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Art. 2 - Successione di leggi penali

1. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato.

2. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali.

3. Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 (1).

4. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

5. Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

6. Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti (2).

(1) Comma aggiunto dall’art. 14, L. 85/2006.

(2) La Corte costituzionale, con sentenza 19-22 febbraio 1985, n. 51, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, quinto comma c.p. (ora sesto comma), nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel secondo e terzo comma (ora quarto comma) dello stesso art. 2 c.p.

Rassegna di giurisprudenza

Effetti delle decisioni della Corte costituzionale

In tema di eventuali effetti in malam partem sui singoli imputati di una pronuncia della Corte costituzionale, è compito del giudice comune, quale interprete delle leggi, impedire che la dichiarazione di illegittimità costituzionale vada a detrimento della loro posizione giuridica, tenendo conto dei principi in materia di successione di leggi penali nel tempo ex art. 2, che implica l’applicazione della norma penale più favorevole al reo (Corte costituzionale, sentenza 32/2014).

La pena applicata con la sentenza di patteggiamento avente ad oggetto uno o più delitti previsti dall’art. 73 DPR 309/1990, relativi alle droghe c. d. leggere, divenuta irrevocabile prima della sentenza 32/2014 della Corte costituzionale, può essere rideterminata in sede di esecuzione in quanto pena illegale. La rideterminazione avviene ad iniziativa della parte, con le modalità di cui al procedimento previsto dall’art. 188 ATT. CPP., sottoponendo al GE una nuova pena su cui è stato raggiunto l’accordo. In caso di mancato accordo o di pena concordata ritenuta non congrua il GE provvede autonomamente alla rideterminazione della pena ai sensi degli artt. 132 e 133 (SU, 37107/2015).

Nei confronti di coloro i quali abbiano commesso il reato di cui all’art. 73, comma 1, DPR 309/1990 (cessione, detenzione a fini di cessione di sostanze stupefacenti qualificabili come "droghe pesanti") nel periodo successivo all’entrata in vigore della L. 49/2006 e fino alla declaratoria di incostituzionalità della stessa con la sentenza. 32/2014 della Corte costituzionale, continuano a trovare applicazione le sanzioni più favorevoli previste dalla norma dichiarata incostituzionale (Sez. 4, 44889/2018).

A seguito della dichiarazione d’incostituzionalità degli artt. 4-bis e 4-vicies-ter DL 272/2005 come modificato dalla L. 49/2006, pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 32/2014, deve escludersi la rilevanza penale delle condotte che, poste in essere a partire dall’entrata in vigore di detta legge e fino all’entrata in vigore del DL 36/2014, abbiano avuto ad oggetto sostanze stupefacenti incluse nelle tabelle solo successivamente all’entrata in vigore del DPR 309/1990 nel testo novellato dalla richiamata Legge 49 (SU, 29316/2015).

Il fenomeno della successione delle leggi nel tempo, regolato dall’art. 2, non può essere richiamato in riferimento a una disposizione di legge dichiarata incostituzionale, poiché detto vizio affetta la norma fin dalla sua origine rendendo necessario eliminarne ogni effetto a ritroso fin dove è possibile, cioè fino al limite dei rapporti effettivamente esauriti. Invece la regolazione del diverso fenomeno della successione delle leggi nel tempo deve coordinare l’operatività di disposizioni che sono rimaste efficaci (perché non attinte da vizi originari) fino al momento in cui è intervenuta una diversa disciplina legislativa. È stato infatti osservato (SU Gatto) che sia il succedersi di leggi, che in tutto o in parte disciplinano materie già regolate da leggi precedenti, sia l’abrogazione di una norma per effetto di norma successiva sono fenomeni fisiologici dell’ordinamento giuridico, mentre la dichiarazione di illegittimità costituzionale palesa un evento di patologia normativa (Sez. 1, 52658/2018).

