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Art. 71

Norme generali

1. Per l’adozione dei provvedimenti di competenza del tribunale di sorveglianza espressamente indicati nei commi 1 e 2 dell’art. 70, nonché dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza in materia di remissione del debito, di ricoveri di cui all’art. 148 del codice penale, di applicazione, esecuzione, trasformazione o revoca anche anticipata delle misure di sicurezza e di quelli relativi all’accertamento dell’identità personale ai fini delle dette misure, si applica il procedimento di cui ai commi e agli articoli seguenti.

2. Il presidente del tribunale o il magistrato di sorveglianza, a seguito di richiesta o di proposta ovvero di ufficio, invita l’interessato ad esercitare la facoltà di nominare un difensore. Se l’interessato non vi provvede entro cinque giorni dalla comunicazione dell’invito, il difensore è nominato di ufficio dal presidente del tribunale o dal magistrato di sorveglianza. Successivamente il presidente del tribunale o il magistrato di sorveglianza fissa con decreto il giorno della trattazione e ne fa comunicare avviso al pubblico ministero, all’interessato e al difensore almeno cinque giorni prima di quello stabilito.

3. La competenza spetta al tribunale o al magistrato di sorveglianza che hanno giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta o della proposta o all’inizio d’ufficio del procedimento.

4. Se l’interessato non è detenuto o internato, la competenza spetta al tribunale o al magistrato di sorveglianza che hanno giurisdizione nel luogo in cui l’interessato ha la residenza o il domicilio. Nel caso in cui non sia possibile determinare la competenza secondo il criterio sopra indicato, si applica la disposizione del secondo

comma dell’art. 635 del codice di procedura penale.

5. Le disposizioni contenute nel capo I del titolo V del libro IV del codice di procedura penale sono applicabili in quanto non diversamente disposto dalla presente legge. L’art. 641 del codice di procedura penale resta in vigore limitatamente ai casi di cui all’art. 212 dello stesso codice.

Rassegna di giurisprudenza

Abrogazione degli artt. 71 e ss. e istituzione, in conseguenza della riforma dell’art, 678 c.p.p., di una nuova disciplina derivante dagli artt. 666 e 667, comma 4, c.p.p.

