x

x

Art. 393-bis - Causa di non punibilità (1)

1. Non si applicano le disposizioni degli articoli 336, 337, 338, 339, 341-bis, 342 e 343 quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.

(1) Articolo aggiunto dal comma 9 dell’art. 1, L. 94/2009.

Rassegna di giurisprudenza

L'esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale di cui all’art. 393-bis è integrata ogni qual volta la condotta di questi, per lo sviamento dell'esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell'illiceità della propria condotta a commettere un arbitrio in danno del privato. (In motivazione, la Suprema Corte ha osservato come tale impostazione, nell'ambito di una lettura oggettivistica e costituzionalmente orientata della norma - che trova il proprio fondamento nei principi affermati con chiarezza dalla Corte costituzionale - si distanzi dallo schema e dalla interpretazione tradizionali: la reazione può dirsi giustificata a fronte di un atto oggettivamente illegittimo, in quanto compiuto, anche solo per modalità di attuazione, in maniera sfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, cioè con sviamento dell'esercizio dell'autorità rispetto allo scopo perseguito) (Sez. 6, 7255/2022).

L'esimente della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale è integrata ogni qual volta la condotta del pubblico ufficiale, per lo sviamento dell'esercizio di autorità rispetto allo scopo per cui la stessa è conferita o per le modalità di attuazione, risulta oggettivamente illegittima, non essendo di contro necessario che il soggetto abbia consapevolezza dell'illiceità della propria condotta diretta a commettere un arbitrio in danno del privato. La reazione, pertanto, può dirsi giustificata a fronte di un atto oggettivamente illegittimo, in quanto compiuto, anche solo per modalità di attuazione, in maniera disfunzionale rispetto al fine per cui il potere è conferito, cioè con sviamento dell'esercizio dell'autorità rispetto allo scopo perseguito (Sez. 6, 42611/2021).

