x

x

Art. 71-ter

Ricorso per cassazione

1. Avverso le ordinanze del tribunale di sorveglianza e del magistrato di sorveglianza, il pubblico ministero, l’interessato e, nei casi di cui agli articoli 14-ter e 69, comma 6, l’amministrazione penitenziaria, possono proporre ricorso per cassazione per violazione di legge entro dieci giorni dalla comunicazione del provvedimento.

2. Si applicano le disposizioni del terzo comma dell’art. 640 del codice di procedura penale. Si applica, altresì, l’ultimo comma dell’art. 631 del codice di procedura penale.

Rassegna di giurisprudenza

Abrogazione degli artt. 71 e ss. e istituzione, in conseguenza della riforma dell’art, 678 c.p.p., di una nuova disciplina derivante dagli artt. 666 e 667, comma 4, c.p.p.

L’art. 71-ter prescrive che contro le ordinanze del magistrato di sorveglianza è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge. Questa disposizione non può però essere messa a fondamento dell’affermazione circa la ricorribilità per cassazione del provvedimento de quo, per ragioni che sopravanzano la questione, pur di rilievo, se detta disposizione possa ancora dirsi operante. Sulla persistente vigenza di tale disposizione si è pronunciata la giurisprudenza più recente, ritenendo che debba considerarsi superata la tesi dell’ultrattività della disposizione - già non più applicabile per i provvedimenti del TDS - in riguardo ai provvedimenti del magistrato di sorveglianza, atteso che la novella del 2013 dell’art. 678 c.p.p. ha articolato una compiuta ed uniforme disciplina del procedimento di sorveglianza, con assoggettabilità dei provvedimenti, sia del TDS che del magistrato, al regime ordinario della ricorribilità per cassazione in ordine a tutti i vizi di cui all’art. 606 c.p.p. In tal senso si sono espresse Sez. 1, 30638/2017 e Sez. 1, 31595/2018, secondo cui “il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti adottati dal magistrato di sorveglianza è esperibile, oltre che per violazione di legge, anche per vizio di motivazione. Nella specie, la Corte ha, altresì, affermato che l’art. 678 c.p.p., come riformulato dal DL 146/2013, convertito con modificazioni dalla L. 10/2014, nel rinviare agli artt. 666 c.p.p. e, in alcune materie specifiche, 667, comma 4, c.p.p., ha assoggettato l’intero procedimento di sorveglianza ad una nuova disciplina, che non consente di riconoscere forza ultrattiva agli artt. 71 e ss.)”. Occorre preliminarmente considerare che il potere che la legge processuale attribuisce al magistrato di sorveglianza - per l’autorizzazione dei difensori all’esercizio dell’attività investigativa ove debba esplicarsi nell’assunzione di dichiarazioni da soggetto detenuto in espiazione di pena - non è tipico delle funzioni di sorveglianza, che sono quelle a cui la legge fa naturale riferimento nel dettare la disciplina del relativo procedimento. Si è di fronte, invero, ad un compito aggiuntivo, che inerisce allo svolgimento delle indagini difensive e che per essere ordinariamente impugnabile avrebbe dovuto formare oggetto di una espressa previsione in tal senso. La legge processuale, di contro, non lo assoggetta ad alcuna forma di controllo e quindi, in forza della generale regola della tassatività oggettiva delle impugnazioni, deve ritenersi inoppugnabile. Il ricorso in esame, seppur articolando motivi che deducono violazioni di alcune puntuali disposizioni di legge, prospetta però la possibilità di apprezzare nel provvedimento impugnato i tratti propri del provvedimento abnorme, in quanto emesso in difetto di potere e capace di interferire con le prerogative del pubblico ministero quale titolare