L’art. 71-ter prescrive che contro le ordinanze del magistrato di sorveglianza è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge. Questa disposizione non può però essere messa a fondamento dell’affermazione circa la ricorribilità per cassazione del provvedimento de quo, per ragioni che sopravanzano la questione, pur di rilievo, se detta disposizione possa ancora dirsi operante. Sulla persistente vigenza di tale disposizione si è pronunciata la giurisprudenza più recente, ritenendo che debba considerarsi superata la tesi dell’ultrattività della disposizione - già non più applicabile per i provvedimenti del TDS - in riguardo ai provvedimenti del magistrato di sorveglianza, atteso che la novella del 2013 dell’art. 678 c.p.p. ha articolato una compiuta ed uniforme disciplina del procedimento di sorveglianza, con assoggettabilità dei provvedimenti, sia del TDS che del magistrato, al regime ordinario della ricorribilità per cassazione in ordine a tutti i vizi di cui all’art. 606 c.p.p. In tal senso si sono espresse Sez. 1, 30638/2017 e Sez. 1, 31595/2018, secondo cui “il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza è esperibile, oltre che per violazione di legge, anche per vizio di motivazione. Nella specie, la Corte ha, altresì, affermato che l’art. 678 c.p.p., come riformulato dal DL 146/2013, convertito con modificazioni dalla L. 10/2014, nel rinviare agli artt. 666 c.p.p. e, in alcune materie specifiche, 667, comma 4, c.p.p., ha assoggettato l’intero procedimento di sorveglianza ad una nuova disciplina, che non consente di riconoscere forza ultrattiva agli artt. 71 e ss.)”. Occorre preliminarmente considerare che il potere che la legge processuale attribuisce al magistrato di sorveglianza - per l’autorizzazione dei difensori all’esercizio dell’attività investigativa ove debba esplicarsi nell’assunzione di dichiarazioni da soggetto detenuto in espiazione di pena - non è tipico delle funzioni di sorveglianza, che sono quelle a cui la legge fa naturale riferimento nel dettare la disciplina del relativo procedimento. Si è di fronte, invero, ad un compito aggiuntivo, che inerisce allo svolgimento delle indagini difensive e che per essere ordinariamente impugnabile avrebbe dovuto formare oggetto di una espressa previsione in tal senso. La legge processuale, di contro, non lo assoggetta ad alcuna forma di controllo e quindi, in forza della generale regola della tassatività oggettiva delle impugnazioni, deve ritenersi inoppugnabile. Il ricorso in esame, seppur articolando motivi che deducono violazioni di alcune puntuali disposizioni di legge, prospetta però la possibilità di apprezzare nel provvedimento impugnato i tratti propri del provvedimento abnorme, in quanto emesso in difetto di potere e capace di interferire con le prerogative del pubblico ministero quale titolare esclusivo del potere investigativo e, dunque, della potestà di disporre, al di fuori della sede del giudizio, della fonte di prova costituita dal collaboratore di giustizia. Il ricorrente non ha espressamente evocato la categoria dell’abnormità ma ha implicitamente ad essa fatto riferimento nel prospettare i vizi del provvedimento quando ha denunciato che esso si risolve in una “inammissibile estensione dell’autorizzazione a casi non contemplati dalla legge” e ha aggiunto che “il magistrato di sorveglianza non aveva alcuna competenza funzionale in merito”; ed ha poi precisato che, avendo il collaboratore di giustizia già reso dichiarazioni nel procedimento nel quale l’assistito dei difensori richiedenti è imputato, la fonte di prova deve ritenersi nella esclusiva disponibilità dell’autorità inquirente, fatta eccezione per la possibilità che il collaboratore conferisca in ogni caso con il proprio difensore. È appena il caso di evidenziare che la prospettazione dei caratteri dell’abnormità fa sì che anche un provvedimento ordinariamente inoppugnabile possa essere soggetto al sindacato di legittimità, ponendosi la categoria dell’abnormità come deroga al regime di tassatività oggettiva dei rimedi impugnatori. Tanto premesso sulle ragioni di straordinaria sindacabilità del provvedimento impugnato, si osserva che il senso della previsione normativa circa l’autorizzazione per conferire con il detenuto e per ricevere da quest’ultimo dichiarazioni o informazioni non è certo dell’attribuzione al giudice, sia che si tratti del giudice per le indagini preliminari che del magistrato di sorveglianza, del potere di sovrintendere, anche eventualmente in prospettiva censoria, alla gestione delle investigazioni difensive e quindi di farsi arbitro della meritevolezza o meno di una determinata iniziativa difensiva. La finalità è ben diversa e in qualche modo molto più contenuta, essendo in gioco soltanto l’esigenza di rafforzare la tutela dell’esaminando in ragione del suo stato di restrizione carceraria. La persona con cui i difensori intendono conferire ha sempre la facoltà di non rispondere e quindi di sottrarsi all’esame; se però si trova ristretta in carcere, e quindi in una situazione di strutturale debolezza, occorre che un giudice possa vagliare l’astratta fondatezza dell’iniziativa investigativa del difensore che, in ogni caso, costituisce o può costituire una interferenza nella sua libertà di autodeterminazione. L’ovvia conseguenza è che, ove il soggetto da esaminare non sia detenuto, di un intervento autorizzatorio del giudice non v’è alcuna necessità. Nel caso in esame, il soggetto da esaminare è sì in espiazione di pena ma l’esecuzione sta avvenendo con applicazione di una misura non detentiva, quale è la liberazione condizionale con sottoposizione a libertà vigilata. Si tratta pertanto di persona non detenuta, rispetto alla quale un intervento del giudice in funzione di autorizzazione al compimento di atti di investigazione difensiva è eccentrico e del tutto estraneo al sistema. Già questa notazione giova a dar conto della fondatezza della doglianza, che esime dall’approfondimento dell’ulteriore profilo critico costituito dalla interferenza del provvedimento in esame con gli obblighi normativamente assunti con l’inizio della collaborazione con la giustizia, tra i quali rientra quello di “non rilasciare a soggetti diversi dalla autorità giudiziaria, dalle forze di polizia e dal proprio difensore dichiarazioni concernenti fatti comunque di interesse per i procedimenti in relazione ai quali hanno prestato o prestano la loro collaborazione” (Sez. 1, 46437/2019).