Sulla natura dell'istituto oggi disciplinato dall'art. 393-bis si sono prospettate da tempo variegate soluzioni esegetiche, che al di là del corretto inquadramento sistematico dell'istituto, hanno assunto particolare rilevanza con riferimento alla possibilità dell'applicazione dell'ultimo comma dell'art. 59, riservato, secondo un orientamento largamente dominante, alle sole cause di giustificazione o scriminanti del reato. La giurisprudenza di legittimità, pur utilizzando definizioni non sempre coerenti, ha qualificato la fattispecie in esame come esimente collocandola pacificamente tra le "cause di giustificazione" che escludono il carattere antigiuridico della condotta, pervenendo, se del caso, costantemente all'applicazione della conseguente formula assolutoria "perché il fatto non costituisce reato". A fronte di questo pacifico orientamento, la giurisprudenza con divergenti motivazioni ha invece affrontato la questione della rilevanza della fattispecie in esame in forma putativa. Coerentemente alla qualificazione della figura come scriminante, si è osservato che l'arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale offeso non può essere putativa, ma deve essere oggettivamente esistente, in quanto l'art. 59 richiede che l'errore ricada sugli "elementi di fatto" che costituiscono il reato, tra i quali non rientra la materialità costitutiva della circostanza prevista dall'art. 4 del DLGS 288/1944. Si è in particolare, osservato che, anche ricorrendo alla fattispecie dell'errore sul fatto che, ex art. 47, esime dalla punibilità, quest'ultimo deve comunque riguardare un elemento materiale del reato, consistendo in una "difettosa percezione" o in una "difettosa ricognizione della percezione" che valga ad alterare il presupposto stesso del processo volitivo dall'agente, così indirizzandolo verso una condotta viziata alla base. Se, però, la realtà è stata esattamente percepita nel suo concreto essere, non può affatto farsi richiamo all'errore di fatto, trattandosi invece di errore sulla interpretazione tecnica della realtà come percepita e sulle norme che la disciplinano, il che è ininfluente ai fini dell'applicazione della disposizione in esame. In altri termini, secondo questo orientamento, l'errore non deve riferirsi alla arbitrarietà o meno dell'atto del pubblico ufficiale, ma alla sussistenza di eventuali circostanze di fatto che, se fossero state esistenti, avrebbero reso arbitraria la condotta del pubblico ufficiale. Questa esegesi ha inteso quindi ribadire, in applicazione dei principi pacifici in tema di "scriminante putativa" di cui all'art. 59, che l'errore del privato rilevante non può che essere quello nella forma dell'errore "sul fatto", cioè deve cadere sulla sussistenza di eventuali circostanze di fatto che abbiano prodotto un erroneo apprezzamento dei fatti, non potendo essere invece invocata quando l'errore dell'agente si traduca in un mero errore di diritto (quale deve ritenersi l'errore sulla legittimità dell'operato del pubblico ufficiale, dovuto ad una inesatta conoscenza dei precetti imposti dall'ordinamento). Secondo un principio più volte affermato, non ha invero efficacia scriminante l'erronea e inescusabile convinzione che la situazione nella quale l'agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l'ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante, giacché diversamente si finirebbe con il considerare inoperante, sul terreno delle cause di giustificazione, il principio generale, posto dall'art. 5, secondo cui l'ignoranza (inescusabile) della legge non scusa. Accanto a questo filone interpretativo, si è andato sviluppando un più consistente e attualmente dominante orientamento che ha escluso in radice la possibilità dell'applicazione dell'art. 59, ultimo comma. La ratio di tale esegesi si rinviene in risalenti arresti di legittimità, che hanno fatto leva essenzialmente sulla funzione assegnata all'istituto, di non consentire la applicabilità delle disposizioni normative concernenti le incriminazioni afferenti la tutela del prestigio del pubblico ufficiale quando sussista "obiettivamente" l'arbitrarietà del comportamento del pubblico ufficiale. Su queste premesse, si è consolidato l'orientamento secondo cui l'art. 393-bis non prevede una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59, ma dispone l'esclusione di tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno, trovando applicazione solo in rapporto ad atti che obiettivamente e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria. Soltanto in qualche isolato arresto, a dir il vero, la Corte di legittimità si è premurata, al di là della riaffermazione del suddetto principio, di specificare quale sia in definitiva la natura della fattispecie, qualificandola ora come una "causa obiettiva di punibilità" o come causa di esclusione della pena "in senso stretto". Su posizioni distanti da quest'ultimo orientamento si è invece attestata la dottrina maggioritaria, che ha da tempo qualificato la "reazione legittima" come una scriminante in senso tecnico, inquadrandola come un vero e proprio diritto soggettivo del privato costituzionalmente tutelato alla resistenza individuale al sopruso subito, che rende pertanto ad ogni effetto il fatto penalmente lecito: una sorta quindi di diritto alla resistenza o alla reazione