La pena dell’ergastolo inflitta all’esito del giudizio abbreviato, richiesto dall’interessato in base all’art. 30, comma 1, lett. b), L. 479/1999, ma conclusosi nel vigore della successiva e più rigorosa disciplina dettata dall’art. 7, comma 1, DL 341/2000 e in concreto applicata, non può essere ulteriormente eseguita, essendo stata quest’ultima norma ritenuta, successivamente al giudicato, non conforme al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, § 1, CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, e dichiarata incostituzionale per contrasto con l’art. 117, comma primo, Cost. Il GE, investito del relativo incidente ad istanza di parte e avvalendosi dei suoi poteri di controllo sulla permanente legittimità della pena in esecuzione, è legittimato a sostituirla, incidendo sul giudicato, con quella di anni trenta di reclusione, prevista dalla più favorevole norma vigente al momento della richiesta del rito semplificato (SU, 18821/2014).

Se in epoca successiva alla pronuncia di una sentenza irrevocabile di condanna interviene la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma penale che, pur diversa da quella incriminatrice, è comunque incidente sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, e quest’ultimo non è stato interamente eseguito, il GE è tenuto a rideterminare la pena in favore del condannato anche se il provvedimento "correttivo" da adottare non è a contenuto predeterminato (SU, 42858/2014).

In tema di esecuzione, il giudice, adito con istanza di revoca della sentenza definitiva di condanna a seguito della sopravvenuta dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 181, comma 1-bis, DLGS 42/2004, deve dichiarare l’estinzione per prescrizione del reato oggetto della predetta sentenza, riqualificato come contravvenzione, ai sensi del comma primo della norma citata, qualora la prescrizione sia maturata in pendenza del procedimento di cognizione e fatti salvi i rapporti ormai esauriti (Sez. 3, 52438/2017).

 

Abolitio criminis

La Corte di cassazione deve rilevare la "abolitio criminis", sopravvenuta alla sentenza impugnata, anche nel caso di ricorso inammissibile ed indipendentemente dall’oggetto dell’impugnazione, atteso il principio della ragionevole durata del processo, che impone di evitare una pronunzia di inammissibilità che avrebbe quale unico effetto un rinvio della soluzione alla fase esecutiva. Ciò in quanto le ipotesi di successione di leggi penali nel tempo, riconducibili all’art. 2, resistono al principio di preclusione del rilievo di cause di non punibilità, pur in presenza di ricorso inammissibile (Sez. 5, 57041/2018).

L’abolitio è destinata a prevalere anche sulla causa di inammissibilità del ricorso, in quanto all’impossibilità di rilevare cause di non punibilità in costanza di ricorso inammissibile resistono le ipotesi di successione di leggi, riconducibili all’art. 2. Ciò in quanto la nozione di condanna, ricavabile da tale norma, in combinato disposto con l’art. 673 CPP, corrisponde al concetto di giudicato formale, fino al formarsi del quale spetta al giudice prendere atto dell’intervenuta abolitio criminis, con conseguente annullamento della condanna per mancanza di rilievo penale del fatto (Sez. 5, 48005/2016, richiamata adesivamente da Sez. 5, 48871/2018).

L’inammissibilità del ricorso per cassazione, per qualunque causa verificatasi, salvo che essa non consegua ad un ricorso tardivamente proposto, non impedisce la possibilità di dichiarare la depenalizzazione del reato nel frattempo intervenuta, né di revocare le statuizioni civili e di annullare le sanzioni civili illegittimamente irrogate (Sez. 5, 8735/2018).

Il mutamento della soglia di punibilità dei reati di omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis DLGS 74/2000) e di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto (art. 10-ter, medesimo decreto), al di sotto della quale operano soltanto misure sanzionatorie di natura amministrativa, determina una abrogazione parziale dei due reati, nei quali il mutato giudizio di offensività della condotta omissiva si è tradotto nel restringimento dell’area della loro penale rilevanza, con assegnazione a quella amministrativa delle condotte che si collocano al di sotto della nuova soglia.

