x

x

Art. 1 - Reati e pene: disposizione espressa di legge

1. Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite.

Rassegna di giurisprudenza

La conformità a legge della pena deve essere costantemente garantita dalla sua irrogazione alla sua esecuzione (SU, 18821/2014).

L’illegalità della pena, non rilevabile di ufficio in sede di legittimità in presenza di ricorso inammissibile perché presentato fuori termine, è deducibile davanti al GE. Tale soluzione, per altro, oltre a garantire il rispetto del principio di legalità ex art. 1 e della funzione della pena delineata dall’art. 27 Cost., appare in linea con le coordinate fondamentali del nostro sistema processuale, rispettando la formazione del giudicato e l’intangibilità dell’accertamento processuale allorché sia trascorso il termine per proporre ricorso per cassazione (SU, 47766/2015).

L’illegalità della pena, in quanto fondata su una norma dichiarata incostituzionale, intacca di per sé il giudicato, recessivo pertanto rispetto ai preminenti diritti di libertà della persona, siccome investe aspetti che attengono all’an ed al quantum della sanzione. La materia fuoriesce, per ciò stesso, dall’orbita di cui all’articolo 2, comma 4 (Sez. 3, 55015/2018).

Sono differenti i concetti di pena illegale e pena illegittima. La pena illegale deve intendersi come pena diversa per specie da quella stabilita dalla legge, ovvero quantificata in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali. La pena illegittima è tale se determinata in contrasto con i principi di legge per la sua quantificazione, ma senza trasformarsi in una sanzione abnorme. Solo contro la prima è possibile adire il GE ai sensi dell’art. 666 CPP mentre l’unica reazione possibile contro una pena illegittima è l’impugnazione ordinaria (SU, 47766/2015, richiamata da Sez. 1, 54876/2018).

La pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73 DPR 309/1990, relativi alle droghe c. d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza 32/2014 della Corte costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale. La rideterminazione avviene ad iniziativa della parte, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 ATT. CPP, sottoponendo al GE una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo. In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il GE provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 (SU, 37107/2015).

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del secondo comma dell’art. 73 (che prevede che quando concorrono più delitti per ciascuno dei quali deve infliggersi la pena della reclusione non inferiore a ventiquattro anni, si applica l’ergastolo) sollevata sul rilievo che tale norma contrasterebbe con i principi di legalità della pena e del fine rieducativo cui la stessa deve tendere, rispettivamente garantiti, il primo, dal combinato disposto degli artt. 25, comma secondo, Cost. e 1 CP e, il secondo, dall’art. 27, comma terzo, Cost. Non vi è infatti contrasto con il principio di legalità in quanto la pena legale non è soltanto quella prevista per le singole fattispecie penali, bensì quella risultante dalla applicazione delle varie disposizioni di legge che attraverso meccanismi diversi – quale, tra gli altri, il cumulo giuridico di pene – incidono sul trattamento sanzionatorio.

Egualmente insussistente è la violazione del disposto dell’art. 27 Cost., che si assume deriverebbe dal fatto che la comminazione della pena perpetua renderebbe impossibile la rieducazione del condannato, giacché nel nostro ordinamento non vige il principio della inderogabilità dell’integrale attuazione della pena, sicché anche i condannati all’ergastolo, trascorso un periodo di non molto superiore a quelli previsti per coloro che siano in espiazione delle pene temporanee di più lunga durata, hanno diritto a che, verificandosi le condizioni poste dalle norme sull’ordinamento penitenziario, si valuti se la quantità di pena già espiata abbia positivamente assolto al suo fine rieducativo, con la rinuncia, condizionata o definitiva, da parte dello Stato alla sua ulteriore pretesa punitiva..

Da tali considerazioni, che il Collegio condivide e fa proprie, deriva inoltre che l’applicazione dell’art. 73 comma 2 è da ritenersi meccanismo legale di determinazione della pena (espianda) che, in quanto tale, determina la inflizione dell’ergastolo – ove ne ricorrano i presupposti – già in sede di cognizione, posto che trattasi di effetto legale della pre-quantificazione della pena della reclusione, per ogni singola violazione di legge, nella misura indicata dalla norma (non inferiore a 24 anni), come del resto appare chiaro dai contenuti dello stesso articolo 533 comma 2 CPP. Tale norma, in caso di condanna riguardante più reati, impone già nel momento della decisione di merito l’attivazione di un duplice passaggio espressivo rappresentato, in sequenza: a) dalla quantificazione della pena per ciascuno di essi; b) dalla determinazione della pena che deve essere applicata in osservanza delle norme sostanziali sul concorso di reati (articoli da 71 a 79) e di pene o sulla continuazione (art. 81).