riconosciuta dall'ordinamento, originato dalla necessità di ricostruire, a seguito dell'atto arbitrario del pubblico agente, il corretto rapporto Stato-individuo, al quale devono essere riconosciuti tutti i requisiti e gli effetti propri delle scriminanti. Tra questi ultimi, in particolare la rilevanza dell'erronea supposizione circa l'esistenza della scriminante, ex art. 59, quarto comma. Fatte queste premesse, si ritiene di aderire all'orientamento che, qualificata la figura in esame come causa di giustificazione, configura la stessa anche in forma putativa. Un contributo importante nella ricostruzione dell'istituto della "reazione legittima ad atti arbitrari" si rinviene nella sentenza 140/1988 della Corte costituzionale, la quale, pronunciandosi su una questione di costituzionalità dell'art. 4 del DLGS LGT 288/1944, ha tracciato alcuni importanti direttive esegetiche. In primo luogo, la Corte costituzionale, dovendo verificare la tenuta costituzionale della nozione di "atto arbitrario", alla stregua della interpretazione ristrettiva maggioritaria, ha avuto modo di rilevare che molte delle soluzioni esegetiche allora ricorrenti della norma erano in realtà il frutto di una risalente interpretazione che trovava la sua origine nel particolare assetto dei rapporti tra cittadino e autorità dell'epoca in cui la causa di giustificazione era stata introdotta e che, tuttavia, non poteva non adeguarsi ai mutamenti dell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione. In particolare, il giudice delle leggi ha evidenziato che la causa di giustificazione degli "atti arbitrari", già presente nel codice penale Zanardelli del 1889, era stata abolita dal codice penale del 1930, per essere poi reintrodotta, ancor prima della fine della guerra di liberazione, dal citato decreto luogotenenziale, unitamente ad altre significative modifiche dell'ordinamento penale, ritenute coessenziali al passaggio dal regime autoritario al nuovo ordinamento democratico e alla nuova impostazione dei rapporti tra autorità e cittadino. La scelta del Codice Rocco di non disciplinare la fattispecie era stata in realtà motivata dalla convinzione che essa potesse trovare applicazione nell'ambito della scriminante della legittima difesa, pur celando, come sembra avallare la Corte costituzionale, l'intenzione di voler piuttosto affermare "una malintesa tutela del prestigio e della "infallibilità" degli agenti della pubblica autorità". Con la sua reintroduzione, come è dato leggere nella relazione ministeriale al decreto del 1944, il legislatore aveva inteso ripristinare, in attesa della pubblicazione dei nuovi codici, "la regola già accolta negli artt. 192 e 199 del codice penale del 1989, secondo la quale il fatto non è punibile quando il pubblico ufficiale ha dato causa al fatto stesso, eccedendo con atti arbitrari e limiti delle sue attribuzioni" e ciò al fine di riaffermare "le nostre tradizioni giuridiche le quali intesero sempre di garantire la pubblica autorità nell'esercizio dei suoi poteri, ma solo quando essa agisce nei limiti stabiliti dalla legge, in cui trovano la loro misura i diritti e doveri d'ogni cittadino". Secondo la Corte costituzionale, le vicende storiche della causa di giustificazione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale erano sintomatiche della diversa disciplina dei rapporti tra cittadino e autorità rispettivamente negli ordinamenti liberal-democratici e nei regimi totalitari: in particolare, esse venivano a riflettere le garanzie e le forme di tutela che i primi riconoscono ai privati in caso di comportamenti abusivi dei pubblici ufficiali. Pertanto, la stessa Corte ha efficacemente rilevato come rientrasse nei poteri-doveri dell'interprete tenere conto dello sviluppo storico dell'istituto che egli è chiamato ad applicare, attribuendogli il significato più consono alla struttura complessiva dell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione. Seguendo questa linea interpretativa, la Corte costituzionale ha avvalorato una interpretazione "più lata" della fattispecie in parola, contestualizzandola alla normativa positiva, volta ad impostare in un contesto di lealtà e di reciproca fiducia e collaborazione i rapporti tra cittadino e pubblica amministrazione. La stessa nozione di "atto arbitrario", secondo la Corte costituzionale, doveva essere adeguata, rispetto alle più restrittive esegesi all'epoca maggioritarie, per ricomprendervi anche l'atto del pubblico ufficiale che, pur essendo sostanzialmente legittimo, ma connotato da difetto di congruenza tra le modalità impiegate e le finalità per le quali è attribuita la funzione stessa, a causa della violazione degli elementari doveri di correttezza e civiltà che debbono caratterizzare l'agire dei pubblici ufficiali. Quanto alla natura della fattispecie, la Corte costituzionale, nel qualificarla come causa di giustificazione o esimente, ebbe ad osservare che essa veniva a ricalcare in definitiva la struttura delle altre cause di giustificazione previste dal codice, come ad esempio  nella specifica ipotesi della reazione oltraggiosa del privato  di quella della provocazione, differenziandosene solo per gli elementi specializzanti della qualità di pubblico ufficiale della persona offesa e della conseguente specificità del fatto ingiusto su cui si innesta