Per tutti i procedimenti di sorveglianza, in via generale, è consentito proporre ricorso per cassazione nell’ambito delimitato dall’art. 606 c.p.p., e non solo per violazione di legge come previsto dall’originario art. 71-ter, abrogato dall’art. 236 disp. att. c.p.p. (SU, 27/06/2006, Sez. 1, 28825/2019).

Nell’opinione del PG, l’art. 236 disp. coord. c.p.p. farebbe, invero, salva l’applicabilità delle disposizioni di cui alla L. 354/1075 - diverse da quelle di cui al capo 2-bis del titolo 2 della stessa legge - per le materie di competenza del TDS. La norma non reca alcun riferimento alle materie di competenza del magistrato di sorveglianza. Da ciò deriva che l’art. 71-ter Ord. Pen., contenuto nel capo 2 bis del titolo 2 della stessa legge, non sarebbe derogato per le competenze del magistrato di sorveglianza, di guisa che il ricorso per cassazione risulta in questi casi esperibile solo per violazione di legge. Il trasferimento delle norme sul procedimento di sorveglianza dalla legge penitenziaria al codice di procedura penale ha indiscutibilmente posto problemi di coordinamento tra le due normative. A quei problemi si è tentato di dare soluzione proprio con l’art. 236 disp. coord. c.p.p., la cui ratio evidente era quella di garantire l’ultrattività delle numerose disposizioni processuali presenti nella legge penitenziaria e non transitate nel codice di rito (norme diverse da quelle contenute nel capo II-bis del titolo II della legge stessa). In questa logica ed a prescindere dalla soluzione che le disposizioni di cui agli artt. 71-71 sexies possano ritenersi definitivamente abrogate, perché sostituite dagli artt. 678 e 666 c.p.p., si deve, comunque, annotare che non sarebbe condivisibile un ragionamento volto a validare l’interpretazione secondo cui nel procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza, sia legittimo integrare il quadro normativo di riferimento con le disposizioni di cui agli artt. 71 e ss., ora ricavandone una disciplina combinata a quella dettata dagli artt. 666 e 678 c.p.p., ora una regolamentazione per specificazione - che aggiunge o riduce elementi e presupposti di tutela - incidendo e conformandone l’ambito di operatività. A parte i profili in cui le norme stesse presentano tratti di incompatibilità con il quadro sopravvenuto (basterebbe richiamare i rinvii alle disposizioni del codice del 1930) e quelli che pur farebbero propendere per un fenomeno abrogativo (art. 15 disposizioni preliminari c.c.) va precisato che il legislatore del 2014, proprio intervenendo sulla materia in esame, ha riformulato ex novo l’art. 678, comma 1, c.p.p. La novella, attuata con il DL 146/2013, convertito con modificazioni nella L. 10/2014, ha introdotto lo statuto processuale da seguire per le decisioni del TDS e del magistrato di sorveglianza ed operando rinvio all’art. 666 c.p.p. ed in alcune materie specifiche all’art. 667, comma 4, c.p.p., ha inteso assoggettare l’intera materia ad una nuova disciplina, che non lascia residuare spazi interpretativi da cui inferire una forza ultrattiva degli artt. 71 e ss. Del resto, diversificazioni significative da riservare ai procedimenti di competenza monocratica rischierebbero di legittimare interpretazioni poco ragionevoli, proprio sui temi e sui nuclei centrali dell’effettività della difesa giurisdizionale. Non sarebbe, infatti, immediatamente spiegabile la ragione per la quale i provvedimenti del magistrato di sorveglianza dovrebbero essere ricorribili per cassazione per sola violazione di legge, mentre quelli collegiali del TDS potrebbero essere censurati anche per l’aspetto afferente il vizio di motivazione. Ciò nonostante uno statuto normativo comune in rito, che per entrambi contempla la ricorribilità, attraverso le medesime disposizioni regolatrici (artt. 678 e 666 c.p.p.) ed al cospetto dei tipici vizi di legittimità (art. 606 c.p.p.) (Sez. 1, 30638/2017).

