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Art. 185 - Restituzioni e risarcimento del danno

1. Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili.

2. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.

Rassegna di giurisprudenza

È ammissibile, sia agli effetti penali che agli effetti civili, la revisione, richiesta ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. c), CPP, della sentenza del giudice dell’appello che, decidendo anche sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi concernenti gli interessi civili, in applicazione della disciplina dettata dall’art. 578 CPP, abbia prosciolto l’imputato per l’intervenuta prescrizione del reato, e contestualmente confermato la sua condanna al risarcimento del danno nei confronti della parte civile (SU, 6141/2019).

In caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e qualificato come illecito civile, sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del DLGS 7/2016, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Il giudice della esecuzione, viceversa, revoca, con la stessa formula, la sentenza di condanna o il decreto irrevocabili, lasciando ferme le disposizioni e i capi che concernono gli interessi civili (SU, 46688/2016).

Il nostro sistema processual-penalistico è informato al criterio della separazione dei giudizi: l’azione civile nel processo penale ha perciò natura accessoria e subordinata all’accertamento del reato ed al giudizio di colpevolezza dell’imputato, al quale è rivolta la pretesa risarcitoria.

La decisione del giudice penale sulle questioni civili è dunque indissolubilmente legata alla pronuncia di condanna, come si desume dall’art.185 ("Ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere del fatto di lui"), dall’art. 74 CPP ("L’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno di cui all’art. 185 può essere esercitata nel processo penale dal soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile"), ed ancora dall’art. 538 CPP ("Quando pronuncia sentenza di condanna, il giudice decide sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno, proposta a norma degli artt.74 e seguenti.....").

Ai sensi dell’art. 576 CPP quindi, il danneggiato, avendo optato per la proposizione della domanda risarcitoria (o di restituzioni) nel processo penale, con la costituzione di parte civile e non azionando la propria pretesa davanti al giudice civile, "può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio".

Si tratta, a ben vedere, di un sistema omogeneo e bel delineato dal legislatore secondo una precisa scelta: il danneggiato da reato può agire in sede civile, con tutto quello che ne consegue in termini di onere della prova, di accettazione del principio di causalità del "più probabile che non" e di anticipazione delle spese di giudizio, oppure inserirsi nel processo penale, accettando di rivestire una posizione accessoria, di avvalersi della istruzione preliminare ad opera della pubblica accusa, di esercitare i propri diritti difensivi secondo le regole del processo penale, di subordinare il riconoscimento della propria pretesa all’affermazione della penale responsabilità dell’imputato, da accertarsi "al di là di ogni ragionevole dubbio".

Il giudice dell’impugnazione, anche nel caso di appello o ricorso per cassazione della sola parte civile, deve perciò compiere la sua valutazione tenendo ben presente che il diritto azionato dalla parte civile è strettamente connesso al reato oggetto di giudizio e conseguentemente verificare  sia pure ai soli effetti civili in mancanza di impugnazione da parte dell’organo del pubblico ministero  la responsabilità dell’imputato quale logico presupposto per la condanna al risarcimento del danno ed alle restituzioni richiesti dalla parte civile impugnante.

Tale compito, nel sistema procedurale qui delineato, non può che spettare al giudice penale. Ne è riprova che anche in caso di accoglimento del ricorso per cassazione della parte civile avverso una sentenza di assoluzione, nel conseguente giudizio di rinvio, ai fini dell’accertamento della causalità, il giudice civile è tenuto ad applicare le regole di giudizio del diritto penale e non quelle del diritto civile  le quali configurano anche ipotesi di inversione dell’onere della prova ovvero di responsabilità oggettiva  essendo sempre in questione, ai sensi dell’art. 185, il danno da reato e non mutando la natura risarcitoria della domanda proposta, ai sensi dell’art. 74 CPP, dinanzi al giudice penale (Sez. 4, 27045/2016).

Il danno cui si riferisce l’art. 185 deve essere eziologicamente riferito all’azione od omissione del soggetto attivo del reato e tale rapporto di causalità può sussistere anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia determinato uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (Sez. 2, 1674/2019).

La condanna generica al risarcimento dei danni, sia essa oggetto di autonomo giudizio, ovvero di quello che prosegue per la determinazione del quantum, presuppone soltanto l’accertamento di un fatto potenzialmente dannoso, in base ad un accertamento anche di probabilità o di verosimiglianza, mentre la prova dell’esistenza in concreto del danno, della sua reale entità e del rapporto di causalità è riservata alla fase successiva di determinazione e di liquidazione, sicché la pronuncia sulla responsabilità si configura come una mera declaratoria juris, da cui esula qualunque accertamento in ordine alla misura ed alla concreta sussistenza del danno, con la conseguenza che il giudicato formatosi sulla responsabilità non incide sul giudizio di liquidazione (Sez. 3 civile, 6257/2003, richiamata da Sez. 2, 56622/2018).

La liquidazione del danno morale è affidata ad apprezzamenti discrezionali ed equitativi del giudice di merito il quale ha, tuttavia, il dovere di dare conto delle circostanze di fatto considerate in sede di valutazione equitativa e del percorso logico posto a base della decisione, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del risarcimento (Sez. 4, 18099/2015).