Dunque il tema, lì dove si tratti di più reati oggetto di cognizione unitaria, deve essere affrontato e deciso già in sede cognitiva di merito mentre lì dove si tratti di decisioni emesse in procedimenti separati è lo stesso Legislatore a prevedere (all’art. 80) l’applicazione delle medesime regole prescrittive  e quindi anche dell’art. 73 comma 2 in via alternativa, nel procedimento di merito posteriormente definito (ove possibile) o in sede esecutiva (con attribuzione del relativo potere al PM ai sensi degli artt. 656 e 663 CPP).

Nessun rilievo, pertanto, al fine di ritenere applicabile la previsione di legge di cui all’art. 73 comma 2. può essere attribuito al fatto che le statuizioni «intermedie» di condanna per ciascun singolo delitto (alla pena di anni ventiquattro o superiore) siano state emesse nel medesimo o in separati procedimenti, stante la ricordata previsione di legge di cui all’art. 80 (norma che rende unitario il sistema sanzionatorio ed evita disparità di trattamento derivanti dai tempi e modalità di svolgimento delle singole vicende processuali).

Da ciò, inoltre, deriva che lì dove l’applicazione  di certo obbligatoria e non soggetta ad alcun margine di discrezionalità, trattandosi di criterio legale di quantificazione della pena  dell’art. 73 comma 2 non sia avvenuta in sede di cognizione, pur sussistendone i presupposti in fatto e in diritto, è del tutto evidente che l’obbligo per il PM – in sede di emissione o di aggiornamento del decreto di cumulo ex art. 663 CPP – di indicare come eseguibile la pena dell’ergastolo è frutto della diretta applicazione della norma e precede – logicamente – ogni altra operazione su quant’altro abbia rilievo su altri istituti dell’ordinamento penitenziario.

Va quindi fissato il seguente principio di diritto: «nell’ipotesi di cumulo di più condanne alla pena di anni trenta di reclusione, così risultanti – per effetto delle vicende di diritto intertemporale oggetto della decisione emessa dalla CEDU nel caso Scoppola contro Italia – dalla commutazione di precedenti condanne alla pena dell’ergastolo inflitte all’esito di giudizi abbreviati, non trova applicazione il limite massimo di anni trenta di reclusione, previsto dall’art. 78  per il caso di concorso di reati che importano pene detentive temporanee, bensì il generale criterio regolatore di cui all’art. 73, comma secondo, con conseguente rideterminazione della pena finale da eseguire in quella dell’ergastolo» (Sez. 1, 50890/2018).

Il concorso tra fatto punito con ergastolo e altro reato trova disciplina specifica (anche se retto da continuazione) nel cumulo giuridico. Se esso concorso afferisce a delitti che involgono pene temporanee superiori a cinque anni si agisce attraverso il semplice intervento sulla sanzione ulteriore dell’isolamento che viene inasprito; se concerne più delitti puniti con ergastolo non si opera attraverso la trasformazione dello stesso ergastolo in pena temporanea, passaggio non contemplato dal sistema, ma secondo il disposto dell’art. 72 comma 1. ancora una volta incidendo sul solo isolamento.

Ciò anche se sia riconosciuto il regime della continuazione. Né avrebbe senso controdedurre richiamando il principio di favor del reato continuato che, nella specie, sarebbe vanificato. Ciò perché, in ragione della gravità dei fatti restando ferma la sanzione base dell’ergastolo, anche in regime di continuazione, non avrebbe significato logico pensare ad un aumento di pena temporanea (che surrogherebbe l’ergastolo inizialmente inflitto per il reato concorrente) che si dovrebbe “affiancare” alla pena perpetua base, che resterebbe, comunque, ferma.

Così ragionando si fisserebbe una pena “virtuale” detentiva temporanea, priva di base normativa, non contemplata dal sistema e non suscettibile di esecuzione. Contrariamente il sistema prevede che si incida sull’isolamento, come avvenuto nella specie, e che il trattamento sanzionatorio di favor  che caratterizza il reato continuato  si attui attraverso la quantificazione dell’inasprimento del medesimo isolamento, che sarà inferiore nelle ipotesi di delitti avvinti da medesimo disegno criminoso e maggior e nei casi di delitti sorretti da spinte psicologiche indipendenti (Sez. 7, 35398/2018).

L’art. 442, comma 2, CPP, come novellato dalla L. 103/2017, prevede che nel caso in cui si proceda per una contravvenzione, la pena che il giudice determina, in caso di condanna, tenendo conto di tutte le circostanze deve essere diminuita della metà, anziché di un terzo, come invece avviene per i delitti. Sebbene l’art. 442 CPP si configuri, pacificamente, come norma processuale, nondimeno il più favorevole trattamento sanzionatorio che essa contempla si connota, pacificamente, come un aspetto sostanziale (così CEDU, sent. 17/9/2009, caso Scoppola c. Italia), che ricade, dunque, nell’ambito applicativo dell’art. 25, comma secondo, Cost.