Configurando la soglia di punibilità un elemento costitutivo di entrambe le fattispecie legali astratte contemplate dalle suddette disposizioni, è evidente che la sua modifica rende la nuova fattispecie speciale rispetto alla precedente, poiché ne restringe l’ambito applicativo, rimanendo l’area della punibilità circoscritta alle sole condotte che si collochino al di sopra della nuova soglia, con la conseguente configurabilità di una parziale abolitio criminis (per le condotte che non determinino il superamento delle nuove soglie di punibilità). Trovano, pertanto, applicazione nella specie gli art. 2, comma 2 e 673, comma 1, CPP (Sez. 3, 55017/2018).

In caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del DLGS  7/2016, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili (SU, 46688/2016).

Pur dopo le modifiche apportate dalla L. 69/2015, (anche) in tema di false comunicazioni sociali, il falso valutativo mantiene il suo rilievo penale. Precisamente deve essere enunciato il seguente principio di diritto: "Sussiste il delitto di false comunicazioni sociali, con riguardo alla esposizione o alla omissione di fatti oggetto di valutazione, se, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati o di criteri tecnici generalmente accettati, l’agente da tali criteri si discosti consapevolmente e senza darne adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni" (SU, 22474/2016).

Il GE può revocare, ai sensi dell’art. 673 CPP, una sentenza di condanna pronunciata dopo l’entrata in vigore della legge che ha abrogato la norma incriminatrice, allorché l’evenienza di abolitio criminis non sia stata rilevata dal giudice della cognizione (SU, 26259/2016).

 

Principio di retroattività della norma più favorevole (casi ai quali si applica)

Il diritto dell’imputato, desumibile dall’art. 2 comma quarto c.p., di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, comporta per il giudice della cognizione il dovere di applicare la “lex mitior” anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice sopravvenuta, in quanto la finalità rieducativa della pena ed il rispetto dei principi di uguaglianza e di proporzionalità impongono di rivalutare la misura della sanzione, precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità. La sanzione rideterminata in misura “identica” è illegittima anche se la nuova pena risulta compresa nella forbice sopravvenuta: quando la modifica dell’editto sanzionatorio è favorevole al reo la rideterminazione della sanzione non deve tenere conto solo dei parametri sopravvenuti, ma anche del precedente trattamento sanzionatorio che costituisce un concreto parametro per la valutazione della proporzionalità ed adeguatezza della nuova sanzione (Sez. 2, 22502/2020).

In tema di successione di leggi nel tempo, la Cassazione può, anche d’ufficio, ritenere applicabile il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio per l’imputato, anche in presenza di un ricorso inammissibile, disponendo, ai sensi dell’art. 609 CPP, l’annullamento sul punto della sentenza impugnata pronunciata prima delle modifiche normative "in melius" (SU, 46653/2015).

La Corte di cassazione, nel caso di ricorso inammissibile per qualunque ragione e con il quale non vengano proposti motivi riguardanti il trattamento sanzionatorio, può rilevare d’ufficio, con conseguente annullamento sul punto, che la sentenza impugnata era stata pronunziata prima dei mutamenti normativi che hanno modificato il trattamento sanzionatorio in senso favorevole all’imputato; ciò anche nel caso in cui la pena inflitta rientri nella cornice edittale sopravvenuta alla cui luce il giudice di rinvio dovrà riesaminare tale questione (SU, 46653/2015).

La norma dell’art. 422 CPP, nella parte in cui prevede la riduzione della pena per effetto della scelta del rito, riveste carattere di norma di diritto penale sostanziale, poiché regola il meccanismo di determinazione della pena da irrogare all’imputato condannato, prevedendo la riduzione in misura predeterminata della sanzione.

Tale qualificazione della norma rende evidentemente applicabili, in ipotesi di modifiche legislative, le disposizioni che disciplinano la successione delle leggi penali nel tempo (art. 2, comma 4), al fine di individuare la norma più favorevole per l’imputato condannato. In coerenza a tale principio, lo ius superveniens rappresentato dall’art. 1, comma 448, L. 103/2017, che ha modificato l’art 442 CPP, prevedendo al comma 2 che la pena per le contravvenzioni deve essere ridotta della metà (e non di un terzo, come per le altre ipotesi previste dal primo comma della stessa disposizione), trova applicazione anche nel giudizio di legittimità, pur se il ricorso debba esser dichiarato inammissibile, trattandosi di ipotesi che per giurisprudenza costante non soggiace alle preclusioni indicate dall’art. 609 CPP (Sez. 2, 51905/2018).