Deve essere affermata la generale sindacabilità, in cassazione, dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza, anche sotto il profilo del vizio di motivazione. L’iniziale orientamento contrario, espresso in sede di legittimità, deve intendersi infatti superato alla stregua dell’art. 678 c.p.p., come riformulato dal DL 146/2013, convertito dalla L. 10/2014, che ha assoggettato l’intero procedimento di sorveglianza ad una nuova disciplina, che non consente più di riconoscere forza ultrattiva agli artt. 71 ss. Tale approdo ermeneutico si impone sul piano letterale e sistematico, nonché in chiave d’interpretazione costituzionalmente orientata, stante il comune statuto normativo in rito dei procedimenti di sorveglianza, sia monocratici che collegiali, che include in tutti casi la possibilità (art. 666, comma 6, c.p.p.., richiamato dal successivo art. 678) di ricorrere per cassazione senza limitazione di motivi proponibili, funzionale a garantire l’uniformità, e tramite di essa, l’effettività della difesa giurisdizionale (Sez. 1, 31595/2018).

Questioni di legittimità costituzionale

1, 13369/2019).

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 666 comma 3, 678 comma 1 e 679 comma 1 c.p.p. nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza si svolga, davanti al magistrato di sorveglianza e al TDS nelle forme dell’udienza pubblica (Corte costituzionale, sentenza 135/2014).

Sono costituzionalmente illegittimi gli artt. 666 comma 3 e 678 comma 1 nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento dinanzi al tribunale di sorveglianza, nelle materie di sua competenza, si svolga nelle forme dell’udienza pubblica (Corte costituzionale, sentenza 97/2015).

Questioni procedurali

La nomina del difensore di fiducia, intervenuta nel procedimento di cognizione, o di esecuzione, non spiega effetti in quelli di sorveglianza (Sez. 1, 26881/2015), ciascuno dei quali è anche autonomo da altri già celebrati, o eventualmente da celebrare, a carico dello stesso condannato, pur quando si tratti delle vicende attinenti ad una medesima misura alternativa (Sez. 1, 21291/2017).

Nel procedimento di sorveglianza, ai fini dell’eventuale rinvio dell’udienza camerale, non può assumere rilievo l’impedimento del difensore per concomitante impegno professionale, attesa l’assenza di espresse disposizioni che lo prevedano e la specificità del procedimento, che comporta la necessità di assicurare la celere applicazione di statuizioni esecutive, dovendosi pertanto sopperire alla mancata presentazione del difensore di fiducia tramite la nomina di uno di ufficio (Sez. 1, 50160/2017).

Al domicilio dichiarato deve indirizzarsi, per il condannato, la notifica ex artt. 666, comma 3, e 678, comma 1, c.p.p e la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tal caso - perché sia integrata l’ipotesi della sua impossibilità, con successiva effettuazione di essa (senza bisogno di attivare le ricerche funzionali alla declaratoria d’irreperibilità, non necessaria) presso il difensore ex art. 161, comma 4, c.p.p. - non è sufficiente l’attestazione dell’agente notificatore di mancata reperibilità del destinatario, se questa non è accompagnata da un accertamento da eseguire in loco, teso a verificare personalmente la presenza ivi dell’interessato o, in alternativa, di persone in grado di ricevere la notifica per suo conto. L’iter di notificazione difforme dal modello legale comporta la nullità della citazione del condannato per l’udienza di sorveglianza davanti al giudice e di tutti gli atti conseguenti (Sez. 1. 37323/2018).