Costituisce pacifico insegnamento che la valutazione equitativa del danno, in quanto inevitabilmente caratterizzata da un certo grado di approssimatività, è suscettibile di rilievi in sede di legittimità, sotto il profilo del vizio della motivazione, solo se difetti totalmente la giustificazione che quella statuizione sorregge, o macroscopicamente si discosti dai dati di comune esperienza, o sia radicalmente. Il giudice di merito invero deve dare conto delle circostanze di fatto valutate e del percorso logico seguito, senza che sia necessario indicare analiticamente i calcoli in base ai quali ha determinato il quantum del risarcimento (Sez. 6, 40890/2018).

Soggetti legittimati all’ esercizio dell’azione civile nel procedimento penale non sono esclusivamente i soggetti titolari dell’interesse di volta in volta protetto in via diretta dalla norma penale (persona offesa primaria), ma anche soggetti diversi  persone offese (secondarie)  cui il reato abbia cagionato, comunque, un danno, come si desume chiaramente dalla previsione letterale dell’art. 74 CPP nonché dal tenore dell’art. 185. Si è, invero, correttamente affermato che legittimato all’esercizio dell’azione civile nel processo penale non è solo il soggetto passivo del reato ma anche il danneggiato che abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo del reato; tale rapporto di causalità sussiste anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia determinato uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato (Sez. 1, 46084 2014).

Con riferimento alla specifica ipotesi del reato associativo è, poi, stato condivisibilmente affermato che in tema di risarcimento del danno, il soggetto legittimato all’azione civile non è solo il soggetto passivo del reato (cioè il titolare dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice), ma anche il danneggiato, ossia chiunque abbia riportato un danno eziologicamente riferibile all’azione od omissione del soggetto attivo del reato, con la conseguenza che, ove un reato si inquadri nel piano criminoso di una associazione per delinquere, la vittima del reato fine è legittimata a costituirsi parte civile sia per il reato fine che per quello associativo (Sez. 2, 4380/2015).

Vanno, ancora, richiamati i principi fissati da Sez. 2, 23046/2010 la quale ha riconosciuto la possibilità del danneggiato di agire contro tutti gli associati per i danni economici derivati chiarendo come "anche dal fatto associativo scaturisce la responsabilità risarcitoria dell’autore del reato in favore delle costituite parti civili, in quanto... partecipando all’associazione - ha contribuito a porre in essere la necessaria precondizione del successivo verificarsi del danno...". In quest’ultimo caso, la legittimazione passiva di ciascun sodale veniva riconosciuta non già superando la concezione monoffensiva del reato di cui all’articolo 416 ma piuttosto richiamando il principio secondo il quale la responsabilità risarcitoria si estende anche ai danni mediati ed indiretti ricollegabili agli effetti normali dell’illecito, secondo lo schema della c.d. causalità adeguata.

In altre parole la Corte di cassazione non ha riconosciuto in capo alla singola parte privata la possibilità di agire in relazione al pericolo provocato da una associazione criminale per la tutela dell’ ordine pubblico (danni questi ultimi connessi ad interessi di natura pubblicistica e, quindi, azionabili ad opera di enti pubblici) ma ha correttamente attribuito alla parte privata il diritto di costituirsi parte civile sulla base della condivisibile considerazione che del danno provocato dai reati-fine, singolarmente o complessivamente considerati, debbano rispondere anche coloro che hanno posto in essere le precondizioni dell’illecito mediante la partecipazione all’associazione criminale.

È di intuitiva evidenza che l’esistenza di una associazione, finalizzata alla commissione di singoli reati-fine, agevola la riuscita del singolo reato commesso dagli associati i quali possono contare su una ramificata e collaudata organizzazione capace di assicurare loro anche la successiva impunità sicché il singolo soggetto danneggiato da uno specifico reato fine ha certamente subito un danno anche in ragione della circostanza che l’ esistenza dell’ organizzazione ne ha facilitato, in vario modo, la commissione (Sez. 2, 31295/2018).

L’attenuante ex art. 62 n. 6, prima parte, va intesa in funzione dell’art. 185, pertanto è applicabile a qualsiasi reato e, quindi, anche a quello di concussione se ne è derivato un danno (patrimoniale o non patrimoniale) suscettibile di riparazione a norma delle leggi civili nelle forme delle restituzioni o del risarcimento (SU, 1048/1992). Tuttavia, il risarcimento del danno deve essere integrale e la valutazione sulla sua congruità è rimessa al giudice, che può anche disattendere un eventuale accordo transattivo intervenuto tra le parti (Sez. 2, 53023/2016).

La somma di danaro proposta dall’imputato come risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale (art. 185 comma secondo) deve essere offerta alla parte lesa in modo da consentire alla medesima di conseguirne la disponibilità concretamente e senza condizioni di sorta.

Tale risultato può essere ottenuto  salva la valutazione di congruità rimessa al giudice e fuori del caso di versamento diretto del danaro nelle mani di colui cui spetta  solo con l’osservanza della forma prescritta dalle disposizioni della legge civile dettate proprio per creare, nell’ipotesi di rifiuto del creditore, un equipollente alla dazione diretta, vale a dire nelle forme dell’offerta reale, la quale si perfeziona con effetto liberatorio per il debitore al momento del deposito della somma presso la cassa deposito e prestiti o presso un istituto bancario. Il rispetto di tali prescrizioni integra l’estremo della effettività delle riparazioni ed è altresì rivelatore della reale volontà dell’imputato di eliminare, per quanto possibile, le conseguenze dannose del reato commesso (Sez. 1, 2837/1996).