L’art. 442, comma 2, CPP, come novellato dalla L. 103/2017, prevede che nel caso in cui si proceda per una contravvenzione, la pena che il giudice determina, in caso di condanna, tenendo conto di tutte le circostanze deve essere diminuita della metà, anziché di un terzo, come invece avviene per i delitti. Sebbene l’art. 442 CPP si configuri, pacificamente, come norma processuale, nondimeno il più favorevole trattamento sanzionatorio che essa contempla si connota, pacificamente, come un aspetto sostanziale (così CEDU, sent. 17/9/2009, caso Scoppola c. Italia), che ricade, dunque, nell’ambito applicativo dell’art. 25, comma secondo, Cost.

Dunque, il trattamento sanzionatorio, anche ove collegato alla scelta del rito, finisce sempre con avere ricadute sostanziali ed è, dunque, soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2, fermo restando che la natura sostanziale della diminuente premiale per il rito abbreviato non implica la trasformazione della natura processuale di tutta la restante normativa concernente i presupposti, i termini e le modalità di accesso al rito, aspetti rimessi alla scelta del legislatore nazionale e non immutati dalla giurisprudenza comunitaria.

Lungo tale direttrice ermeneutica, le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che l’art. 442, comma 2, CPP, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, "disciplinando la severità della pena da infliggere in caso di condanna secondo il rito abbreviato", per cui "deve soggiacere al principio di legalità convenzionale di cui all’art. 7, §1, CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo, vale a dire irretroattività della previsione più severa (principio già contenuto nell’art. 25, comma secondo, Cost.), ma anche, e implicitamente, retroattività o ultrattività della previsione meno severa (Sez. 1, 1006/2019).

Ai fini dell’art. 2, comma 4, deve essere attribuito rilievo anche all’introduzione di un regime di procedibilità a querela rispetto alla previgente procedibilità di ufficio. Ciò comporta che in forza del medesimo articolo, il giudice accerti l’esistenza della condizione di procedibilità anche per i reati commessi anteriormente alla intervenuta modifica (Sez.  6, 2506/2014).

L’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131-bis, avendo natura sostanziale, è applicabile, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 28/2015, anche ai procedimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione (SU, 13681/2016).

L’inammissibilità del ricorso per cassazione non preclude la possibilità sia di far valere, sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 CPP, l’estinzione del reato per prescrizione, maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello, nel caso in cui la causa estintiva del reato non avrebbe potuto essere dedotta o rilevata nel giudizio di merito, in quanto effetto dello "jus superveniens", che, modificando il regime sanzionatorio in senso più favorevole all’imputato, abbia ridotto i limiti edittali della pena e conseguentemente il termine prescrizionale del reato (Sez. 3, 52031/2014).

Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi hanno natura di vere e proprie pene e non di semplici modalità esecutive della pena sostituita, per cui ad esse si applica, in caso di successione di leggi nel tempo, l’art. 2, comma terzo, che impone l’applicazione della norma più favorevole. Conseguentemente, il criterio di ragguaglio introdotto dall’art. 3, comma 62, L. 94/2009 che, modificando l’art. 135, ha elevato da euro 38 ad euro 250 la pena pecuniaria per ogni giorno di pena detentiva, non può essere applicato ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge sopra indicata (Sez. 4, 29504/2018, richiamata adesivamente da Sez. 1, 497/2019).

Le modifiche apportate all’art. 36 dall’art. 37, comma 18, DL 98/2011, convertito nella L. 111/2011 (ed in forza delle quali "la sentenza di condanna è inoltre pubblicata nel sito internet del Ministero della giustizia. La durata della pubblicazione nel sito è stabilita dal giudice in misura non superiore a trenta giorni. In mancanza, la durata è di quindici giorni"), non hanno introdotto nel sistema penale una nuova sanzione accessoria, ma hanno diversamente modulato il contenuto di pena accessoria già prevista, sostituendo alla tradizionale forma di pubblicazione sulla stampa quella via internet, e così determinando un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo regolato dall’art. 2, comma 4; con la conseguenza che la nuova disciplina non è applicabile ai fatti pregressi, in quanto maggiormente afflittiva (Sez. 3, 54383/2018).