Nel procedimento di sorveglianza, il rinvio a nuovo ruolo dell’udienza camerale, non contenendo l’indicazione della data della nuova udienza, comporta l’obbligo di notificare l’avviso di fissazione di quest’ultima all’interessato ed al suo difensore, a pena di nullità di ordine generale, assoluta ed insanabile, non solo se il differimento sia stato disposto per legittimo impedimento a comparire del condannato ma anche se lo stesso sia stato ordinato per qualunque altra causa, ma non al difensore di fiducia, sia in relazione alla prima udienza che a quella di rinvio (Sez. 1, 36734/2015).

L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi degli artt. 178, comma 1 lett. c) e 179, comma 1, c.p.p., quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97, comma 4, c.p.p. (SU, 24630/2015).

Alla luce del rinvio contenuto nell’art. 678 c.p.p., la regola per la trattazione dei procedimenti dalla legge affidati alla competenza del tribunale di sorveglianza è quella del contraddittorio e della discussione del merito ad udienza camerale che si svolge con la partecipazione necessaria del difensore del ricorrente e del PM, con facoltà per le parti (ricorrente, difensore, PM) di depositare memorie e per il giudice di acquisire d’ufficio documenti ed assumere prove, sempre nel rispetto del contraddittorio fra le parti (art. 666, commi 3, 4 e 5, c.p.p.); solo all’esito dell’udienza camerale il TDS decide sul merito della domanda con ordinanza (art. 666, comma 6); all’osservanza di tale sequenza procedimentale l’art. 666, comma 2, c.p.p., consente, eccezionalmente, di derogare, prevedendo l’emissione immediata di decreto di inammissibilità della domanda le quante volte la stessa sia manifestamente infondata «per difetto delle condizioni di legge»; la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare il principio secondo cui la manifesta infondatezza della domanda, giustificante  l’emissione del decreto di inammissibilità e la deroga alla regola del contraddittorio assicurato dal procedimento camerale sopra richiamato, è possibile solo quando nel ricorso difettino all’evidenza i requisiti minimi indefettibili richiesti dalla legge per l’accoglimento della domanda, non anche quando il relativo esame da parte del giudice comporti accertamenti e valutazioni discrezionali in riferimento al caso concreto sottoposto al suo esame; nessuna norma di legge processuale prevede che la residenza del condannato in Italia costituisca presupposto di ammissibilità (ovviamente, in rito) di domanda di affidamento in prova al servizio sociale ovvero di detenzione domiciliare; che l’art. 677, comma 2-bis, c.p.p., fa solo obbligo al condannato non detenuto, non latitante, non irreperibile  che presenti tali domande «di fare la dichiarazione o l’elezione di domicilio»; dall’odierno ricorrente effettuata nel caso di specie; la richiesta di misura alternativa alla detenzione, ai sensi dell’art. 656, comma 6, deve essere corredata, a pena d’inammissibilità, anche se presentata dal difensore, dalla dichiarazione o dalla elezione di domicilio effettuata dal condannato non detenuto, non trova applicazione per il condannato latitante o irreperibile ed ha, dall’altro, rimarcato che rimane in ogni caso impregiudicata la concreta concedibilità, da valutare caso per caso, di misure alternative in favore di chi si sia sottratto volontariamente a un provvedimento coercitivo ovvero in favore di chi non abbia uno stabile collegamento con il territorio; in tale ordine di concetti, è dunque illegittimo il decreto di inammissibilità emesso de plano sul solo presupposto che il condannato risieda all’estero; è certamente vero che l’esecuzione della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale alla detenzione implica il necessario svolgimento della stessa in Italia, in quanto i centri di servizio sociale per adulti sono deputati a svolgere solo in ambito nazionale la loro attività che, per le sue peculiarità e la sua specifica natura, non è ricompresa tra le funzioni statali esercitabili all’estero da parte di uffici consolari; tale regola vale anche per la detenzione domiciliare, ma è altrettanto vero che le questioni derivanti dalla residenza del condannato all’estero e dell’influenza di tale fatto sulla concreta possibilità di concedere le misure in discorso in Italia, sì da garantire controlli sulla relativa esecuzione, attengono al merito della domanda (possibilità di svolgere in Italia l’opera ovvero esistenza in Italia di luogo di privata dimora ove trascorrere la detenzione), non anche ai presupposti processuali impedienti l’esame del merito medesimo; è solo nel contraddittorio fra le parti che il tribunale di sorveglianza potrà verificare se la residenza del condannato all’estero costituisce in concreto ostacolo allo svolgimento dell’affidamento in prova ovvero della concessione della detenzione domiciliare (Sez. 1, 21961/2018).

