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Art. 103 - Abitualità ritenuta dal giudice

1. Fuori del caso indicato nell’articolo precedente, la dichiarazione di abitualità nel delitto è pronunciata anche contro chi, dopo essere stato condannato per due delitti non colposi, riporta un’altra condanna per delitto non colposo, se il giudice, tenuto conto della specie e gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta e del genere di vita del colpevole e delle altre circostanze indicate nel capoverso dell’articolo 133, ritiene che il colpevole sia dedito al delitto.

Rassegna di giurisprudenza

La declaratoria di delinquente abituale ha effetto dal momento della sua pronuncia ed esplica i suoi effetti dalla irrevocabilità della sentenza che l’ha dichiarata e soltanto in relazione ai fatti commessi in data successiva a essa. Tanto rileva anche ai fini del calcolo del tempo necessario alla maturazione della prescrizione, per cui la dichiarazione di abitualità comporta il raddoppio dei termini soltanto in relazione ai fatti commessi dopo la data di irrevocabilità della sentenza che ha dichiarato l’abitualità e, conseguentemente, non può valere per il fatto giudicato nella stessa sentenza che tale abitualità ha dichiarato (Fattispecie nella quale la corte di appello, nel confermare la sentenza di condanna di primo grado, aveva dichiarato l’imputato delinquente abituale ed escluso il perfezionamento della prescrizione, osservando che la dichiarazione di abitualità nel reato comportasse il raddoppio dei termini di prescrizione. La Corte, in applicazione del principio enunciato, ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata, essendo il reato estinto per prescrizione) (Sez. 2, 15446/2022).

Diversamente da quanto avviene in sede esecutiva, nel procedimento di cognizione l'apprezzamento dell'abitualità non può aversi in assenza di una specifica contestazione, pena la violazione dell'art. 429, c. 1 lett. c) e 522 CPP (Sez. 4, 5416/2022).

Ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato, ritenuta dal giudice ai sensi dell’art. 103, non si realizza la condizione pretesa dalla disposizione di legge quando la pluralità di delitti non colposi, accertati con distinte sentenze, sia unificata per effetto del riconoscimento della continuazione, operato in sede di cognizione (Sez. 1, 36036/2018).

Per disporre la misura di sicurezza nei confronti di soggetto condannato e dichiarato delinquente abituale, è necessario accertare la persistenza della pericolosità sociale al momento della sua effettiva applicazione e che la pericolosità è sempre ancorata a fatti inevitabilmente pregressi rispetto a tale momento. Precipuamente, il giudizio di pericolosità deve essere ancorato alla perpetrazione di delitti, cui si aggiunge una sfavorevole prognosi in ordine alla possibilità che il soggetto commetta in futuro nuovi reati (Sez. 5, 32039/2018).

La dichiarazione di abitualità nel delitto, come tutte le altre dichiarazioni di pericolosità qualificata, non può essere scissa dall’applicazione della conseguente misura di sicurezza (art. 216). Per l’effetto, viene senz’altro in applicazione l’art. 31 L. 663/1986, che, oltre ad abrogare l’art. 204 (che prevedeva una pericolosità sociale presunta dalla legge), ha altresì stabilito, al comma 2, che "tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa".

Pertanto, come è stato affermato per l’abitualità presunta dalla legge, anche la declaratoria di abitualità di cui all’art. 103 non è consentita ove difetti il requisito dell’attuale pericolosità sociale del reo. Occorre poi evidenziare che l’abitualità nel reato costituisce una forma qualificata di pericolosità sociale; essa indica un particolare status del reo, individuato  a determinate condizioni, stabilite dal legislatore  come soggetto che presenta propensione al crimine. Il giudizio di abitualità nel reato, pur muovendo dal presupposto che determinati fatti illeciti siano stati commessi, è, in definitiva, un giudizio di valore che non riguarda i fatti in quanto tali, ma il soggetto agente, identificato come persona incline a violare la legge penale, siccome abitualmente coinvolto nella commissione di reati ("dedito al delitto", recita l’art. 103).

A differenza che nell’abitualità presunta, di cui all’art. 102 (anch’esso, comunque, decisamente ridimensionato dalla L. 663/1986, di cui sopra), l’abitualità ritenuta dal giudice esige l’accertamento in concreto della effettiva probabilità di reiterazione criminosa, desunta da tutti gli elementi che hanno significato criminologico (enunciati nell’art. 133) e non, quindi, sulla base dei soli reati commessi. Ciò perché ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato, occorre che il giudice fornisca specifica motivazione in ordine agli elementi indicativi dell’attuale e concreta pericolosità sociale del soggetto, tali da evidenziare fino a che punto la tendenza criminosa manifestata nello specifico delitto sia radicata nella personalità di quest’ultimo, mostrandone la capacità criminale (Sez. 5, 32039/2018).