La norma codicistica (art. 235) che prevede l’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dallo Stato dello straniero condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni non opera in riferimento a fatti criminosi commessi prima della novella del codice, rispetto ai quali trova invece applicazione la pregressa norma che prescriveva l’indicata misura di sicurezza per gli stranieri condannati alla reclusione per un tempo non inferiore ai dieci anni. Le misure amministrative di sicurezza hanno infatti natura sostanziale e sono soggette alla disciplina di cui all’art. 2 comma 4 (Sez. 2, 24342/2010, richiamata adesivamente da Sez. 2, 36912/2018).

L’art. 131-bis ha dato vita a un istituto di diritto penale sostanziale che configura una causa di esclusione della punibilità, giustificata alla stregua dei principi di proporzione e di extrema ratio del ricorso alla sanzione penale, finalizzata a escludere dal circuito penale fatti che, proprio in quanto bagatellari, si palesano, in concreto, non meritevoli del ricorso alla pena. E dalla natura di istituto di diritto penale sostanziale deriva pacificamente che esso è applicabile retroattivamente, ai sensi dell’art. 2, comma 4, ai fatti che siano stati commessi anteriormente all’entrata in vigore della nuova disciplina di favore (SU, 13681/2016). Ora, il legislatore individua tre categorie di indicatori della "particolare tenuità del fatto": le modalità della condotta, l’esiguità del danno o del pericolo, il grado della colpevolezza, da apprezzare alla stregua di una valutazione complessiva ai sensi dell’art. 133, comma 1, la quale, considerando tutte le peculiarità della vicenda concreta, consenta di misurarne, nella sua dimensione storico-fattuale ed al di là della tipizzazione compiuta dal legislatore, l’effettivo (e complessivo) disvalore.

Per quanto concerne, in particolare, le modalità della condotta l’art. 131-bis richiede che il comportamento non sia abituale ovvero che l’autore non "sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza", non "abbia commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità", o ancora che non "si tratti di reati che abbiano ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate". Sul punto, il consolidato indirizzo giurisprudenziale, confortato dal chiaro tenore letterale della disposizione in esame, è nel senso che la norma intenda escludere la particolare tenuità del fatto in caso di comportamenti "seriali", concretizzatisi in «più reati della stessa indole», eventualmente commessi anche successivamente a quello per cui si proceda ed in ipotesi ancora sub iudice (Sez. 5, 26813/2016).

E ad analoga conclusione deve giungersi, ancora una volta in ragione della univoca formulazione dell’enunciato normativo, con riguardo ai reati che siano stati realizzati attraverso una molteplicità di azioni od omissioni (cd. reati a condotta plurisussistente), atteso che pur avendo la norma incriminatrice ricondotto la pluralità delle relative manifestazioni illecite nell’ambito di una sola violazione della legge penale, la molteplicità delle condotte non consente di addivenire, secondo l’apprezzamento compiuto dal legislatore, ad un giudizio di minore offensività e di più attenuata riprovevolezza soggettiva, con conseguente esclusione della causa di non punibilità in esame (Sez. 1, 1008(2019).

 

Principio di retroattività della norma più favorevole (casi ai quali non si applica)

Il principio di retroattività della norma favorevole, affermato dall’art. 2, comma quarto, non si applica in caso di successione nel tempo di norme extrapenali integratrici del precetto penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato e quindi sulla fattispecie tipica, ma comportino esclusivamente una variazione del contenuto del precetto, delineando la portata del comando e del conseguente fatto illecito (SU, 2451/2008, Sez. 5, 11905/2016, Sez. 3, 45272/2018).