esclusivo del potere investigativo e, dunque, della potestà di disporre, al di fuori della sede del giudizio, della fonte di prova costituita dal collaboratore di giustizia. Il ricorrente non ha espressamente evocato la categoria dell’abnormità ma ha implicitamente ad essa fatto riferimento nel prospettare i vizi del provvedimento quando ha denunciato che esso si risolve in una “inammissibile estensione dell’autorizzazione a casi non contemplati dalla legge” e ha aggiunto che “il magistrato di sorveglianza non aveva alcuna competenza funzionale in merito”; ed ha poi precisato che, avendo il collaboratore di giustizia già reso dichiarazioni nel procedimento nel quale l’assistito dei difensori richiedenti è imputato, la fonte di prova deve ritenersi nella esclusiva disponibilità dell’autorità inquirente, fatta eccezione per la possibilità che il collaboratore conferisca in ogni caso con il proprio difensore. È appena il caso di evidenziare che la prospettazione dei caratteri dell’abnormità fa sì che anche un provvedimento ordinariamente inoppugnabile possa essere soggetto al sindacato di legittimità, ponendosi la categoria dell’abnormità come deroga al regime di tassatività oggettiva dei rimedi impugnatori. Tanto premesso sulle ragioni di straordinaria sindacabilità del provvedimento impugnato, si osserva che il senso della previsione normativa circa l’autorizzazione per conferire con il detenuto e per ricevere da quest’ultimo dichiarazioni o informazioni non è certo dell’attribuzione al giudice, sia che si tratti del giudice per le indagini preliminari che del magistrato di sorveglianza, del potere di sovrintendere, anche eventualmente in prospettiva censoria, alla gestione delle investigazioni difensive e quindi di farsi arbitro della meritevolezza o meno di una determinata iniziativa difensiva. La finalità è ben diversa e in qualche modo molto più contenuta, essendo in gioco soltanto l’esigenza di rafforzare la tutela dell’esaminando in ragione del suo stato di restrizione carceraria. La persona con cui i difensori intendono conferire ha sempre la facoltà di non rispondere e quindi di sottrarsi all’esame; se però si trova ristretta in carcere, e quindi in una situazione di strutturale debolezza, occorre che un giudice possa vagliare l’astratta fondatezza dell’iniziativa investigativa del difensore che, in ogni caso, costituisce o può costituire una interferenza nella sua libertà di autodeterminazione. L’ovvia conseguenza è che, ove il soggetto da esaminare non sia detenuto, di un intervento autorizzatorio del giudice non v’è alcuna necessità. Nel caso in esame, il soggetto da esaminare è sì in espiazione di pena ma l’esecuzione sta avvenendo con applicazione di una misura non detentiva, quale è la liberazione condizionale con sottoposizione a libertà vigilata. Si tratta pertanto di persona non detenuta, rispetto alla quale un intervento del giudice in funzione di autorizzazione al compimento di atti di investigazione difensiva è eccentrico e del tutto estraneo al sistema. Già questa notazione giova a dar conto della fondatezza della doglianza, che esime dall’approfondimento dell’ulteriore profilo critico costituito dalla interferenza del provvedimento in esame con gli obblighi normativamente assunti con l’inizio della collaborazione con la giustizia, tra i quali rientra quello di “non rilasciare a soggetti diversi dalla autorità giudiziaria, dalle forze di polizia e dal proprio difensore dichiarazioni concernenti fatti comunque di interesse per i procedimenti in relazione ai quali hanno prestato o prestano la loro collaborazione” (Sez. 1, 46437/2019).