Per effetto del rinvio, quanto al procedimento ormai giurisdizionalizzato, operato dall’art. 678 e dall’art. 666, comma 6, c.p.p., alla disciplina generale contenuta nell’art. 568 c.p.p., in quanto compatibile, e della loro natura di mezzi impugnatori volti a contestare la decisione reclamata nell’ambito di specifici motivi di doglianza (Sez. 1, 23934/2013), i reclami previsti dall’ordinamento penitenziario e diretti al tribunale di sorveglianza sono soggetti alle regole generali che disciplinano le impugnazioni. Da tale affermazione di principio discende la conseguenza che la declaratoria di non luogo a procedere sul reclamo compete al “giudice dell’impugnazione” che vi provvede con ordinanza, giudice che va individuato non nel presidente del tribunale di sorveglianza ma nel tribunale stesso (Sez. 7, 47193/2018).

In presenza di un provvedimento di unificazione di pene concorrenti, è legittimo lo scioglimento del cumulo nel corso dell’esecuzione quando occorre procedere al giudizio sull’ammissibilità della domanda di concessione di un beneficio penitenziario (nel caso di specie, l’affidamento in prova al servizio sociale per finalità terapeutiche di cui all’art. 94, comma 1, L. 309/1990), che trovi ostacolo nella presenza nel cumulo di uno o più titoli di reato inclusi nel novero di quelli elencati nell’art. 4-bis Ord. pen., sempre che il condannato abbia espiato la parte di pena relativa ai delitti ostativi (Sez. 1, 2285/2014).

È illegittimo il provvedimento del tribunale di sorveglianza con cui non si consente all’interessato la produzione di copia di un provvedimento giurisdizionale per mancato rispetto del termine di cui all’art. 666, comma 3, c.p.p., dal momento che tale norma si riferisce soltanto alle memorie difensive e non anche ai documenti (Sez. 5, 43382/2013).

In materia di benefici penitenziari l’istante ha onere di lealtà procedimentale e deve collaborare affinché si possano accertare e verificare tutte le condizioni che risultano oggetto di affermazione o di allegazione. Parallelamente, l’AG, a fronte di una richiesta di tal fatta, ha ampia facoltà di procedere al tipo di accertamento che ritiene opportuno e maggiormente idoneo ad offrire la conoscenza più approfondita sulla realtà rappresentata dalla parte per completare la conoscenza su ogni possibile elemento che può incidere sulla determinazione finale. L’organo decidente, in presenza anche di un principio di prova sulla allegata attività lavorativa, ha l’obbligo di procedere ai controlli necessari, al fine di appurarne effettività e concretezza, a prescindere dal volere della parte che intenda evitare accessi e controlli sul posto di lavoro (Sez. 1, 54882/2018).