È pacificamente riconosciuta la natura processuale e non sostanziale delle norme concernenti l’esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione (SU, 24561/2006). Le norme succedutesi nel tempo in tale materia vanno dunque ricondotte non alle regole dettate dall’art. 2, ma al criterio generale del tempus regit actum (Sez. 5, 54539/2018).

In caso di successione di norme processuali, il principio a cui fare riferimento è quello del "tempus regit actum", che, in assenza di una norma espressa di diritto transitorio, opera alla stregua di criterio generale. Due le direttrici fondanti: da un lato, la non retroattività della nuova legge procedurale, sicchè gli atti compiuti mantengono la propria efficacia anche sotto l’impero della diversa legge processuale sopravvenuta; dall’altro, l’efficacia immediata della novella, di talché tutti gli atti successivi rispetto all’entrata in vigore della nuova norma devono essere compiuti secondo i presupposti richiesti dalla modifica normativa.

La difficoltà è storicamente correlata alla esatta individuazione dell’actus e del tempus. Il principio tempus regit actum rappresenta in ambito processuale la trasposizione della regola generale dell’efficacia immediata dell’atto, il che postula: a) che intervenuta una nuova legge processuale penale, questa regola lo svolgimento del processo dal momento in cui entra in vigore; b) che gli atti di un procedimento, iniziato con la legge processuale abrogata, mantengono il loro vigore. I casi più complessi di diritto intertemporale sono costituiti dalle ipotesi in cui il ricambio normativo intervenga su atti in corso di compimento o su effetti non ancora esauriti (Sez. 6, 49831/2018).

 

Criteri di scelta del regime normativo più favorevole

In tema di successione di leggi penali, a fronte di una condotta interamente posta in essere sotto il vigore di una legge penale più favorevole e di un evento intervenuto nella vigenza di una legge penale più sfavorevole, deve trovare applicazione la legge vigente al momento della condotta (SU, 40986/2018).

In ipotesi di successione nel tempo di plurime leggi penali, tutte posteriori al "tempus commissi delicti", l’individuazione del regime complessivamente di maggior favore per il reo, ai sensi dell’art. 2, comma quarto, deve essere operata in concreto fra tutte le leggi succedutesi, senza che la verifica possa essere limitata a quella vigente al momento del fatto e a quella vigente alla data della decisione (Sez. 3, 3385/2017).

In tema di prescrizione, non è consentita l’applicazione simultanea di disposizioni introdotte dalla L. 251/2005 e di quelle precedenti, secondo il criterio della maggior convenienza per l’imputato, occorrendo applicare integralmente l’una o l’altra disciplina (Sez. 5, 26801/2014).

In tema di omesso versamento di contributi previdenziali ed assistenziali per fatti antecedenti alla modifica introdotta dall’art. 3, comma sesto, D. Lgs 8/2016  che ha previsto la punibilità solo qualora l’importo non versato superi la soglia di euro 10.000 annui  ed in applicazione del principio secondo il quale in tema di successione di leggi penali, ai fini dell’individuazione della normativa di favore per il reo, non si può procedere a una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favorevoli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa.

È pertanto esente da censure la sentenza che, ritenendo più favorevole la legge previgente, abbia dichiarato la prescrizione per talune mensilità confermando la condanna per il residuo importo omesso nello stesso anno, seppure inferiore alla predetta soglia di punibilità (Sez. 3, 14601/2018).

 

Casistica

L’introduzione, ad opera del DL 158/2012 (convertito, con modificazioni, dalla L. 189/2012) del parametro di valutazione dell’operato del sanitario costituito dalle linee-guida e dalle buone pratiche clinico-assistenziali, con la più incisiva conferma di tale parametro ad opera della L. 24/2017, ha modificato i termini del giudizio penale imponendo al giudice, non solo una compiuta disamina della rilevanza penale della condotta colposa ascrivibile al sanitario alla luce di tali parametri ma, ancor prima, un’indagine che tenga conto dei medesimi parametri allorché  si accerti quello che sarebbe stato il comportamento alternativo corretto che ci si doveva attendere dal professionista, in funzione dell’analisi controfattuale della riferibilità causale alla sua condotta dell’evento lesivo.

