, in compatibilità con il disposto dell’art. 2247 CC, il perseguimento dello scopo di lucro, assoggettando le medesime alla disciplina comune in materia di società.

Con la stessa normativa l’oggetto sociale delle società sportive è stato esteso anche alle attività connesse o strumentali all’attività sportiva, così consentendo a tali società di operare anche in aree diverse ed ulteriori rispetto a quelle strettamente sportive ed agonistiche e di svolgere attività d’impresa in settori limitrofi, quali la vendita dei diritti per le riprese televisive dei loro incontri sportivi, la vendita di spazi pubblicitari e dei prodotti legati al merchandising. Le società sportive professionistiche sono quindi delle imprese a tutti gli effetti e, come tali, nell’esercizio della loro attività economica organizzata al fine della produzione e scambio di beni e servizi (ovviamente contigui all’attività sportiva), possono utilizzare e registrare marchi commerciali.

Se è pur vero che i marchi utilizzati dalle squadre professioniste di calcio spesso evocano la denominazione geografica della città o della regione in cui gioca la squadra  circostanza che sarebbe ostativa alla loro registrabilità, a norma dell’art. 13 comma 1 del CPI, ove il segno fosse costituito in via esclusiva dal toponimo  tuttavia, anche una denominazione geografica può essere inserita in un marchio e dare luogo ad un marchio “forte” purché l’insieme del segno, in concreto, faccia desumere l’avvenuta trasposizione del messaggio dal piano di riferimento del luogo a quello di individualizzazione del prodotto, sicché prevalendo le componenti di originalità e fantasia, l’uso del toponimo non adempia ad una funzione meramente descrittiva”.

Peraltro, anche ammettendo che al toponimo venga aggiunto un elemento differenziale solo minimo, quale, a titolo di esempio, la data di fondazione della società calcistica, tale segno sarà registrabile e godrà tendenzialmente della tutela del marchio debole in relazione allo stretto collegamento concettuale tra il marchio e la denominazione geografica, salvo che non venga fornita prova dell’acquisita capacità distintiva, del suo rafforzamento, attraverso l’uso dello stesso segno (c.d. secondary meaning). In tale eventualità, anche ove il segno coincida con il mero toponimo, oltre ad essere registrabile in deroga all’art. 13 comma 1 CPI, godrà della tutela del marchio forte.

Nel caso di specie, i marchi delle squadre di calcio impressi sulle magliette sono pienamente tutelabili, oltre che per le sopra illustrate osservazioni, anche perché celebri o comunque notori, circostanza che li rende comunque registrabili a norma dell’art. 8 comma 3 CPI. Né sono condivisibili le affermazioni contenute nell’ordinanza impugnata secondo cui l’uso generalizzato del marchio o del logo della squadra di calcio, incidendo sul requisito della novità e della originalità, ne inficerebbe la validità.

Se è pur vero che non possono essere registrati per carenza del requisito di novità, a norma del combinato disposto degli artt. 7 e 12 CPI, i segni che siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente ed abbiano quindi perso la loro capacità distintiva (c.d. “volgarizzazione” del segno), tale caratteristica non può essere certo attribuita ai segni delle società calcistiche che sono stati impressi sulle magliette oggetto di sequestro, la cui forte capacità distintiva (in conseguenza della immediata immedesimazione concettuale degli stessi con quella determinata società), la cui notorietà, acquisita con l’attività sportiva principale, non può certo essere messa in discussione.

Né può sostenersi che l’eventuale uso ultradecennale di tali segni sui capi di abbigliamento da parte di produttori e venditori di articoli sportivi  che non può comunque essere genericamente allegato ma va rigorosamente dimostrato  prima che venissero meno i paletti normativi sopra evidenziati che impedivano alle società calcistiche di poter sfruttare commercialmente i propri segni, costituisca un elemento ostativo alla loro registrazione.

Eventualmente il singolo operatore economico che, nel caso concreto, alleghi la preesistente commercializzazione di prodotti portanti marchi che hanno poi formato oggetto di registrazione (quando le società sportive hanno iniziato ad associare alla propria attività sportiva quella collaterale di merchandising gestita direttamente o indirettamente mediante licenza a terzi), potrà continuare a venderli solo ove fornisca la prova puntuale del preventivo uso dei segni poi registrati da parte dei loro titolari.

Accertata quindi incidentalmente, a norma dell’art. 2, la piena registrabilità e tutelabilità dei marchi delle società calcistiche impressi sulle maglie oggetto di registrazione, va osservato che i cosiddetti marchietti delle società Juventus, Inter e Milan risultano regolarmente registrati, mentre, per quanto concerne quello della Roma Calcio, trattandosi di marchio celebre, ai fini della sussistenza del delitto previsto dall’art. 474, non è richiesta la prova della sua registrazione, gravando in tal caso l’onere di provare la insussistenza dei presupposti per la sua protezione su chi eventualmente tale insussistenza deduce (Sez. 2, 36139/2017, richiamata da Sez. 5, 33900/2018).

Mentre il concetto di contraffazione, ai fini della tutela penale, presuppone la riproduzione integrale in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio o di un segno distintivo, per alterazione  costituente parimenti condotta punibile a norma degli artt. 473 e 474  si intende la riproduzione solo parziale ma tale da potersi confondere col marchio originario o col segno distintivo. Dunque, è sufficiente la riproduzione del marchio “nei suoi elementi essenziali” e tale valutazione deve essere condotta sulla base di un esame, non analitico, ma sintetico che tenga conto dell’impressione d’insieme e della specifica categoria cui il prodotto è destinato.

È evidente che più il marchio gode di rinomanza  circostanza che nella disciplina civilistica lo rende tutelabile, a norma dell’art. 20 lett. c) CPI, a prescindere addirittura da ogni confondibilità del segno e dal settore merceologico in cui si colloca il prodotto  più lo stesso è dotato di una forte capacità distintiva, con la conseguenza che, nella valutazione complessiva dei segni posti al raffronto, eventuali elementi di differenziazione aventi carattere secondario presenti nei segni dei contraffattori non incidono sulla positiva valutazione di falsità.

Né può avere rilievo la circostanza che gli acquirenti possano avere eventualmente consapevolezza della falsità del marchio, considerato che le norme penali sul falso tutelano l’affidabilità di alcune forme di comunicazione e di rappresentazione della realtà, prescindendo, di regola, dalla lesione di ulteriori interessi patrimoniali, con la conseguenza che ciò che rileva non è una generica idoneità all’inganno della condotta ma solo l’idoneità di un documento o di un marchio ad assumere un significato descrittivo non corrispondente ai fatti e, quindi, nella specie, non rileva che il singolo acquirente sia effettivamente ingannato o addirittura consapevole della falsità, ma solo che il marchio contraffatto sia idoneo a fare falsamente apparire il prodotto come proveniente da un determinato produttore (Sez. 5, 33900/2018).