La partecipazione all’opera di rieducazione è il presupposto che viene richiesto dalla norma di cui all’art. 54 Ord. pen. ed è considerata dal legislatore, di per sé, sintomatica di un percorso che va incoraggiato e premiato, senza che occorra anche la dimostrazione di quel ravvedimento che si richiede invece, probabile o sicuro, per l’accesso alle più incisive misure extra murarie. L’unica condizione negativa prevista è quella istituita dall’art. 4-bis comma 3-bis, che si riferisce alla esistenza di elementi riferiti da fonti qualificate quali la DNA o la DDA, idonei a far ritenere perduranti, in costanza di detenzione, i collegamenti con la criminalità organizzata la quale per il suo tenore letterale, non consente presunzioni, né ipotizza dimostrazioni al negativo di elementi atti ad escludere detta presunzione, ma richiede l’esistenza di dati positivi e concreti (Sez. 1, 54865/2018).

Anche nel procedimento di sorveglianza opera la sospensione dei termini processuali in periodo feriale (Sez. 1, 35486/2014).

Il principio della preclusione processuale trova applicazione anche nel procedimento di sorveglianza, in forza dell’art. 666, comma 2, c.p.p., richiamato dall’art. 678 c.p.p., che sancisce l’inammissibilità della successiva istanza, se fondata sui medesimi presupposti di fatto e sulle stesse ragioni di diritto di quella precedente, già dichiarata inammissibile ovvero rigettata con provvedimento non impugnato e perciò divenuto definitivo. Ne discende che la preclusione derivante dall’applicazione del combinato disposto degli artt. 666, comma 2, e 678 c.p.p. non opera quando vengano dedotti fatti o questioni processuali che non hanno formato oggetto di precedenti decisioni (Sez. 1, 15861/2014). Si aggiunga che gli elementi di novità valutabili dalla magistratura di sorveglianza, ai sensi dell’art. 666, comma 2, c.p.p., rilevanti sia sotto il profilo del petitum sia sotto il profilo della causa petendi, non devono essere circoscritti alle sole questioni prospettate dalle parti processuali, potendo riguardare anche quelle rilevabili d’ufficio (Sez. 1, 36005/2011). Infatti, nel procedimento di sorveglianza, il principio del ne bis in idem mira a evitare la proposizione di richieste processuali non sorrette da elementi di novità, che consentono di ritenere superato l’effetto preclusivo formatosi su un precedente provvedimento e devono essere valutati rebus sic stantibus, imponendo di tenere conto delle situazioni successive e non considerate dal provvedimento coperto da giudicato. In questi termini, la preclusione di cui al combinato disposto degli artt. 666, comma 2, e 678 c.p.p. non opera in senso assoluto e inderogabile - coprendo ogni questione processuale dedotta e deducibile, al contrario di quanto si verifica per il processo di cognizione - ma comporta una valutazione allo stato degli atti. Ne consegue che l’effetto preclusivo non opera laddove, nell’ulteriore procedimento di sorveglianza, vengano esaminate nuove circostanze di fatto successive o non conosciute ovvero nuove questioni di diritto, che impongono di ritenere insussistente o erroneamente valutato un presupposto precedentemente vagliato (Sez. 1, 50482/2019).

Nel procedimento di sorveglianza trova applicazione il principio generale (di cui sono espressione gli istituti della revisione e della revoca delle misure cautelari) della revocabilità dei provvedimenti giurisdizionali, quando risulti, successivamente alla loro adozione, che la situazione fenomenica che li aveva giustificati era in realtà diversa; cosicché, anche in mancanza di una espressa previsione normativa, è consentito rivalutare i presupposti per la concessione di un beneficio già negato o per la revoca di altro già concesso quando si alleghi la sussistenza di una situazione di fatto diversa rispetto a quella presa in esame dai primi giudici, la cui decisione, qualora l’assunto risulti dimostrato, non può comportare alcuna preclusione (Sez. 1, 13369/2019).