Per tutti i procedimenti di sorveglianza, in via generale, è consentito proporre ricorso per cassazione nell’ambito delimitato dall’art. 606 c.p.p., e non solo per violazione di legge come previsto dall’originario art. 71-ter, abrogato dall’art. 236 disp. att. c.p.p. (SU, 27/06/2006, Sez. 1, 28825/2019).

Nell’opinione del PG, l’art. 236 disp. coord. c.p.p. farebbe, invero, salva l’applicabilità delle disposizioni di cui alla L. 354/1075 - diverse da quelle di cui al capo 2-bis del titolo 2 della stessa legge - per le materie di competenza del TDS. La norma non reca alcun riferimento alle materie di competenza del magistrato di sorveglianza. Da ciò deriva che l’art. 71-ter Ord. Pen., contenuto nel capo 2 bis del titolo 2 della stessa legge, non sarebbe derogato per le competenze del magistrato di sorveglianza, di guisa che il ricorso per cassazione risulta in questi casi esperibile solo per violazione di legge. Il trasferimento delle norme sul procedimento di sorveglianza dalla legge penitenziaria al codice di procedura penale ha indiscutibilmente posto problemi di coordinamento tra le due normative. A quei problemi si è tentato di dare soluzione proprio con l’art. 236 disp. coord. c.p.p., la cui ratio evidente era quella di garantire l’ultrattività delle numerose disposizioni processuali presenti nella legge penitenziaria e non transitate nel codice di rito (norme diverse da quelle contenute nel capo II-bis del titolo II della legge stessa). In questa logica ed a prescindere dalla soluzione che le disposizioni di cui agli artt. 71-71 sexies possano ritenersi definitivamente abrogate, perché sostituite dagli artt. 678 e 666 c.p.p., si deve, comunque, annotare che non sarebbe condivisibile un ragionamento volto a validare l’interpretazione secondo cui nel procedimento innanzi al magistrato di sorveglianza, sia legittimo integrare il quadro normativo di riferimento con le disposizioni di cui agli artt. 71 e ss., ora ricavandone una disciplina combinata a quella dettata dagli artt. 666 e 678 c.p.p., ora una regolamentazione per specificazione - che aggiunge o riduce elementi e presupposti di tutela - incidendo e conformandone l’ambito di operatività. A parte i profili in cui le norme stesse presentano tratti di incompatibilità con il quadro sopravvenuto (basterebbe richiamare i rinvii alle disposizioni del codice del 1930) e quelli che pur farebbero propendere per un fenomeno abrogativo (art. 15 disposizioni preliminari c.c.) va precisato che il legislatore del 2014, proprio intervenendo sulla materia in esame, ha riformulato ex novo l’art. 678, comma 1, c.p.p. La novella, attuata con il DL 146/2013, convertito con modificazioni nella L. 10/2014, ha introdotto lo statuto processuale da seguire per le decisioni del TDS e del magistrato di sorveglianza ed operando rinvio all’art. 666 c.p.p. ed in alcune materie specifiche all’art. 667, comma 4, c.p.p., ha inteso assoggettare l’intera materia ad una nuova disciplina, che non lascia residuare spazi interpretativi da cui inferire una forza ultrattiva degli artt. 71 e ss. Del resto, diversificazioni significative da riservare ai procedimenti di competenza monocratica rischierebbero di legittimare interpretazioni poco ragionevoli, proprio sui temi e sui nuclei centrali dell’effettività della difesa giurisdizionale. Non sarebbe, infatti, immediatamente spiegabile la ragione per la quale i provvedimenti del magistrato di sorveglianza dovrebbero essere ricorribili per cassazione per sola violazione di legge, mentre quelli collegiali del TDS potrebbero essere censurati anche per l’aspetto afferente il vizio di motivazione. Ciò nonostante uno statuto normativo comune in rito, che per entrambi contempla la ricorribilità, attraverso le medesime disposizioni regolatrici (artt. 678 e 666 c.p.p.) ed al cospetto dei tipici vizi di legittimità (art. 606 c.p.p.) (Sez. 1, 30638/2017).

Deve essere affermata la generale sindacabilità, in cassazione, dei provvedimenti del magistrato di sorveglianza, anche sotto il profilo del vizio di motivazione. L’iniziale orientamento contrario, espresso in sede di legittimità, deve intendersi infatti superato alla stregua dell’art. 678 c.p.p., come riformulato dal DL 146/2013, convertito dalla L. 10/2014, che ha assoggettato l’intero procedimento di sorveglianza ad una nuova disciplina, che non consente più di riconoscere forza ultrattiva agli artt. 71 ss. Tale approdo ermeneutico si impone sul piano letterale e sistematico, nonché in chiave d’interpretazione costituzionalmente orientata, stante il comune statuto normativo in rito dei procedimenti di sorveglianza, sia monocratici che collegiali, che include in tutti casi la possibilità (art. 666, comma 6, c.p.p.., richiamato dal successivo art. 678) di ricorrere per cassazione senza limitazione di motivi proponibili, funzionale a garantire l’uniformità, e tramite di essa, l’effettività della difesa giurisdizionale (Sez. 1, 31595/2018).