Una motivazione che tralasci di indicare se il caso concreto sia regolato da linee-guida o, in mancanza, da buone pratiche clinico-assistenziali, di valutare il nesso di causa tenendo conto del comportamento salvifico indicato dai predetti parametri, o di specificare di quale forma di colpa si tratti, se di colpa generica o specifica, eventualmente alla luce di regole cautelari racchiuse in linee-guida, se di colpa per imperizia, negligenza o imprudenza, ma anche una motivazione in cui non sia appurato se ed in quale misura la condotta del sanitario si sia discostata da linee-guida o da buone pratiche clinico-assistenziali non può, oggi, essere ritenuta satisfattiva né conforme a legge (Sez. 4, 37794/2018).

In tema di criteri per l’individuazione della legge più favorevole, ai sensi dell’art. 2 comma 4, tra l’art. 590-sexies, e l’art. 3 del cosiddetto Decreto Balduzzi, si osserva quanto segue. Tale ultimo precetto risulta più favorevole in relazione alle contestazioni per comportamenti del sanitario  commessi prima della entrata in vigore della legge Gelli-Bianco  connotati da negligenza o imprudenza, con configurazione di colpa lieve, che solo per il decreto Balduzzi erano esenti da responsabilità quando risultava provato il rispetto delle linee-guida o delle buone pratiche accreditate. In secondo luogo, nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve, che sia caduto sul momento selettivo delle linee-guida e cioè su quello della valutazione della appropriatezza della linea-guida era coperto dalla esenzione di responsabilità del decreto Balduzzi, mentre non lo è più in base alla novella che risulta anche per tale aspetto meno favorevole.

In terzo luogo, sempre nell’ambito della colpa da imperizia, l’errore determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa andava esente per il decreto Balduzzi ed è oggetto di causa di non punibilità in base all’art. 590-sexies, essendo, in tale prospettiva, ininfluente, in relazione alla attività del giudice penale che si trovi a decidere nella vigenza della nuova legge su fatti verificatisi antecedentemente alla sua entrata in vigore, la qualificazione giuridica dello strumento tecnico attraverso il quale giungere al verdetto liberatorio. Analogamente, agli effetti civili, l’applicazione dell’art. 3, comma 1, del decreto Balduzzi prevedeva un coordinamento con l’accertamento del giudice penale, nella cornice dell’art. 2043 CC, ribadito dall’art. 7, comma 3, della legge Gelli-Bianco (SU, 8770/2018).

In materia di stupefacenti, in relazione alla fattispecie di lieve entità di cui all’art. 73, comma quinto, DPR 309/1990, trasformata da circostanza attenuante a reato autonomo dall’art. 2 DL 146/2013, convertito con modificazioni dalla L. 10/2014, novellato con riguardo al trattamento sanzionatorio dal DL. 36/2014, convertito con modificazioni dalla L. 79/2014, per le droghe pesanti risulta di maggior favore l’originaria previsione della circostanza attenuante ad effetto speciale, laddove questa sia giudicata prevalente rispetto alla recidiva reiterata aggravata di cui all’art. 99, comma quarto, secondo periodo (Sez. 4, 44119/2014).

L’istituto della successione delle leggi penali riguarda la successione nel tempo delle norme incriminatrici, cioè di quelle norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziale del reato, comprese le norme extrapenali che integrano la fattispecie incriminatrice. Ma, in tema di infortuni sul lavoro, le norme che disciplinano gli obblighi dei soggetti ai quali è affidato il compito di tutelare la salute dei lavoratori non hanno una funzione integratrice del precetto penale, svolgendo piuttosto quella di individuare le persone sulle quali incombe il dovere di osservare e far osservare le regole di cautela, per cui la loro modificazione nel senso di rimodulazione degli obblighi di tutela non ricade sotto la disciplina della successione delle leggi penali nel tempo e non può, quindi, avere come effetto quello di rendere legittima una condotta precedentemente vietata in vista della valutazione della responsabilità penale dell’imputato (Sez. 4, 2604/2007, richiamata da Sez. 4, 25133/2018).