la reazione, individuato in relazione alle funzioni del soggetto passivo e ai doveri di correttezza, di convenienza e di urbanità che debbono connotare i rapporti tra i pubblici ufficiali ed i privati. Un ulteriore spunto esegetico a favore della qualificazione della fattispecie in esame come causa di giustificazione sembra potersi trarre dalla collocazione, alquanto originale, della norma nel corpo del codice penale. Il legislatore, allorquando nel 2009 ha introdotto la nuova fattispecie nel codice penale, non l'ha infatti inserita, come prevedibile, del titolo II dei delitti contro la pubblica amministrazione, bensì in quello dei delitti contro l'amministrazione della giustizia e segnatamente nel capo dedicato alla "tutela arbitraria delle private ragioni". In tal modo  pur venendo così ad accumunare indubbiamente situazioni assai diverse  il codice pare aver voluto valorizzare le similitudini che consentono di inquadrare la reazione legittima del privato in una forma di esercizio arbitrario di un diritto, se pur al fine di escluderne la punibilità. Tirando le fila del discorso possono rassegnarsi le seguenti conclusioni. La lettera della norma in esame non consente di escludere di inquadrare la fattispecie in una vera e propria scriminante. Le diverse affermazioni giurisprudenziali, che valorizzavano la funzione dell'istituto, appaiono in verità alquanto datate e tramandate negli anni solo tralaticiamente, e non rispondenti ad una esegesi volta, come ha raccomandato la Corte costituzionale, a cogliere i mutamenti nell'ordinamento vigente, alla luce dei principi e dei valori espressi dalla Costituzione, della concezione dei rapporti tra cittadini ed autorità. Rapporti che devono rendere pertanto lecita e quindi priva di antigiuridicità la reazione del privato di fronte ad atti arbitrari della pubblica autorità, non soltanto perché il soggetto passivo non è meritevole di tutela, ma in quanto deve essere garantito al cittadino in una concezione dello Stato di tipo democratico la facoltà di "resistere" a tutela del diritto o l'interesse privato arbitrariamente leso o posto in pericolo (come nei reati di cui agli artt. 336, 337, 338 e 339) o quantomeno di essere giustificato quando abbia reagito verbalmente quale sfogo del turbamento psichico causato dall'atto arbitrario (come nei reati di oltraggio di cui agli gli artt. 341, 342 e 343). Ne consegue che non si rinvengono ostacoli all'applicazione anche alla scriminante in parola dell'ultimo comma dell'art. 59. Piuttosto, come già esattamente la giurisprudenza sopra richiamata aveva evidenziato, quel che va ribadito è che non può venire in considerazione l'errore del privato se non nella forma di errore sul fatto, non potendo essere invocata la scriminante putativa quando l'errore dell'agente si traduca in definitiva in un errore di diritto. Non potrà pertanto rilevare l'errore del privato nel qualificare come arbitrario un atto in realtà legittimo, posto che l'errore in tal caso, come si è già detto in precedenza, verrebbe a rendere scusabile l'errore di diritto, sfociante nell'erronea e inescusabile convinzione che la situazione nella quale l'agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l'ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante (tipico è il caso di chi viene fermato per un controllo autostradale e richiesto di fornire i dati identificativi del conducente e dell'automezzo: non potrà giustificare la sua condotta di resistenza, costituente reato, allegando la erronea convinzione dell'arbitrarietà del comportamento del pubblico agente, quanto alla legittimità richiesta rivoltagli, trattandosi di ignoranza di una norma extra penale, come tale irrilevante). Diverso è invece il caso in cui l'errore sia caduto invece sul fatto, determinando nell'agente la giustificata e ragionevole persuasione di trovarsi di fronte ad un atto arbitrario: il privato, a causa dell'errore, deve invero ritenere di versare concretamente in una situazione di fatto, che se effettiva, renderebbe applicabile la causa di giustificazione (nell'esempio sopra riportato, il privato, che si opponga al pubblico agente, avendo creduto erroneamente di avergli consegnato tutta la documentazione richiesta e ritenendo pertanto meramente persecutoria l'attività con cui questi abbia insistito nel fargli richiesta dei documenti). Naturalmente, come per tutte le cause di giustificazione, si richiede all'imputato, che ne invochi l'applicazione in forma putativa, un onere di allegazione, non potendosi la stessa basarsi su un mero criterio soggettivo, bensì su dati di fatto concreti, tali da giustificare l'erroneo convincimento. Sotto altro verso, va ribadito che l'accertamento relativo alla scriminante in forma putativa deve essere effettuato con un giudizio "ex ante" calato all'interno delle specifiche e peculiari circostanze concrete che connotano la fattispecie da esaminare, secondo una valutazione di carattere relativo e non assoluto ed astratto, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, cui spetta esaminare, oltre che le modalità del singolo episodio in sè considerato, anche tutti gli elementi fattuali antecedenti all'azione che possano aver avuto concreta incidenza sull'insorgenza dell'erroneo convincimento di dover reagire ad un atto arbitrario (Sez. 6, 4457/2019).