Dunque, il trattamento sanzionatorio, anche ove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali ed è, dunque, soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2, fermo restando che la natura sostanziale della diminuente premiale per il rito abbreviato non implica la trasformazione della natura processuale di tutta la restante normativa concernente i presupposti, i termini e le modalità di accesso al rito, aspetti rimessi alla scelta del legislatore nazionale e non immutati dalla giurisprudenza comunitaria.

Lungo tale direttrice ermeneutica, le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che l’art. 442, comma 2, CPP, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, “disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato”, per cui “deve soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, §1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell’art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa (Sez. 1, 1006/2019).

La pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73 DPR 309/1990, relativi alle droghe c. d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale; - “La rideterminazione avviene ad iniziativa delle parti, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 ATT. CPP, sottoponendo al GE una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo”; - “In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il GE provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 (SU, 37107/2015).

Non può ritenersi che vadano espunti dal concetto di legalità della pena i profili che attengono alle concrete modalità di esplicazione del regime punitivo. La nozione di pena non va, infatti, circoscritta all’irrogazione di una o più delle sanzioni previste dall’art. 17 ma va identificata in un più ampio plesso concettuale che comprende anche gli istituti che incidono sulla concreta ed effettiva applicazione delle predette sanzioni. Il che è del tutto conforme all’orientamento espresso dalla Corte costituzionale secondo cui “pena legale” è non soltanto quella prevista dalla singola norma incriminatrice ma anche quella risultante dall’applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio (Corte costituzionale, 312/1988; in senso conforme anche SU, 26 maggio 1984).

Ne deriva che la questione inerente alla concedibilità o meno del beneficio della sospensione condizionale della pena o alla necessità giuridica di subordinare o meno il predetto beneficio ad uno degli obblighi previsti dall’art. 165 non si colloca al di fuori del concetto di legalità della pena, attenendo, in radice, rispettivamente alla possibilità stessa di assoggettare o meno il condannato alla pena irrogatagli e alle condizioni alle quali tale assoggettamento può avvenire. Ne consegue che la doglianza con la quale si deduca l’omessa subordinazione ex art. 165 non esula dall’ambito delle censure deducibili nel giudizio di legittimità ex art. 448, comma 2-bis, CPP, rientrando nel concetto di illegalità della pena. Il che dà anche ragione della legittimazione del PG a ricorrere per cassazione.

In tema di patteggiamento, infatti, qualora il pubblico ministero abbia prestato il proprio consenso all’applicazione di un determinato trattamento sanzionatorio, l’impugnazione della sentenza che tale accordo abbia recepito è consentita solo qualora esso si ponga in- contrasto con specifiche disposizioni normative e si configuri pertanto come illegale (Sez. 4, 33299/2002; Sez. 4, 3946/1998). Ne deriva che, una volta concluso l’accordo tra PM e imputato, il PG, pur non essendo partecipe dell’accordo stesso, non può far valere, per la pubblica accusa, una sorta di ripensamento che non è consentito per l’imputato e non può formare oggetto di discriminazione tra le parti (Sez. 4, 10692/2010), tranne che la pena non sia illegale (Sez. 4, 5064/2019).

L’art. 165 si ispira ai principi di legalità e tassatività e, pertanto, la subordinazione può essere disposta solo con riferimento a prestazioni certe e determinate in modo da assicurare l’esatta corrispondenza tra obbligo imposto e suo corretto adempimento, di talché non si può ancorare la sospensione condizionale della pena ad una condanna generica al risarcimento del danno, che sarebbe di impossibile adempimento senza una ulteriore pronuncia (Sez. 6, 29163/2016).

Infatti, il legislatore con la disposizione censurata ha delineato un sistema “chiuso”, che prevede la possibilità di subordinazione del beneficio della sospensione esclusivamente con riferimento ad adempimenti prestabiliti quali le restituzioni; il pagamento della somma liquidata dallo stesso giudice penale a titolo di risarcimento del danno; il pagamento della provvisionale assegnata sull’ammontare dello stesso; la pubblicazione della sentenza a titolo di riparazione del danno; l’eliminazione della conseguenze dannose o pericolose del reato, secondo le modalità indicate dal giudice nella sentenza di condanna; la prestazione di attività non retribuita a favore della collettività.

È, dunque, del tutto evidente l’impossibilità di subordinare l’accesso alla sospensione condizionale della pena ad una condizione inesigibile quale la condanna generica al risarcimento del danno che necessita di un’ulteriore pronuncia in sede civile ai fini della determinazione del ristoro in favore della parte civile (Sez. 5, 1148/2019).