L’affermazione, contenuta nel decreto di citazione, che l’imputato si trova "nelle condizioni per essere dichiarato delinquente abituale" unitamente alla menzione della recidiva specifica reiterata nel quinquennio, è sicuramente sufficiente alla contestazione dell’abitualità presunta (art 102), ma concreta anche una valida contestazione dell’abitualità ritenuta dal giudice qualora sia presente il riferimento esplicito all’art, 103 (Sez. 5, 5088/1977, richiamata adesivamente da Sez. 5, 40483/2017).

La Corte di cassazione, nel rappresentare che l’abitualità ritenuta dal giudice, prevista dall’art. 103, a differenza di quella presunta dalla legge, prevista dal precedente art. 102, è rimessa al potere discrezionale del magistrato, cui è demandato di verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge e di accertare la pericolosità sociale del soggetto, ha rimarcato che la pericolosità deve essere desunta dalla valutazione complessiva della condotta tenuta dallo stesso senza che rilevino termini o periodi prefissati entro i quali siano stati commessi i reati, invece indicati nelle disposizioni concernenti l’abitualità presunta, nonché della qualità dei fatti commessi e dei beni giuridici offesi, elementi tutti che, insieme con la reiterazione delle condotte illecite, sono indicativi della pervicacia del reo nel delinquere.

Sotto concorrente profilo si è anche affermato che, qualora le condanne definitive siano già sussistenti nel numero prescritto e per i reati previsti, qualsiasi comportamento o circostanza che si aggiunga alle suddette condanne e riveli una precisa tendenza a delinquere (come, ad esempio, una condanna non definitiva per altri gravi reati, tanto più se di indole omogenea), è sintomo ulteriore della qualificata pericolosità sociale del soggetto, tale da giustificare la dichiarazione di abitualità nel delitto (Sez. 1, 19224/2016).

L’abitualità a delinquere ritenuta dal giudice, ai sensi dell’art. 103, è rimessa al potere discrezionale del magistrato, il quale, dovendo prima verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge ed accertare, poi, la pericolosità sociale del soggetto, è tenuto a darne giustificazione con un’adeguata motivazione. La dichiarazione di abitualità esige la valutazione complessiva della condotta tenuta dal soggetto sia in precedenza che nel periodo ultimo di libertà, nonché della natura e qualità dei reati commessi e dei beni giuridici offesi, elementi tutti che, insieme con la reiterazione delle condotte illecite, sono indicativi della pervicacia del reo nel delinquere. Inoltre, l’art. 103, a differenza delle disposizioni concernenti l’abitualità presunta dalla legge ex art. 102, non fa alcun riferimento a termini o periodi prefissati entro i quali i reati siano stati posti in essere.

L’attualità della pericolosità sociale può essere desunta da qualsiasi elemento utile, oltre alla natura e alla gravità dei reati commessi, e anche da semplici indizi, sempre che questi siano costituiti da elementi di fatto certi dai quali sia possibile far discendere, sul piano congetturale, la formulazione del giudizio probabilistico in ordine alla futura commissione dei reati (Sez. 1, 9965/2015).

Ai fini della preclusione di cui all’art. 444, comma 1-bis, CPP, occorre distinguere, la condizione dei delinquenti abituali, professionali e per tendenza da quella dei recidivi soltanto per i primi è prevista la sussistenza della relativa dichiarazione al momento della richiesta di applicazione della pena, non anche per i recidivi, cosicché, per il sorgere della detta preclusione, non è necessario che il sospetto sia stato dichiarato recidivo, ma è sufficiente che si trovi nelle condizioni per esserlo, anche con la sentenza nel procedimento in cui è proposto il patteggiamento.

Del resto, come emerge, dalla lettura degli art. 102, 103, 104, 105 e 108, in tema di abitualità, professionalità e tendenza a delinquere, e 99 c.p., in tema di recidiva, solo nelle prime ipotesi è prevista la "dichiarazione" del giudice, mentre in caso di recidiva si fa luogo direttamente all’aumento di pena per chi si trovi nelle condizioni richieste dalla norma. Né, in senso contrario, potrebbe rilevare la circostanza che, per effetto del bilanciamento delle circostanze, la recidiva, pur ritualmente contestata, ceda di fronte a un’attenuante, perché, nel caso di specie, la recidiva non è circostanza aggravante ad applicazione facoltativa che la volontà delle parti possa liberamente escludere, bensì condizione ostativa, posta dalla legge, all’ammissibilità del rito speciale (Sez. 2, 44604/2006).

Ai fini dell’ammissibilità dell’oblazione speciale di cui all’art. 162-bis non è richiesto che la recidiva reiterata, l’abitualità e la professionalità nelle contravvenzioni siano state giudizialmente dichiarate dal giudice, essendo sufficiente la mera cognizione del magistrato della sussistenza di detti "status", dal momento che l’art. 162-bis subordina la non ammissibilità dell’oblazione al fatto che "ricorrano" i casi previsti dal terzo capoverso dell’art. 99, dall’art. 104 o dall’art. 105 stesso codice, ovvero che permangano le conseguenze dannose o pericolose del reato, eliminabili da parte del contravventore, come si desume dal tenore letterale e logico della disposizione (Sez. 1, 17316/2006).