Presupposto necessario per l'applicazione della causa di giustificazione prevista dall'art. 393-bis è un'attività ingiustamente persecutoria del pubblico ufficiale, il cui comportamento fuoriesca del tutto dalle ordinarie modalità di esplicazione dell'azione di controllo e prevenzione demandatagli nei confronti del privato destinatario (Sez. 6, 16101/2016).

Solo quando il pubblico ufficiale pone in essere una condotta oggettivamente illegittima e sulla base di una decisione da lui assunta autonomamente o comunque al di fuori dell'obbligo di eseguire altrui decisioni, non è punibile, a norma dell'art. 393-bis, una reazione strettamente proporzionata all'esigenza di esercitare un proprio diritto di rango primario indebitamente represso, e negli stretti limiti in cui ciò sia necessario a tal fine (Sez. 6, 43894/2016).

La verifica dell'arbitrarietà dell'atto del pubblico ufficiale, necessaria ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità prevista dall'art. 393-bis è legata al rapporto di proporzione ed adeguatezza intercorrente tra l'iniziativa assunta e la situazione che la legittima, nel senso che quanto maggiore è la sproporzione dell'atto rispetto alla finalità legittimante, tanto maggiore è il sopruso utile a scriminare la reazione violenta (Sez. 6, 18957/2014).

La macroscopica sproporzione della reazione agli atti arbitrari del pubblico ufficiale esclude la sussistenza della causa di non punibilità per la cui integrazione è necessario che le azioni, che potrebbero integrare i reati in essa indicati, dipendano, in termini di causalità e di proporzionalità, dagli atti arbitrari posti in essere dal pubblico ufficiale (Sez. 6, 5222/2013).

L'art. 393-bis non prevede una circostanza di esclusione della pena ricadente sotto la disciplina dell'art. 59, ma dispone l'esclusione della tutela nei confronti del pubblico ufficiale che se ne dimostri indegno: essa pertanto trova applicazione solo in rapporto ad atti che obbiettivamente e non soltanto nell'opinione dell'agente, concretino una condotta arbitraria (Sez. 6, 46743/2013).

I riferimenti normativi all' "eccesso" e agli "atti arbitrari" esprimono un concetto unitario e hanno una connotazione solo oggettiva, attenendo l'arbitrarietà dell'atto alle modalità di esecuzione di esso e riferendosi l'eccesso dalle attribuzioni alla mera illegittimità dell'atto, sicché possono dar luogo alla applicabilità della esimente o l'illegittimità dell'atto ovvero il semplice comportamento scorretto, villano o incivile del pubblico ufficiale, senza che fossero rilevanti i riferimenti all'elemento soggettivo del pubblico ufficiale (Sez. 6, 7928/2012).

Arbitrarietà ed eccesso dalle attribuzioni esprimono il medesimo fenomeno, sotto il profilo, rispettivamente, delle modalità con cui il pubblico ufficiale ha dato esecuzione all'atto illegittimo e della illegittimità dell'atto in sé considerato (Corte costituzionale, sentenza 140/1998).

Va esclusa la riconoscibilità della causa di non punibilità della reazione ad atti arbitrari in assenza della consapevolezza in capo all'agente di realizzare un comportamento esorbitante dalla sfera delle proprie attribuzioni (Sez. 6, 27703/2008).

L'allegazione da parte dell'imputato dell'erronea supposizione della sussistenza della causa di giustificazione prevista dall'art. 393-bis deve basarsi non già su un mero criterio soggettivo, riferito al solo stato d'animo dell'agente, bensì su dati di fatto concreti, tali da giustificare l'erroneo convincimento in capo all'imputato (Sez. 6, 4114/2017).